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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
mercoledì 24 dicembre 2025
IL FANATISMO PUÒ ESSERE UN
CANCRO
La vita ebraica qui non è mai
stata astratta o simbolica. È stata costruita, organizzata, discussa e
sostenuta da persone che concepivano l’ebraismo come una cultura viva, non come
uno slogan o un test. Sono cresciuto in una comunità ebraica moderata, plurale
e intellettualmente vivace. Gli ebrei discutevano. Erano in disaccordo su Dio,
la politica, Israele, l’etica, la cultura. L’istruzione era importante. Il
pensiero indipendente era importante. L’ebraismo non era obbedienza; era
partecipazione a una civiltà in continua evoluzione. Questo non era casuale.
Era il fulcro della sopravvivenza ebraica. Poi è arrivata la setta
ultraortodossa Chabad-Lubavitch, e la comunità si è sionistizzata.
Un movimento che rivendica la superiorità morale,
scoraggia l'istruzione, esige obbedienza e non protegge i propri figli ha perso
ogni pretesa di autorità etica. Questo non è casuale. È strutturale. L’ideologia
che lo rende possibile è importante. Al centro della teologia Chabad c’è la
Tanya, che insegna una distinzione fondamentale tra anime ebraiche e non
ebraiche. Quando questa idea viene vissuta socialmente, anziché trattata come
misticismo astratto, produce un universo morale chiuso, che scoraggia l’empatia,
il dissenso e la responsabilità. Questa visione del mondo plasma anche la
politica. Per anni, Chabad ha promosso un sostegno acritico agli elementi più
estremisti della destra israeliana. I movimenti dei coloni vengono celebrati.
La forza viene estetizzata. L’esitazione morale viene inquadrata come
tradimento. Durante la guerra di Gaza, ciò che molti ebrei hanno vissuto come
dolore o crisi morale è stato pubblicamente accolto con applausi e assolutismo.
Credo che questa posizione sia stata disastrosa, eticamente, culturalmente e
strategicamente.
IL COMUNICATO DI ANGELO D’ORSI
E la
feccia guerrafondaia che impazza nel Paese e si è infiltrata nella Sinistra.
Il 22 dicembre, l’ANPI di Napoli, Sezione Napoli Orientale “A.
Ferrara”, si è svolta la mia prevista conferenza su “Russofilia Russofobia
Verità”, quella che era stata boicottata per due volte, in parte ricuperata e
Roma all’Istituto di Cultura e Lingua Russa sabato 20, che aveva comunque un
titolo diverso. Oltre a me, era invitato Alessandro Di Battista, che ha parlato
per primo, con un intervento breve e appassionato. A me toccava disegnare il
quadro storico dei due opposti concetti (filia e fobia, in relazione al mondo
russo). Alla fine chi coordinava (il presidente della Sezione ANPI, Franco Specchio)
ha dato la parola al pubblico. Si alza in piedi urlando a squarciagola un
giovane, mentre si toglie la camicia ostentando una maglietta inneggiante
all’Ucraina. Contemporaneamente il medesimo gesto compie un manipolo di suoi
sodali che occupavano due file di sedie (mentre molte decine di persone erano
in piedi, o sdraiate sul pavimento), e si sparpagliano per l’aula cercando di
infilare nei vestiti dei presenti una spilletta con coccarda ucraina.
Ovviamente il pubblico (quello venuto per ascoltare ed eventualmente
interloquire) non l’ha presa bene. Segue parapiglia, il giovane energumeno che
aveva dato inizio alle ostilità si precipita verso la cattedra e vi sale sopra
cercando di strapparmi il microfono dalle mani, fino a romperlo, mentre suoi amici
si avventano verso di me e il presidente Specchio, cercando ripetutamente di
infilare le loro spillette nelle nostre camicie, un gesto violento e arrogante
che noi respingiamo. Il clima si surriscalda e un paio di amici cercano di
farmi uscire, ma veniamo inseguiti da colui che appare manifestamente il capo
della banda, che correndomi dietro, cerca di provocarmi con domande alla
Calenda o alla Picierno (cosa ci faceva in Russia? Et similia…). Non aspetta
risposte, manifestamente, perché se le dà da solo accusandomi di essere
“complice” di non so quali nefandezze. L’inseguimento dura un paio di minuti,
finché i simpatici ragazzi vengono fermati da un improvvisato servizio
d’ordine, il che mi consente, guidato da un paio di amici, di guadagnare
attraverso un percorso alternativo, un’uscita secondaria, perché gli ammiratori
di Zelensky (mi si riferisce) mi aspettano all’ingresso principale della
Federico II. Aggiungo che l’impianto microfonico, che era stato opportunamente
testato qualche ora prima, stranamente non funzionava e dopo infruttuosi
tentativi, si è dovuto provvedere a un nuovo microfono e a un altoparlante
alternativo. Grazie a tutto lo scompiglio, il sottoscritto non è riuscito a
raggiungere in tempo utile la stazione di Piazza Garibaldi dove avrebbe dovuto
salire su in treno per Roma. Ed è stato costretto a fare un altro biglietto per
un diverso treno. È il caso di ricordar che negli scorsi giorni Carlo Calenda
aveva lanciato una ridicola petizione contro la conferenza, di concerto con una
aspirante assegnista dell’ateneo napoletano, con il medesimo obiettivo. E il
giorno prima a Napoli l’onorevole Pina Picierno si è esibita mentre accendeva
il candelabro ebraico, e alla piccola festicciola sembra fossero presenti
alcuni degli stessi giovani energumeni che hanno interrotto con violenza il
dibattito. E che a distanza di pochi minuti hanno inviato un comunicato ripreso
dall’ANSA nel quale ribaltano i ruoli, spacciandosi per vittime. I firmatari
sono i soliti, ben noti provocatori della politica nazionale: Azione, Europa,
Radicali, e altra cianfrusaglia. Mentre uscivo inseguito e accusato di
“rifiutare il confronto”, la mia risposta è stata semplicemente: “Non parlo con
i fascisti”. Già, perché a Napoli abbiamo subìto un agguato organizzato, che
nulla ha a che fare con il “dialogo”, con il rispetto di un luogo “sacro” come
l’Università, e con quello che si deve, o si dovrebbe, a chi ha passato la vita
a studiare, insegnare, pubblicare, e che si cerca di intimidire con azioni
squadriste. Conclusione: il clima politico-mediatico in Italia sta diventando
irrespirabile. E io mi sento costretto ad annunciare che annullo tutte le
conferenze programmate e non ne accetto altre, se gli organizzatori non sono in
grado di:
a) Assicurare spazi capienti a sufficienza con posti a sedere
sulla base di una ragionevole previsione delle presenze
b) Adeguati impianti di amplificazione, verificati prima di
ogni conferenza
c) Servizio d’ordine interno
d) Informativa alla Digos e alle forze dell’ordine, per
evitare di esporre i relatori, nella fattispecie il sottoscritto, alla mercé di
ucronazi locali e dei loro supporters.
Prego perciò tutti coloro che mi abbiano rivolto inviti, o intendano farlo di inviare (alla mail ormai nota) una comunicazione precisa in relazione ai quattro punti sopraelencati. Altrimenti considero appunto annullati tutti gli impegni. Grazie.
SISTEMA POLITICO
di Franco Astengo
Il XXVIII Rapporto “Gli Italiani e
lo Stato” 2025, realizzato da Demos
& Pi, ha analizzato le percezioni degli italiani su istituzioni e politica,
evidenziando trend preoccupanti come la scomparsa della classe media (solo il
45% si sente tale) e un crescente consenso verso soluzioni autoritarie, con il
30% che non escluderebbe il fascismo. Tutto
questo secondo i dati di fine 2025.
In Sintesi Il XXVIII Rapporto “Gli Italiani e lo Stato” 2025 dipinge un
quadro di crescente fragilità sociale ed economica, con una polarizzazione
delle opinioni che spinge una minoranza significativa verso soluzioni antidemocratiche,
segnando una profonda crisi di fiducia nelle istituzioni e nella democrazia liberale. Si confermano così le analisi che stiamo cercando di
portare avanti da tempo con al centro la modifica del sistema dei partiti e la
crescita esponenziale dell’astensionismo nelle diverse tornate elettorali astensionismo
sul cui fenomeno non ci soffermiamo avendone dedicato all’analisi analitica
molti interventi). La difficoltà italiana è difficoltà sistemica nel suo
complesso (tra le istituzioni e i soggetti politici; tra gli stessi soggetti
politici; tra i soggetti politici e i corpi sociali intermedi; nella formazione
e nell’aggregazione del consenso). Si aggiunge
il presentarsi concreto (dopo diverse avvisaglie) della modifica della forma di
governo, una modifica evidentemente ben inoltrata dentro il tema del
presidenzialismo, che ha assunto la forma del “premierato”. Deve comunque
essere ricordato che la stessa presidenza Conte (in entrambe le versioni
giallo-verde e giallo-rosso), approfittando anche dell’emergenza sanitaria, si
era sicuramente addentrata sul terreno del cambiamento profondo dell’origine
parlamentare della presidenza. Del resto la governabilità per decreto ha avuto
origine, nel sistema politico italiano, molto lontane nel tempo, fin dai primi
anni ’80 del secolo scorso. Serve allora sviluppare alcune considerazioni sullo
stato delle cose in atto nel sistema politico italiano. Da molti anni, in
settori minoritari della sinistra, si sta cercando di insistere sulla necessità
di un’analisi riguardante l’estrema fragilità del sistema politico italiano.
Un sistema fragile
segnato profondamente dal trasformismo.
Questa affermazione
rimane, a mio giudizio, più che mai valida in questa fase di movimento e di
affermazione della figura del “Lord (o Lady) protettore /protettrice”. È necessario uno sforzo di riflessione e l’elaborazione di
una proposta politica partendo da un interrogativo: come si sposterà allora, se
si sposterà, il confronto centro destra versus centro-sinistra (che si sta
cercando di forzare in bipartitismo personalizzato ad uso “cerchi magici” per
evitare l fastidio di organismi dirigenti ormai ridotti a clan seguaci del “capo/a”)
e nel centro-sinistra troverà posto il M5S (al riguardo del quale è utile
mantenere un giudizi di ambiguità), oppure lo spostamento d’asse in corso sul
piano del riferimento europeo rimescolerà completamente il quadro? La risposta a questo interrogativo risulterà determinante
anche perché c’è da tener conto che il vuoto in politica non esiste e che il
quadro dei riferimenti internazionali appare molto complesso mentre spirano i
venti di guerra e il vecchio schema dell’atlantismo è stato denunciato da Trump
alla ricerca, nel quadro di una strenua competizione con la Cina, di definire i
termini di un nuovo bipolarismo. È il caso
allora di andare a fondo sul tema della fragilità del sistema attraverso un’elaborazione
autonoma non riferita alla stretta quotidianità del gioco politico. La responsabilità maggiore di questa fragilità spetta,
invece, alla leggerezza con la quale, all’interno del sistema, è stato permesso
al M5S di raccogliere una messe di consensi ottenuti sulla base di opzioni
meramente demagogiche e distruttive senza che si verificasse un contrasto reale
di progetto alternativo. L’effimero
sfondamento attuato dal M5S con le elezioni del 2018 sta pesando enormemente
sullo spostamento d’asse in corso: la debolezza strutturale che ne è derivata
ha aperto la strada a questa strisciante modifica costituzionale e ha
sicuramente aperto la strada all’estrema destra che oggi governa pur in un
quadro di fibrillazione al cui riguardo il centro-sinistra non pare capace di
inserirsi. Questo elemento, della resa verso i
5Stelle nel periodo 2013-2018, è risultato esiziale perché ha consentito che si
inoculassero nel sistema forti dosi di demagogia a livello di riscontro di
massa, cui aveva già concorso il PD nella fase della segreteria (e presidenza
del consiglio) Renzi. Il risultato concreto di
questa fase è stato quella della perdita di circa 5.000.000 di voti validi tra
le elezioni politiche 2018 e quelle 2022. Un mix micidiale: governabilità e
personalizzazione in un quadro trasformista che ha fatto perdere fiducia a
milioni di elettrici ed elettori.
Il risultato dell’intreccio tra governabilità intesa come mero
esercizio del potere e personalizzazione della politica a tutti i livelli è
stato quello dell’emergere del fenomeno della demagogia trasformistica. Una demagogia trasformistica che si è accompagnata alla
crescita delle diseguaglianze e alla sparizione della middle-class: un quadro
di impoverimento generale che ha causato il formarsi di una sorta di alleanza
tra il “ventre molle” della borghesia e l’individualismo competitivo, che alla
fine, ha assunto la veste di una domanda di tipo assistenzialistico-corporativo,
con la perdita di ruolo nell’insieme dei corpi intermedi di mediazione sociale
e politica (come emerge con chiarezza dalle manovre in corso sulla legge finanziaria).
L’attuale governo della destra ha enfatizzato questa
demagogia trasformistica tentando addirittura di “ideologizzarla” (riportando
in auge il “Dio, patria e famiglia” e la simbologia para-fascista): una
operazione ambigua perché rivolta a una società frastagliata, separata e
fondata sul consumismo individualista di tipo “competitivo” raccolta soltanto
attorno ai nuovi feticci della comunicazione social. Così non siamo lontani da una antica rievocazione dell’autobiografia
della nazione. Qui risiedono le difficoltà
della sinistra, in ritardo nel riconoscere le contraddizioni reali sulla base
delle quali stava trasformandosi la società italiana e ancora incerta tra
vecchi slogan e ricerche intorno a soggettività ormai definitivamente
tramontate. Il solo contrasto possibile alla
crescita ulteriore di questa demagogia trasformistica che non sia quella della
riduzione dei margini della democrazia repubblicana può arrivare:
1) da una ripresa di
ruolo della Sinistra, da realizzarsi in forme nuove ma solidamente ancorata
alle parti più alte della propria tradizione;
2) dal rilancio
Costituzionale della democrazia repubblicana fondata sulla centralità del
Parlamento, la separazione dei poteri (prestando anche particolare attenzione
al referendum costituzionale sulla magistratura, e sulle limitazioni imposte
alla magistratura di controllo contabile) e il sistema elettorale proporzionale
(proponendo una inversione di tendenza al riguardo del leaderismo anche
attraverso una nuova dimensione dei partiti ad integrazione di massa che
sarebbero chiamati a svolgere regolari congressi e non consultazioni di tipo
plebiscitario attorno ad una errato concetto di “accettazione del leader” come
invece ha sostenuto la nuova sindaca di
Genova astro nascente dell’accentuazione personalistica di una funzione
leaderistica posta “sopra” al sistema);
3) la programmazione
economica, lo sviluppo industriale posto all’altezza della sfida dell’innovazione
tecnologica e delle transizioni digitale e ambientale;
4) la prospettiva di
un’Europa alternativa nella quale far valere l’autonomia politica in funzione
della pace;
5) la solidarietà
sociale con una idea di moderno welfare;
6) una funzione
pedagogica capace di riportare in discussione il concetto di egemonia
rifiutando la separatezza tra cultura e politica.
In conclusione mi
azzardo a sostenere che su questi 6 punti (e molto altri) forze sparse della
sinistra, eredi della sua grande tradizione storica anche novecentesca,
avrebbero ancora molto da elaborare e da proporre.
martedì 23 dicembre 2025
BELGRADO, UNA LETTERA
ALLA CITTÀ
di Gianmarco Pisa
La notizia della proclamazione, da parte
della European Film Commissions Network (EUFCN), la Rete delle Commissioni
Cinematografiche d’Europa, delle cinque migliori “destinazioni
cinematografiche” del continente, vale a dire i cinque migliori scenari di
cinema, trascende l’ambito ristretto degli addetti ai lavori e dice qualcosa di
più sulle città stesse, le loro caratteristiche e i loro paesaggi, ciò che può
rendere queste stesse città suggestive o affascinanti. Al di là del merito
della proclamazione, infatti, essa sollecita una riflessione più ampia sullo
“spazio della città”, come contesto complesso di relazioni e funzioni, in cui
si svolgono rilevanti attività sociali e culturali.
Ebbene, la giuria del premio ha
designato cinque finaliste: La Palma (Spagna), Figuera de Foz (Portogallo),
Inari (Finlandia), Zangerhausen (Germania). E Belgrado, capitale della Serbia,
storica capitale del “Paese che non c’è più”, la Jugoslavia. Delle città
nominate è l’unica capitale e, insieme con le altre, una città la varietà dei cui
scenari e la ricchezza della cui storia sarebbe perfino superfluo ribadire. Ciò
che pare interessante evidenziare non è tanto l’iter della designazione (alla
fine, la città vincitrice, quella che sarà proclamata migliore destinazione cinematografica,
sarà annunciata nel mese di febbraio 2026 durante una cerimonia in occasione
della Berlinale), quanto piuttosto le sue motivazioni, le ragioni che rendono
Belgrado una “capitale del cinema”.
La motivazione
occasionale è nota. Belgrado è stata candidata dalla Serbian Film Association (l’Associazione
cinematografica serba) per le riprese della serie “The Librarians: The Next
Chapter”, realizzata in Serbia dalla casa di produzione “Balkanic Media”. Si
tratta di una serie fantasy di successo, ambientata a Belgrado nel 1847. Un
Bibliotecario, custode di un deposito magico contenente i più potenti artefatti
soprannaturali, viaggia dal passato al presente, rimanendo intrappolato nel
“nostro” tempo. Quando torna al suo castello, ora trasformato in museo,
inavvertitamente libera la magia in tutto il continente. Gli viene allora assegnata
una nuova squadra di bibliotecari che lo aiutino a risistemare le cose. Ovviamente,
è questo solo l’asse della trama, che si dipana tra eventi magici e avventure
fantastiche, sorprese, e viaggi nel tempo e nello spazio. Qui entra in gioco Belgrado. Molte
location della serie sono infatti luoghi di Belgrado: il Kalemegdan, il Teatro nazionale,
l’Osservatorio astronomico, l’area di Knez Mihailova. Quest’ultima è la
passeggiata pedonale del centro storico di Belgrado.
Qui nulla è come sembra e,
al di là dei progetti speculativi che vorrebbero farne (e in parte già ne
stanno facendo) luogo di consumo urbano e spesa compulsiva, la strada ospita un
patrimonio storico e culturale che spesso sfugge alla vista degli osservatori
distratti. Dalla via principale (Kolarčeva), prima di giungere in Piazza della
Repubblica, immettendosi su Knez Mihailova, è
un susseguirsi di sorprese: il
Kulturni Centar (Centro culturale), luogo di incontri e conferenze, la fontana
Delijska, lo straordinario edificio della Accademia serba delle arti e delle
scienze, con l’annessa Galleria
d’arte, la cui collezione comprende circa
tremila opere, di ben 270 artisti nazionali e non pochi artisti stranieri. E poi ancora, la Galleriadell’Associazione degli artisti di belle arti, il Palazzo Zepter, con annesso Museo di arte
moderna e contemporanea, e infine, a pochi passi dal Kalemegdan, la Biblioteca
Civica, con un patrimonio di 1.8 milioni di contenuti.
I creatori della serie, la società “Electric
Entertainment”, hanno raccontato che Belgrado è per loro (non solo per loro) una
vera e propria fonte di ispirazione soprattutto per il confronto tra il mondo magico
dei bibliotecari e l'ambiente moderno della città contemporanea. Hanno cioè
sostanzialmente confermato che, pur senza
scomodare indebiti paragoni con altre celebrate capitali, Belgrado è ciò
che sappiamo: una città magica, capace di mettere a confronto, spesso
stridente, il mondo magico e la realtà contemporanea. Ma quali sono gli altri scenari
associati a questi luoghi? Eravamo alle soglie del Kalemegdan, uno dei simboli
di Belgrado. Come hanno scritto, nella loro monografia dedicata alla capitale,
Tomislav Rakičević e Srečko Nikolić, “Nel corso dello sviluppo della città, si
sono venuti creando differenti complessi ambientali, ognuno con i suoi
monumenti caratteristici, cosa che conferisce alla città un colorito speciale.
[...]
La fortezza del Kalemegdan e il suo
omonimo parco costituiscono un complesso unico che, meglio di altri, parla
della storia di questa città. Il suo nome è di derivazione turca (Kale,
“fortezza” e Mejdan, “campo”) e indica tanto
le mura dell’antica Singidunum quanto uno dei più bei parchi belgradesi.
Il Kalemegdan è, senz’altro, il simbolo di Belgrado. [...] In una zona di
questo parco, chiamata “Veliki Kalemegdan”, si trovano numerosi monumenti
eretti a ricordo di letterati, artisti, politici e altri personaggi insigni
della storia serba”.
Si tratta di un sacrario della memoria,
un vero e proprio Pantheon della città e del Paese. Vi si trovano la Fontana con la statua simbolica della Lotta, di
Simeon Roksandić, il Monumento memoriale sul luogo in cui i Turchi per la prima
volta consegnarono le chiavi della fortezza al principe Mihailo, il “Monumento
di gratitudine alla Francia”, simbolo dell’amicizia tra i due Paesi e delle
battaglie combattute nella guerra del 1914-1918, i capolavori di Ivan Meštrović e il Mausoleo degli Eroi del Popolo, dove
sono sepolti gli eroi della lotta di liberazione antifascista, Ivo
“Lola” Ribar, Ivan Milutinović, Djuro Djaković, Moša Pijade.
Non meno importanti sono gli altri
luoghi. Uno di questi è il Teatro Nazionale. È anche questo un simbolo di
Belgrado e della Serbia. Si trova in Piazza della Repubblica, sul versante
opposto a quello ove sorge lo straordinario Museo Nazionale. Per la sua costruzione,
nel 1868, fu scelto lo spazio dell’attuale piazza, intanto bonificata; qui fu
costruito il teatro, che non nasconde influenze classiche e si ispira, per
alcune caratteristiche, al modello della Scala di Milano. Vi fu rappresentata, secondo
alcuni come prima messa in scena operistica del teatro, la “Madama Butterfly”
di Puccini nel 1919. Qui hanno poi diretto grandi direttori d’orchestra, da Lovro
von Matačić a Muhai Tang. Come ha ricordato Milica Božanić dell’Associazione
cinematografica serba, questo genere di partenariato è fondamentale per
sostenere le produzioni cinematografiche, creando così un ambiente favorevole
all’ulteriore sviluppo del cinema, incluso il turismo culturale e
cinematografico a Belgrado. Belgrado è un naturale punto di incrocio e di
ripartenze, di viaggi e di ritorni, in cui le storie e le memorie si
stratificano e si condensano, insieme con un patrimonio storico e culturale di
rilevanza assoluta, in modo singolare ed indiscutibile. Si possono riconoscere, in questa filigrana, tutti i volti di Belgrado e
della Jugoslavia, antichi e moderni, storici e attuali, di volta in
volta memoriali o negletti. D’altronde, parliamo di una città orgogliosa, per
la sua storia e la sua memoria, come si racconta, “quaranta volte distrutta e
quaranta volte ricostruita”. “È caratteristico - scriveva il Giusti - che idee
di fratellanza e solidarietà si siano sviluppate specialmente presso le nazioni
slave più piccole, che sentivano incerte le proprie frontiere e minacciose le
forze che premevano dal di fuori: [...] questi piccoli popoli, attraverso
l’idea della solidarietà slava, si sentivano partecipi di un mondo più vasto
... che popolava immense distese dell’Europa e dell’Asia” (W. Giusti, Il
panslavismo, Bonacci, Roma, 1941, n. e. 1993).
Pensiamo, ad esempio, a un altro luogo
cruciale, e dimenticato, di Belgrado: l’Obelisco dei Non Allineati, uno dei
simboli della Belgrado della Fratellanza e Unità, opera, insieme con altri, di
Svetislav Ličina. Fu eretto per lo storico Vertice di Belgrado del 1961; sebbene
negletto, l’obelisco è rimasto con tutta la sua potenza, anzi, secondo
l’architetto Milorad Jevtić (cui si deve
l’attribuzione dell’opera a Ličina), resta una delle più significative
testimonianze dello «spazio bianco» che caratterizza Belgrado (il cui nome significa,
appunto, “Città bianca”). Dal canto loro, i Paesi non allineati non sono scomparsi dalla scena.
Nella loro più
recente risoluzione, la Dichiarazione di Kampala del 15-16 ottobre scorsi, sottolineano che
“la solidarietà internazionale, massima espressione di rispetto, amicizia e
pace tra gli Stati, è un concetto ampio che comprende la sostenibilità delle
relazioni internazionali, la coesistenza pacifica e gli obiettivi di equità e
di emancipazione dei Paesi in via di sviluppo, il cui obiettivo finale è il
raggiungimento del pieno sviluppo economico e sociale dei loro popoli”. Nel caos
drammatico del tempo presente, ancora una volta dal Sud globale, trovano spazio
per affacciarsi messaggi di pace, di solidarietà e di speranza.
Riferimenti:
Beograd jedna od pet najboljih
filmskih destinacija na svetu, Nova, link
Dichiarazione
di Kampala del Movimento dei Non Allineati, 2025, link
Tourist Organization of Belgrade,
Official Site, link
PROPRIETÀ INTELLETTUALE
di Olindo Cervi
L’economista
Olindo
Cervi a proposito dell’articolo di Francesca
Mezzadri apparso su “Odissea” martedì 16 dicembre scorso dal titolo “Il treno
dei bambini” https://libertariam.blogspot.com/2025/12/il-treno-dei-bambini-di-francesca.html ci ha fatto pervenire
questo scritto.
Noi
economisti siamo fortemente disprezzati causa le teorie neoliberiste che hanno
distrutto completamente due continenti, ma le assicuro che tanti di noi sono
ancora persone umane che pensano al bene comune e non al ladrocinio e alla
propaganda tanto di moda al giorno d’oggi. Da economista, oltre ad apprezzare
il valore storico-culturale del suo articolo, vorrei complimentarmi per aver
involontariamente (o forse no) messo in luce un caso di studio esemplare di
fallimento del mercato delle idee e di inefficienza nell’allocazione dei diritti
di proprietà intellettuale. La sua analisi, infatti, può essere letta come un
brillante report sull’asimmetria informativa e sull’esternalità negativa in un
settore cruciale: quello della produzione e distribuzione della memoria
collettiva. Le fornisco una mia lettura:
1.- Fallimento del Mercato e
Asimmetrie di Potere
Il suo articolo documenta un
classico caso di “market for lemons” (articolo scritto da George Akerlof
premio Nobel per l’economia), adattato al mercato editoriale.
Asimmetria Informativa
Il lettore (consumatore) non può
facilmente distinguere, nel prodotto finale (il romanzo di successo), la
“qualità” derivante dal lavoro di ricerca originale (di Rinaldi, Cappiello,
Piva) da quella della rielaborazione narrativa. L’informazione sulla provenienza
delle fonti è nascosta o opaca.
Spiazzamento del
Bene di Qualità
Il prodotto “low-cost” in termini
di investimento in ricerca (il romanzo che si appropria di narrazioni già
elaborate) cattura la maggior parte del profitto e dell’attenzione, rischiando
di spiazzare dal mercato i produttori del bene originale (la ricerca storica di
prima mano), che ha costi più alti e rendimenti economici più bassi. Questo
crea un incentivo perverso a investire in promozione più che in ricerca.
2.- Diritti di Proprietà
Intellettuale e Beni Pubblici
La memoria storica documentata è
un bene pubblico nel senso economico: è non-rivale (molti possono usarla
contemporaneamente) e, in questo caso, non-escludibile (non si può impedire a
un autore di fiction di attingervi). Non si
tratta della sovra-utilizzazione tipica dei beni comuni, ma del problema
opposto: la sotto-ricompensa per i creatori originari. I ricercatori investono
risorse (tempo, denaro, capitale umano) per creare un bene (la narrazione
documentata) che poi diventa un input a costo quasi zero per un altro agente
(l’autore di fiction) che ne cattura la maggior parte del valore di mercato.
Questo disallinea incentivi e può portare a una sotto-produzione futura di
ricerca storica originale.
3.- Esternalità Negative e
Fallimento della Coordinazione
Esternalità Negativa sulla
Ricerca: L’atto di non citare le fonti genera una esternalità negativa diretta
sui ricercatori: il loro lavoro viene svalutato economicamente e
simbolicamente, e il loro capitale reputazionale non viene “capitalizzato”. Il
mercato, da solo, non internalizza questo costo. Per i
singoli ricercatori, il costo di far valere i propri diritti morali
(attribuzione) e di negoziare un compenso (se dovuto) è proibitivo rispetto ai
benefici attesi. Questo rende inefficiente la soluzione privata e giustifica la
necessità di una norma sociale forte (l’etica della citazione) che il suo
articolo contribuisce a rafforzare.
4.- Investimento in Capitale
Sociale e Sovranità della Memoria
Il suo lavoro tocca un punto
cruciale di economia politica: chi controlla e monetizza la narrazione della
memoria collettiva? Il “lavoro di ricerca povero” descritto è un investimento
in capitale sociale e culturale che produce un bene fondamentale per la
coesione sociale: una memoria condivisa e affidabile. Consentire che questo
bene venga privatizzato e rivenduto senza un riconoscimento adeguato crea una
distorsione nel mercato delle idee e una perdita di sovranità sulla nostra
stessa storia. La sua analisi è un potente argomento per la trasparenza come
regolamentazione necessaria per correggere questa distorsione.
Conclusione da povero economista:
Il suo articolo non è solo un
contributo etico o storiografico. È un contributo a un principio caro agli
economisti con un’anima: l’efficienza del mercato culturale. Promuovendo
trasparenza, attribuzione chiara e riconoscimento del lavoro altrui, lei
propone un meccanismo per:
a) Ridurre l’asimmetria
informativa tra produttori e consumatori di cultura.
b) Allineare gli incentivi, in
modo che investire in ricerca originale torni ad essere premiato, anche
simbolicamente.
c) Correggere l’esternalità
negativa sull’ecosistema della ricerca indipendente.
d) Proteggere la diversità
produttiva nel mercato delle idee, evitando il monopolio narrativo di pochi
grandi attori.
In sostanza, ha scritto un
articolo chiaro, accessibile e fondamentale per la salute del nostro mercato
culturale.
NON SOLO MUSICA
di Francesca Mezzadri
Il giorno in cui il rock fece
beneficenza senza sapere come si fa.
Non era
Natale. Ma come spesso accade con le cose importanti, tutti si comportarono come
se fosse un Natale senza istruzioni. Nel 1971 il Bangladesh stava vivendo una
guerra di liberazione, una carestia, le conseguenze di un ciclone devastante e
l’indifferenza quasi totale del resto del pianeta. Milioni di profughi
attraversavano confini che nessuno aveva voglia di guardare troppo da vicino. I
giornali occidentali ne parlavano poco e male, quando ne parlavano. Ravi
Shankar, che invece guardava eccome, fece una cosa molto poco rock: chiese
aiuto. George Harrison ascoltò. E fece una cosa ancora meno rock: si mise al
lavoro. Un’idea semplice, che infatti sembrava impossibile. L’idea era
elementare, quasi ingenua: fare un concerto per raccogliere fondi e attenzione
per il Bangladesh. Niente slogan complicati. Niente effetti speciali.
Solo musica, nomi importanti e
una causa che non si poteva ignorare una volta pronunciata ad alta voce. Il 1°
agosto 1971, al Madison Square Garden, si tennero due concerti nello stesso
giorno. Perché quando sei in ritardo con la coscienza, raddoppi. Il pubblico
applaude. Era presto. Molto presto. Lo spettacolo iniziò con la musica classica
indiana. Ravi Shankar, Ali AkbarKhan, Alla Rakha, Kamala Chakravarty salirono
sul palco con strumenti antichi e pazienza infinita. Shankar spiegò che il
brano sarebbe stato breve. Il pubblico applaudì subito. Non per entusiasmo. Per
educazione. E anche perché non aveva capito che la musica non era ancora
iniziata. Shankar sorrise. Aveva visto di peggio. Poi arrivò il Natale rock. Dopo
l’introduzione indiana, il palco cambiò faccia. E anche l’aria. Salirono: George
Harrison, con la calma di chi sa di avere una responsabilità, Ringo Starr, che
non si tirava mai indietro, Bob Dylan, che non saliva su un palco importante da
anni e sembrava esserselo ricordato all’ultimo, Eric Clapton, Billy Preston,
Leon Russell, Badfinger. Nessuno venne per soldi. Le canzoni non cambiarono il
mondo, ma gli ricordarono che esisteva il Bangladesh.
I
regali
dopo la festa
Dal concerto uscirono: un album
dal vivo (triplo LP), pubblicato nel dicembre 1971, un film documentario,
distribuito nel 1972. L’album vinse il Grammy per Album dell’Anno nel 1973, probabilmente
uno dei pochi premi musicali assegnati a qualcosa che aveva davvero provato a
fare del bene. I fondi raccolti - biglietti, dischi, film - finirono
all’UNICEF. Non subito. Non senza avvocati. Non senza problemi fiscali. Ma finirono
lì. E questo, a volte, è già un lieto fine.
Il Bangladesh, finalmente in
prima pagina
Prima del concerto, il Bangladesh
era un posto lontano. Dopo, era un nome che la gente aveva sentito pronunciare
da Bob Dylan - e questo, negli anni Settanta, contava. George Harrison pubblicò
anche “Bangla Desh”, una canzone che non cercava metafore complicate: diceva le
cose come stavano, cosa piuttosto rivoluzionaria per l’epoca. Il Concert for
Bangladesh fu il primo grande concerto benefico del rock. Non sapeva di
esserlo. Non aveva un manuale. Fece errori, inciampi, confusioni contabili. Ma
aprì una porta.
Dopo di lui, nessuno poté più
fingere che musica e mondo reale fossero due stanze separate. E forse è questo
il vero spirito natalizio della storia: non la perfezione, non il miracolo, ma
qualcuno che decide di fare qualcosa - anche senza sapere esattamente come.
LA POESIA
di
Vitia D’Eva
Nefast’amoreeeee
eee ee e
È
imperscrutabile vero?
come
un sentimento d’amore
possa
ritorcersi contro
come
a una carezza
o
a sussurri di piacere
possano
sovrapporsi dinamismi
nefasti
d’inqueti urti
carichi
di contraccolpi gesti
di
lesiva ferocia
marchio
d’espressione
d’appassita
passione
che
stride nell’acuto e brutale dolore
d’un
corpo aggredito
atti
di decadenza
che
incidono sulle lenzuola
una
linea nera
acuta
di
liquefatto stridore
e
non è l’acuto
d’un
semplice gesto di gesso
quando
lo si vuole stridere sulla
bianca
lavagna.
domenica 21 dicembre 2025
VERSO L’INVERNO
di
Zaccaria Gallo

Monet
“Now is the Winter of our discontent”: sono
le parole con cui, Riccardo III Gloucester, di William Shakespeare presenta sé
stesso, all’inizio dell’omonima tragedia. “L’inverno del nostro scontento”,
dunque, quello che è alle porte. È così anche per noi? Per molti di noi? Per tutti quelli che ancora
si trovano nel terrore di guerre e bombardamenti, perdita di persone care,
bambini, mogli, mariti, padri e madri, fidanzati, case, averi, ricordi? È così
per chi soffrirà la fame, per chi è in miseria, senza un lavoro, o è ricoverato
in un ospedale, o in un ospizio per vecchi, o è nella cella di un carcere, o è
semplicemente solo? Proprio per non dimenticarci di nessuno di loro, facciamo
questo viaggio verso l’inverno, con nel cuore, nella mente, nell’anima, la
speranza che, proprio dagli incontri che faremo, possa nascere una fiammella
che unisca e ridia a tutti il senso della sacralità racchiusa in questa
stagione. Ed ecco il nostro incontro. È preceduto dalle note del Lied di Wilhem
Muller, musicato da Schubert nel 1827, un anno prima della morte, il “Winterreise”
o “Viaggio d’inverno” (ciclo di canzoni, che racconta di un
viaggiatore, o meglio del viandante, respinto da un amore, il cui percorso si
trasforma in un viaggio notturno di solitudine, disperazione e introspezione, attraverso una
natura invernale con nel cuore il dolore, la perdita e l’abbandono). Nel Lied,
il nostro viandante incontrerà un sonatore di ghironda, il suo doppio
spirituale, il suo destino. Invece noi
abbiamo quest’altro incontro: viene verso di noi uno stranissimo
personaggio, che molti di voi, che amate l’arte, avrete già certamente
incontrato sulle pareti di un Museo).

Arcinboldo
Un vecchio, fatto di tronchi e
grovigli di rami stecchiti, disordinati, a far capelli, assieme a piccole
foglie di verde edera (non coprono interamente la sua testa spoglia), e
un’ispida, incolta, barba; e per bocca due funghi (di quelli che spuntano dalla
corteccia degli alberi) e il collo e il torace fatto di attorcigliati tronchi,
avvolti in una stuoia, da cui spunta un’arancia e un limone, entrambi protesi
verso di noi. Lo riconoscete? È “l’Inverno” di Arcimboldo. Ora, a ben guardare,
ci sovviene l’idea che il vecchio ci stia dicendo alcune cose, che vanno oltre
il suo aspetto pauroso. Vero,
farà freddo, ma, con tanta legna, puoi scaldare la casa. E poi, se osserviamo
bene i due frutti, intuiamo che altre cose il vecchio vuole ricordarci. Quell’arancia nel mito greco,
era il dono di nozze di Giunone e Giove e, dunque, simbolo di fertilità ed
amore. E il limone? Simbolo di salvezza, purezza e fedeltà
amorosa (vive infatti e cresce sotto al sole, di cui prende la luce e il vivo
colore, in tutto l’anno, anche d’inverno). Gli faccio segno, proprio al limone,
che ha sul davanti, con una interrogazione muta, come a chieder spiegazione del
perché lui lo esibisce e lui mi guarda, lo guarda, sorride con la sua bocca
spugnosa e improvvisamente mi recita, roco e grave, come vento di tramontana, i
versi di Eugenio Montale (simbolo dell’oasi di una natura incontaminata, in
contrapposizione all’inquietudine e all’illusione della città).



Gagnon
Ascoltami,
i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati:
bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi /
fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra
i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. /
Meglio se le gazzarre degli uccelli / si spengono inghiottite dall’azzurro:/
più chiaro si ascolta il sussurro / dei rami amici nell'aria che quasi non si
muove, / e i sensi di quest’odore / che non sa staccarsi da terra / e piove in
petto una dolcezza inquieta. / Qui delle divertite passioni / per miracolo tace
la guerra, / qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore
dei limoni. / Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce nel
profumo che dilaga / quando il giorno più languisce. / Sono i silenzi in cui si
vede / in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata Divinità. / Ma
l’illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose dove l'azzurro
si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. / La pioggia stanca la
terra, di poi; s’affolta / il tedio dell’inverno sulle case, / la luce si fa
avara - amara l’anima. / Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli
alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore
si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della
solarità.


Chagal
Non è, allora, davvero l’inverno,
completamente, la stagione del nostro scontento. Guardando quel vecchio, che si allontana
con la sua arancia e il suo limone, tanti ricordi nascono dalle letture fatte,
affiorano e sono immagini quasi tutte di luce e speranza. Per gli antichi Egizi
era la stagione del Peret, quella che seguiva l’inondazione del Nilo, stagione
di felice attesa per il ritorno del Sole e dell’inizio del raccolto. Per gli
ebrei, l’inverno è legato principalmente alle festività di Hanukkah, la festa
delle luci e, nell’antica Grecia, era stagione di preparazione e cambiamenti
del quotidiano. Eventi come le Dionisiache rustiche e le Elenee, offrivano una
via di fuga dalla routine invernale e dalla solitudine delle dimore. Nell’antica
Roma, si celebravano i Saturnali, festa di sette giorni in onore di Saturno,
durante la quale venivano sciolti i legami sociali e si organizzavano banchetti
e scambi di doni. Durante quei giorni si invertivano i ruoli sociali: gli schiavi
erano serviti dai padroni ed era anche la festa del Sol Invictus (25 dicembre)
il“compleanno del Sole Invitto”, poi passata al Natale cristiano. L’inverno,
per gli Aztechi, era un periodo importante, soprattutto legato al solstizio d’inverno,
in cui si celebrava la nascita del loro Dio del sole. Luce e luci,
come in Danimarca o in Inghilterra, con la celebrazione del solstizio d’inverno
a Stonehenge: druidi e folle osservano, all’alba, il sorgere del sole
illuminare il cerchio di pietre. Un magico momento che simboleggia il
rinnovamento e il ritorno della luce. Ecco mi allontano ora, più sereno, e mi
accompagnano le note dell’Inverno di Vivaldi, tratto dal “Concerto per le
quattro stagioni”. Se, nel primo movimento, Vivaldi descrive la lenta caduta
dei fiocchi di neve e poi l’arrivo, con un rapido violino, del Dio dei venti,
nel secondo movimento è evidente la presenza di un uomo felicemente vicino al
calore del suo focolare, mentre osserva e ascolta il classico suono energico
prodotto dalle gocce della pioggia tipicamente invernale. Con un’atmosfera estremamente
dolce, trasmette un senso di grande pace, che poi si interrompe, però, alla
fine, con i suoni che provengono dalla strada, dove c’è la gioia di scivolare,
danzare sul ghiaccio. Sì, si cade, ma poi ci si rialza, gioiosi. Vivaldi, così
descrive quel contrasto di emozioni che l’inverno può provocare: essere duro e
difficile, ma la sua grande forza e bellezza termina sempre con un finale
esaltante.

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