UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 25 novembre 2025

IL DIPINTO LA LIBERAZIONE DI LUIGI MELANDRI 
di Angelo Gaccione


Luigi Melandri
 
Il giorno stesso in cui ho pubblicato sulla prima pagina di “Odissea” lo scritto su “Casa Crescenzago” (lunedì 17 novembre 2025 - riporto il link per comodità di lettura) https://libertariam.blogspot.com/2025/11/casa-crescenzago-di-angelo-gaccione-h-o.html in cui fra le varie foto avevo inserito un grande quadro ispirato alla Liberazione, di cui non mi era stato possibile indicare autore e titolo, mi ha telefonato lo storico libertario Franco Schirone per dirmi che possedeva un manifesto del dipinto e che portava il titolo La Liberazione 25 Aprile 1945


Manifesto tratto dal dipinto
La Liberazione 1945
stampato dalla dalla Casa Editrice Sociale
 

Ne discutemmo a lungo e si prese l’impegno di scoprire chi fosse l’autore. Così fece, e dopo qualche giorno mi mandò una serie di dati. Si trattava del pittore e illustratore Luigi Melandri nato a Mezzano (frazione di Ravenna) nel 1892 e morto a Milano nel 1955. I dati che mi mandò l’amico Schirone, mi servirono per mettermi sulle tracce di Mezzano che può vantare, come ho poi appurato dalla gentilissima Lidia Ricci Lucchi, presidente dell’Associazione Culturale di volontariato “Percorsi”, una biblioteca di ben quattordicimila volumi: la “Biblioteca Giulio Ruffini”. Infatti l’associazione “Percorsi” ha fondato e gestisce la biblioteca oltre a promuovere la ricerca e la valorizzazione della storia, della cultura, delle tradizioni del proprio territorio attraverso le varie forme espressive artistiche e culturali. La signora Ricci Lucchi mi ha fornito una quantità importante di notizie, e alla sua delicata disponibilità devo il contatto con la nipote dell’artista, la professoressa Rina Melandri socia di “Percorsi”.


Lidia Ricci Lucchi in Biblioteca
con Maria Di Salvo

Da Schirone appresi che il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano conserva delle copie del manifesto ricavato dall’opera in questione, arrivato lì dal fondo dell’editore Giuseppe Monanni che ha donato il suo archivio. Avevamo dunque ulteriori prove dell’autore e dell’opera, come si può vedere da questa nota: “Nel fondo dell’editore anarchico Giuseppe Monanni (1887-1952) custodito presso il Centro Apice sono conservate alcune copie di un manifesto litografico stampato dalla Casa Editrice Sociale per la Liberazione. Il manifesto dal titolo La Liberazione 25 Aprile - 1945, è tratto da una tempera a colori di Luigi Melandri (1892-1955), illustratore e pittore, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Ravenna nel 1914. 



Dapprima attivo sul territorio romagnolo, ben presto entra in contatto con gli ambienti culturali milanesi, in particolare con editori socialisti e anarchici con i quali inizia a collaborare assiduamente. Lunga, feconda e solida fu la sua amicizia con Leda Rafanelli, propagandista e scrittrice prolifica, compagna d’arte e di vita di Giuseppe Monanni, insieme a lui fondatrice della Casa Editrice Sociale. Moltissimi libri pubblicati dalla Casa Editrice Sociale portano in copertina il segno originale e ricercato dei bozzetti di Luigi Melandri. Vanno inoltre ricordate le sue collaborazioni con il «Corriere dei piccoli» (dal 1921 al 1946), e con le case editrici Modernissima, Facchi, Morreale, Istituto Editoriale Italiano, Paravia, Vallardi, S.E.I., U.T.E.T, Carabba, Sandron, tra le altre”.


La Madonna dipinta da
Luigi Melandri

Le conversazioni telefoniche con la signora Ricci Lucchi mi ha permesso di arricchire le mie conoscenze sull’autore e di ricevere le foto di numerosi quadri di Melandri (quasi tutte nature morte, dettagli di paesaggi, un paio di vedute domestiche), fra cui quello di una Madonna in preghiera donato di recente alla biblioteca G. Ruffini. Sul retro della tela si può leggere la seguente iscrizione apposta dal farmacista Matteucci di Mezzano (che è il donatore): “Nel giorno delle sue nozze in segno di sincera amicizia con vivissimi auguri offro. G. Matteucci e F [Famiglia]. Come mi scrive Ricci Lucchi, “Fu un regalo alla madre della famiglia Salvagiani di Mezzano, ovvero della famiglia di Rodolfo Salvagiani partigiano, cooperatore e senatore”. La data riporta Mezzano 29 ottobre 1943.


La scritta sul retro della tela

Tante anche le foto delle copertine dei libri che Ricci Lucchi mi ha inviato, con le splendide illustrazioni di Luigi Melandri. Esposte tutte assieme comporrebbero una vera e propria mostra pittorico grafica. Io avevo visto qualche copertina in Rete, libri di carattere più politico e militante, mentre Franco Schirone mi aveva girato quella con la figura in primo piano di Louise Michel. 



Da parte mia ho potuto dare agli amici di Mezzano le notizie sul dipinto La Liberazione e di quanto avevo appreso a proposito del fondo custodito al Centro Apice. Merita di essere esposto questo dipinto milanese, magari a ridosso delle iniziative del prossimo 25 Aprile, in un luogo idoneo dove si possa discutere dell’autore e dell’opera, e ci attiveremo. Nel mio articolo, ignorando se il quadro ne avesse uno di titolo, l’avevo battezzato una Pietà partigiana, per via di quella madre dolorosa che regge i corpi dei figli morti. Ora conosciamo il titolo e l’autore, e dobbiamo custodirlo e valorizzarlo come merita.

IL CONTRATTO DEI METALMECCANICI
di Franco Astengo

 
È stato firmato il contratto dei metalmeccanici che prevede 205,32 euro di aumento medio. L’intesa è stata raggiunta dopo una lunga trattativa da Federmeccanica e Assistal con Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm.
 
Il contratto scaduto a giugno 2024 è stato rinnovato dopo 17 mesi di difficili trattative caratterizzate da ripetuti “stop and go”, con una rottura del tavolo, 40 ore di sciopero e manifestazioni in tutt’Italia, e dalla metà di luglio una ripresa del negoziato. L’aumento mensile che al livello medio (C3 ex 5° liv.) è di 205,32 euro, porterà ad un aumento di 177 euro dei minimi per i prossimi tre anni. La prima rata di 27,70 euro è stata già erogata il 1° giugno 2025, la prossima tranche di 53,17 euro sarà pagata il 1° giugno 2026, gli ulteriori 59,58 euro il 1°giugno 2027, la quarta tranche di 209; 64,87 sarà corrisposta il 1° giugno 2028. Gli aumenti contrattuali pari al 9,64%, sono superiori al tasso di inflazione Ipca previsto del 7,20%, ma spalmati su 4 anni e non più su 3. Aumentano anche i Flexible benefit completamente esentasse, dagli attuali 200 euro a 250 euro da erogare entro febbraio 2026 che nel periodo 2021-2028 raggiungono così la somma di 1.750 euro netti per ciascun addetto. Importanti novità riguardano anche le parti normative del Ccnl, con l’’ampliamento a 96 delle ore/anno per l’orario plurisettimanale per meglio bilanciare i carichi di attività e il contestuale innalzamento a 128 ore del tetto tra plurisettimanale e straordinario in quote esenti. Si prevede che i contratti a termine possano superare i 12 mesi di durata a fronte di specifiche causali, ma dal 2027 le causali per prorogare i contratti di 12 mesi potranno essere usate solo se saranno stabilizzati almeno il 20% dei precedenti contratti a tempo determinato. Sullo Staff-leasing è stato introdotto il diritto dopo 48 mesi ad essere stabilizzati a tempo indeterminato presso l’azienda oggetto della missione.



Il contratto dell’antica “classe generale” quella che esprimeva il sindacato “soggetto politico” nel passaggio per dirla con Bruno Trentin “da sfruttati a produttori”.
Abbiamo riportato integralmente i principali passaggi dell’accordo contrattuale rilevandolo dal sito del ‘Sole 24 Ore’, ovviamente non siamo in grado di fornire una valutazione di merito: questo testo è finalizzato soltanto a segnalare non solo la diversità dai tempi trascorsi quando il contratto dei metalmeccanici era il “contratto” che segnava un’intera stagione economico- sociale. È il caso di approfondire invece il quadro generale all’interno del quale la firma del contratto si situa (per combinazione la firma dell’intesa ha coinciso con la decisione di Moody’s, una delle più influenti società di ricerche finanziarie al mondo, ha migliorato la sua valutazione (il rating) dell’Italia. Tecnicamente lo ha portato da Baa3 a Baa2. Decisione intorno alla quale il governo di destra ha battuto la grancassa soprattutto al riguardo della “stabilità”). Anche per la sinistra politica il contratto dei metalmeccanici non assume più un aspetto di “centralità”. Una sinistra alle prese con ormai storiche difficoltà di radicamento sociale e, nella fattispecie, con l’idea che prevalentemente gli operai dell’industria si sono spostati a destra perché trascurati nella loro condizione di vita e di lavoro e sensibili al richiamo corporativo. Quanti sono i dipendenti nell’industria metalmeccanica in Italia? Più di 1,8 milioni (dati Istat) se contiamo anche il lavoro interamente sommerso (che avrebbe un’incidenza relativamente bassa in questi comparti) e quel po’ di occupazione metalmeccanica attiva in imprese che ufficialmente non sono metalmeccaniche: al netto di queste due componenti, gli occupati delle imprese metalmeccaniche sono circa 1,7 milioni. Alla vigilia della crisi superavano i due milioni: in un quinquennio le imprese metalmeccaniche hanno dunque bruciato circa 300 mila posti di lavoro. Un terzo di questa perdita, è concentrata nei settori della fabbricazione di prodotti in metallo (come generatori, caldaie, armi, ferramenta) che - insieme all’industria meccanica - esprimono il grosso dell’occupazione metalmeccanica.


Sorge una domanda:
 Questo contratto come si colloca nel quadro complessivo della situazione industriale che appare - tra l’altro - dominata dalla vicenda ILVA e dalla concreta possibilità di secco ridimensionamento della presenza della siderurgia in Italia. Ci troviamo nella situazione dell’ennesimo passaggio nella lunga storia dell’apparentemente irreversibile declino dell’Italia dei settori fondamentali nella produzione industriale. L’Italia si trova in una situazione d’incapacità di difesa del proprio residuo patrimonio economico soprattutto perché si trova di fronte ad uno specifico intreccio perverso tra politica ed economia che ha finito con il paralizzare scelte fondamentale che sarebbero state necessarie, soprattutto dal punto di vista dell’intervento del pubblico sia sul piano degli investimenti che della gestione. Il quadro complessivo appare di grave insufficienza anche dal punto di vista della realtà finanziaria e delle infrastrutture. Il tessuto produttivo nazionale attraversa, da anni, una crisi strutturale che condiziona l’economia del Paese e non si è mai riusciti a varare una sintesi di programmazione economica, all'interno della quale potesse emergere la capacità di selezionare poche ed efficaci misure, in grado di incrociare la domanda di beni e servizi e promuovere una produzione di medio e lungo periodo. Appaiono, inoltre, in forte difficoltà anche gli strumenti di rapporto tra uso del territorio e struttura produttiva; strumenti ideati nel corso degli ultimi vent'anni allo scopo di favorire crescita esviluppo: il caso dei distretti industriali, appare il più evidente a questo proposito. Da più parti si sottolinea, giustamente, il deficit d’innovazione e di ricerca. Abbiamo verificato il determinarsi di una vera e propria involuzione del sistema con il Paese ormai praticamente privo di capacità industriale nei settori strategici, dopo la sbornia delle privatizzazioni e l’aver adottato, fin dagli anni ’80 strategie sbagliate proprio sul terreno del modello di sviluppo. Avremmo avuto bisogno invece, di programmazione e di capacità di gestione verso i soggetti capaci di generare innovazione: l’Università, in primis, l’Enea, il CNR, le grandi utilities, le infrastrutture.


Come può essere possibile affrontare oggi questo frangente che minaccia di far chiudere quasi completamente la storia della siderurgia in Italia e di far compiere un altro passo indietro alla presenza industriale complessiva del Paese in un quadro internazionale di grandissima difficoltà caratterizzato dai dazi di Trump. dai venti di guerra, dall’aggressività cinese in tutti i campi, dall’arresto del processo di globalizzazione, dalla crisi latente in Paesi il cui sviluppo tecnologico e industriale risulta decisivo come nel caso della Germania. Si sta delineando un processo lungo e difficile, il cui presupposto dovrebbe essere quello di non affidarsi semplicemente al mercato e ai suoi meccanismi. Deve emergere una capacità di previsione da parte dell’intervento pubblico, sia sotto l'aspetto della programmazione, che della correzione degli indirizzi generali: ed è questo che è mancato e continua a mancare da parte dei soggetti politici. Il momento è talmente drammatico che sarebbe complicato aggiungere qualche altra osservazione salvo quello della necessità e urgenza di un intervento di natura politica capace di fornire una nuova qualità d’indirizzo nella presenza industriale. Non basta la firma del contratto: Il frutto dell’assenza di una politica industriale da parte dei diversi governi succedutisi nel tempo e da scelte compiute al riguardo dello smantellamento dell'intervento pubblico in economia e relative privatizzazioni.

 

 

 

 

BASILE E IL SUO LIBRO



A GENOVA IL 27  NOVEMBRE

 



A SABAUDIA IL 30 NOVEMBRE




NON NEL NOSTRO NOME
Cento poeti per la dignità umana. A ChiAmaMilano - Milano.





 

BIBLIOTECA SORMANI MILANO
Con Sammito, Rivali, Bacigalupo.





lunedì 24 novembre 2025

ULIVI E FRANTOI  
di Giuseppe Cinà


 
In una campagna sempre più metastasi della città i frantoi sono come musicanti di una banda ormai sciolta che ne riportano brani sparsi di musica. Musicanti frastornati, che si confrontano con contrastanti dinamiche di espansione (in aree pianeggianti) e abbandono (in aree collinari) degli uliveti a fronte dello schizofrenico mercato globale. In Sicilia gli agrumeti erano i giacimenti di oro rosso, con due ettari di mandarini un agricoltore accorto riusciva a mandare un figlio all’università, ma richiedevano impianti specializzati e cospicui investimenti. Invece gli oliveti, i giacimenti di oro verde, non richiedevano impianti specializzati. Presenti da sempre, le tracce di una gestione antropica dell'ulivo in Sicilia datano ben 3.700 anni fa. Gli ulivi erano ubiqui, crescevano da un ceppo selvatico autoctono anche in terreni impervi e quando posti fuori dalle proprietà presidiate appartenevano a tutti o quasi. Ancora negli anni ’50 del secolo scorso, nella piana di Palermo passavano i cambiatori di olio. Prendevano i pochi chili di olive che la gente raccoglieva da terra, per le strade e i sentieri dove stavano ulivi non ancora raccolti, e a occhio davano in cambio una carraffina di olio corrispondente al peso ricevuto. In attesa del raccolto, ritardato per far maturare al massimo i frutti, non si lasciavano marcire a terra le olive cadute solo perché attaccate dalla mosca.



Ottobbri, iàmu, è ura di cògghiri l’alivi direbbe un D’Annunzio siciliano, ma Ora in terra di Sicania li me viddani li troviamo solo sepolti nei testi delle poesie dialettali di vecchio conio. Contenitori capienti quelle poesie, ma insufficienti per contenere la memoria di una epopea che vedeva per due mesi interi tutti i siciliani impegnati nelle varie operazioni della raccolta, dalle vestitissime ‘femmine’ che raccoglievano a terra le olive che gli uomini buttavano giù a colpi di ramazzo, ai burgisi, ai grandi possidenti ex nobili in continua via di estinzione, agli indispensabili sensali, ai vari artigiani che provvedevano tutti i materiali necessari, legni corde e metalli, via via fino ai frantoiani. 



E questo da Capo Passero a Capo San Vito ma con sensibili differenziazioni. L’ulivo infatti, pianta rustica e adattabile, per molteplici ragioni cedeva il passo alla presenza degli agrumeti nelle piane e delle aree a frumento nelle colline, ai noccioleti e ai castagneti in quelle montane, e si adattava ai terreni pietrosi e marginali lasciando quelli migliori alle coltivazioni più redditizie. 



Si adatta ancora oggi, in piantagioni che non si relazionano tanto alle condizioni naturali, al tipo di terreno e ai diversi modi di sfruttarlo, ma ai modi di corrispondere alle premialità delle politiche della PAC, alle nuove forme di coltivazione poste in essere dai nuovi macchinari e in ultimo alla scomparsa dei contadini.
Al loro posto oggi troviamo diversi nuovi soggetti, che vanno dalle squadre di raccoglitori a percentuale nelle aziende agricole, dotati di abbacchiatori e scuotitori a pinza capaci di raccogliere bel oltre la tradizionale media giornaliera di un quintale/uomo, ai piccoli proprietari, usciti fuori come chiocciole dopo la pioggia, spesso cittadini con nessuna dimestichezza con il lavoro di campagna ma motivati sul piano ambientalista e sul ritorno alla tradizione.



La varietà di attori la si scopre in tutta evidenza quando si va al frantoio. Qui, a parte i pochissimi che hanno mantenuto la lavorazione a freddo con macina in pietra e fiscoli, la scena è quella di un opificio moderno, dove la molitura avviene in un’ora al massimo contro le intere giornate necessarie nel passato; ci sono impianti che riescono a fare anche 24 lavorazioni contemporaneamente. Ma l’affollarsi dei tanti produttori nel giro di poche settimane produce lunghe code di attesa prima che le olive vengano pesate e messe in macchina. Ed è in questa attesa, in questo tempo morto del guardare, con il corpo ancora caldo del lavoro intenso della giornata, che si annida un barlume della memoria della molitura di una volta. Certo, non ci sono più i trasportatori a spalla né i ‘filosofi’ di mano nodosa e cervello fino che nell’attesa della molitura discettavano sui come e perché delle cose del mondo, ma ci sono le persone di oggi. 



I vecchi naturalmente, che sono i figli dell’ultima generazione dei contadini ‘in purezza’, e i loro figli, persino ragazze, madri, nonne (quando mai si erano viste delle donne nei frantoi?). Poi ci sono gli immigrati, in maggiorana africani, e i professionisti scappati dagli uffici, che mai avevano avuto a che fare con la campagna da giovani e ora si trovano a gestire un bene di famiglia, talora con poche decine di alberi, ma che sfida a una scelta, occuparsene o venderlo a un villettaro più o meno abusivo. Professionisti che mai avrebbero pensato di inventarsi olivicultori se non obbligati perché il padre è morto e bisogna occuparsi di quanto ereditato. “Noi siamo ormai una famiglia larga sparsa in tutta Italia e oltre, mi diceva una matura signora, e per un motivo o per un altro sempre meno riuscivamo a vederci una volta l’anno a Natale. Ma ora che siamo obbligati a curare l’uliveto, e abbiamo scoperto che fare l’olio ci rende felici, riusciamo a vederci tutti sdoppiando la data di incontro. Chi può viene a Natale, chi non può viene per la festa della raccolta”. 



Fanno altresì la loro comparsa gli italiani che abitano e lavorano all’estero, qualcuno magari accompagnato dalla moglie olandese e la loro bambina anch’essi ormai sedotti dall’uliveto di famiglia. Dulcis in fundo ci sono i veri nuovi agricoltori, quei giovani che hanno optato per il lavoro in campagna, in autonomia e come contoterzisti, i sognatori concreti che affrontano le enormi difficoltà di un mercato che marginalizza le piccole imprese e le coltivazioni biologiche.
E così nell’attesa dell’esaurirsi della coda, un popolo di diversi si aggira da estranei ma guardandosi con rispetto e solidarietà. Si guardano i cassoni pieni delle olive degli altri, si confrontano con le proprie, si fanno domande, si confronta la carica di quest’anno con la meteorologia, la varietà dei miei alberi con quelli tuoi, la potatura annuale con quella biennale, e si ride, si commenta, si scruta la partita che viene molita prima della propria, saranno olive da coltivazione biologica o sono state trattate con antiparassitari? E il mondo di fuori è scomparso, risucchiato nella grande tramoggia dove si svuotano i cassoni di olive e negli assordanti macchinari per la defogliatura, la gramolatura e la centrifugazione. Ne uscirà purificato sotto forma di olio, che scivola silenzioso, morbido e profumato sotto gli occhi avidi di chi lo ha prodotto. Avidi ma non in ambasce come quelli del contadino capofamiglia di una volta, che non sempre riusciva a portare a casa l’olio per il fabbisogno familiare per l’anno a venire. 



Oggi, con i supermercati traboccanti di olio sedicente extravergine a prezzi stracciati, nessuno corre rischi e dunque nessuno guarda più con occhi lucidi il fiotto di olio che sbocca sul vassoio di acciaio inossidabile da dove lo spillerà. Eppure tutti stanno sempre a chiedersi quanto ‘butta’ l’oliva quest’anno, cioè quale percentuale di olio produrrà rispetto al suo peso, da dove può dipendere la maggiore o minore resa da un anno all’altro e di una zona rispetto a un’altra.
E tutti sentono il brivido di muoversi in un mondo che ci racconta ancora la nostra storia, ne colgono i contorni ancorché molto sfumati, ne tentano nuove interpretazioni. Si lanciano alla sua scoperta e allo studio, leggono, cercano gli esperti, attingono alle effimere chat dei social, seguono corsi di potatura, si commuovono alla vista degli ulivi centenari e millenari, scoprono insomma che esiste ancora un mondo che fu. Un mondo che è un impeto che muore come un dialetto che nessuno parla più, inghiottito da quel niente travestito da nuovo che avanza, ma che manifesta tuttavia non secondarie risorse di resistenza.



Un mondo che corre all’impazzata incurante dei pericoli che lo minacciano. Noi vecchi non riusciamo quasi più a parlare di questi pericoli, anzi delle catastrofi che incombono. Forse perché non abbiamo più la forza necessaria per affrontarli e allora perché piangerci addosso, fare le Cassandre e renderci la vita ancora più pesante? Meglio pensare che i giovani sapranno trovare una loro via d’uscita (forse lo fanno già e noi non lo sappiamo) e restare comunque operosi: per dirla con Voltaire “bisogna coltivare il nostro giardino”.
A sera, la famiglia dei nuovi agricoltori aspetta i valorosi tornati tardi dal frantoio con l’olio nuovo e approntano il primo assaggio. L’olio vorrebbe un mese di risettu per ricomporsi dopo la spremitura, appena un’ora dopo è ancora acerbo, troppo amaro. Ma i nuovi adepti dell’ulivo giustamente non sanno aspettare e via con la bruschetta di pane tostato e poi bagnato sul pelo dell’olio versato in un piatto. L’olio, ancora arrabbiato, si scalda e si scioglie in un profumo che chiama in causa tutte le fragranze della mediterraneità.



Al mattino il sole chiama alla sacra discesa al mare, i giovani venuti a dare una mano ai grandi vengono dal lontano nord, ma non si può smettere, le olive continuano a maturare, i polifenoli poco a poco si ammansiscono, l’olio perde profumo. Aiutano nonna Caterina e nonna Simona, che raccolgono le olive ancora a mani nude, per loro la raccolta è un atto di devozione e ringraziamento. Una bimba gattona per terra sulla rete stesa sotto un albero, con mucchi di olive formatisi qua e là, i suoi ditini tentano di prenderle ma le scappano dalle mani, è sedotta dai mille colori che vanno dal verde al viola. Ogni tanto riesce a prenderne una e subito la mette in bocca, la soppesa, si accorge che non può mangiarla, la sputa. Una è molto matura e gocciola un sugo viola chiaro, lo lecca, curiosa e pensosa, poi la mette via e ne cerca un’altra. Una piccola Cerere sta cominciando a esplorare il mondo dal lato giusto. Poesia.



Al contempo, intorno a queste tante e piccole isole di paradiso, c’è la smarrita campagna di oggi, quella che già mezzo secolo fa Ceronetti vedeva “umiliata, sofferente, che si vergogna di non poter sparire, nella quale ogni nuovo insediamento industriale è come un vistoso chiodo nella carne, disperata di non avere difesa. La peste chimica l’avviluppa completamente, di sopra e di sotto, di dentro e di fuori, animali, esseri umani, piante, suolo, acque d’irrigazione, acque profonde. La gente che rimane accetta tutto, con una passività di pollaio: non è felice, ma non sa reagire all’incantesimo” (Guido Ceronetti, La carta è stanca, 1976). Non sa reagire al punto che persino l’orrore delle lugubri fattorie fotovoltaiche viene venduto e accolto come un fulgido esempio di evoluzione tecnologica verso un ambiente più resiliente. In questa distopia vorremmo sperare che i frantoi e gli uliveti ripopolati, che stanno sopravvivendo persino alla xylella, diventino un fortino di resistenza, un altro avamposto per presidiare il futuro. Se salveremo l’ulivo salveremo il mondo.

 

DIPLOMAZIA: APPELLO AL MOVIMENTO PER LA PACE
di Franco Astengo


 
È arrivato il momento in cui il movimento per la pace deve sapersi misurare con lo spinoso nodo della diplomazia. Il conflitto che si sta svolgendo da quattro anni nel cuore dell’Europa si trova ad un possibile punto di svolta: su di un crinale scivoloso. L’intesa tra USA e Russia potrebbe sortire, infatti, un esito di vera e propria trasformazione dell’insieme delle relazioni internazionali in ispecie sul piano europeo. È necessario ed urgentissimo che il movimento per la pace (che pure ha dato in questi ultimi anni alcune prove di capacità transnazionale) si rivolga alle forze politiche della sinistra perché si giunga ad una proposta che consenta una presenza al tavolo che non consista semplicisticamente all’idea della prosecuzione del conflitto e del processo di riarmo dei singoli Paesi (“in primis” della Germania). Dovrebbe essere considerata la possibilità di proporre una conferenza di pace sul suolo europeo nella quale si riesca a discutere dell'assetto complessivo del Continente. Il tema della pace può essere declinato soltanto intervenendo attivamente sulla politica estera compiendo scelte di programma anche difficili e rovesciando anche alcune impostazioni “storiche”. La presidenza Trump ha spostato diversi punti di riferimento mandando in crisi il sistema di relazioni sovranazionali NATO inclusa: un sistema di relazioni cui la destra si è prontamente acconciata. Per la sinistra è rimasto scoperto un campo d’intervento decisivo: quello europeo. È necessario riflettere appunto sullo spazio politico europeo. Senza farla lunga limitiamoci all’analisi del concetto teorico di “neutralità” che potrebbe essere collegato alla definizione di uno spazio politico europeo e alla presenza di una sinistra sovranazionale. In senso stretto neutralità è la situazione giuridica regolata dal diritto internazionale di estraneità e di equidistanza di uno Stato in presenza di un conflitto armato, tra gli stati. L’istituto ha una lunga storia di convenzioni e norme. Il concetto, invece, pone una serie di problemi, provocati dalla pluralità dei significati di neutralità e dei termini giuridici e politici da esso derivanti (neutralizzazione, neutralismo) ma soprattutto dalla relazione di neutralità con concetti come guerra, terzo, amicizia. Oggi l’idea di “neutralità” potrebbe essere collegata a una ripresa del discorso su di una “terza via” riferita non semplicemente alla ricerca di un equilibrio tra sistemi politici ma all’elaborazione di una strategia globale posta sul piano delle relazioni internazionali riportando al centro l’idea fondamentale del rapporto Nord/Sud in un quadro di recupero degli organismi sovranazionali nel senso di un re-orientamento nell’utilizzo delle risorse e di complessiva smilitarizzazione. Questo potrebbe essere il tema della proposta di conferenza di pace. Potrebbe essere possibile allora avanzare una proposta di struttura politica europea fondata sulla ripresa di alcune concezioni di carattere costituzionale e di ruolo degli organismi elettivi in un disegno di raccordo tra il lavoro dei Parlamenti Nazionali e di quello Europeo. La sinistra potrebbe tentare di muoversi per costituzionalizzare la neutralità in parallelo con la nascita di uno spazio politico europeo nel quale agire in una dimensione di potestà sovranazionale. Una sovranazionalità che ritorni ad individuare un nesso con il concetto di neutralità codificato in passato, tra gli altri, da Grozio, Wolff, Vattel e poi ripreso da più parti nel cuore della “guerra fredda” (smilitarizzazione e neutralità: pensiamo al Piano Rapacki). Una sinistra sovranazionale che recuperi la centralità del diritto pubblico europeo come proprio fondamento nel determinare l’indirizzo della propria politica e ritrovi autonomia nella complicata, difficilissima contesa internazionale.

LA FAMIGLIA NEL BOSCO
di Laura Margherita Volante 


 
I bambini nel bosco tolti alla famiglia. 
 
La famiglia nel bosco, così chiamata, una coppia di genitori dalla visione educativa pressoché rousseauiana, rappresenta una minaccia ad un sistema sociale, che si regge su regole e su convenzioni spesso contraddittorie, la cui rigida applicazione per fare giustizia può commettere gravi ingiustizie.
La società è attraversata da fenomeni sociali inquietanti per incapacità a gestirle, da parte di chi presiede a tale compito, non investendo in percorsi di formazione. educativi e culturali. Propagande consumistiche, illusorie di benessere, modelli mediatici irrealistici sono il veleno per molti bambini alla ricerca della propria identità. Infatti, il conseguente malessere generale si declina fra violenze in aumento, omicidi/suicidi, e devianze soprattutto fra gli adolescenti, ribelli senza causa, fra dipendenze e coltelli, come simboli di forza e di potere. Rousseau basa la sua teoria pedagogica sul principio educativo, fuori dalla società che corrompe e non educa. Emilio, il bambino protagonista del suo romanzo dal titolo stesso, viene allontanato dalla società per vivere in campagna, affinché cresca libero e felice, educato secondo le leggi della natura. 




Strappare i bambini dalla famiglia nel bosco, sopra citata, per affidarli ad una comunità educativa è un atto che avrà conseguenze traumatiche sui bambini stessi, mentre altri sono abbandonati al loro destino fra degrado ambientale, violenze, omicidi di nuclei familiari allo sbando. Quanta malafede e incapacità di identificare i problemi e relative soluzioni umane. I due genitori del bosco, come scelta di vita, sono persone che hanno deciso di educare i loro tre bambini secondo una visione ecologica, non condizionata dalla società, che non garantisce autonomia indipendenza libertà ed equilibrio psicosomatico, offrendo loro istruzione, vita sana, capacità motorie e creatività, oltre all’amore in un clima familiare sereno.
Il coraggio di vivere fuori da schemi imposti da una società malata che brancola nel buio è lo scandalo dei tempi nostri, in mano a guerrafondai, con l’uccisione di migliaia di bambini nell’orrore di guerre e distruzioni in più luoghi del pianeta. Il problema dunque è la famiglia nel bosco?

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Mancini e la ricerca della felicità. Conduce Samuele Santacroce.









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