Pagine
- HOME
- IL LATO ESTREMO
- FUORI LUOGO
- AGORA'
- LA LAMPADA DI ALADINO
- ALTA TENSIONE
- FINESTRA ERETICA
- ARTE
- SOCIETA' DI MUTUO SOCCORSO
- I DOSSIER
- I LIBRI DI GACCIONE
- BIBLIOTECA ODISSEA
- SEGNALI DI FUMO
- I TACCUINI DI GACCIONE
- NEVSKIJ PROSPEKT
- LA GAIA SCIENZA
- LIBER
- GUTENBERG
- GROUND ZERO
- LA CARBONERIA
- CAMPI ELISI
- LA COMUNE
- OFFICINA
- QUARTIERE LATINO
- IL PANE E LE ROSE
- MARE MOSSO
- LITTERAE
- DALLA PARTE DEL TORTO
- NO
- NOTE
- FORO
- KAOS
- LUMI
- ARCA
- CIAK
- IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE
UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
domenica 7 dicembre 2025
MANIPOLATORI
di Franco Toscani
Thomas
Mann e gli incantatori del popolo. Note su letteratura e politica.
Nel 1930,
mentre nello scritto Un appello
alla ragione cerca di mettere in guardia la borghesia tedesca dal pericolo
nazista e la invita ad appoggiare il partito socialdemocratico, Thomas Mann
pubblica la novella Mario und der
Zauberer. Ein tragisches Reiseerlebnis (Mario
e il mago. Una tragica esperienza di viaggio). Il racconto, scritto nel
1929 e pubblicato nel 1930, è il resoconto sostanzialmente fedele - salvo l’esito
letale del finale, frutto di pura invenzione - delle vacanze italiane passate
da Mann, da sua moglie Katia e dai loro due figli minori Elisabeth e Michael, a
Forte dei Marmi, in Versilia, nell’agosto-settembre 1926.
Registrando alcuni contrattempi e
disagi della vacanza, Mann menziona “il rozzo abuso di forza, ingiustizia,
corruzione strisciante”, avverte umori sgradevoli e indefinibili, nota un certo
clima pesante e oscuro gravante sulla vacanza. È un’atmosfera strana, tesa,
sgradevole, malsana e opprimente. Nemmeno il sole splendente e la morbida
spiaggia sono sufficienti a rasserenare lo scrittore; anzi, essi lasciano
inappagati “i bisogni profondi, meno elementari dell’anima nordica”, circondata
com’è “senza scampo da mediocrità umana e da marmaglia borghese”.
È infatti l’elemento
umano e politico qui in questione, uomini e donne che ostentano dignità,
coltivano un forte sentimento del proprio onore e del proprio ego, manifestano
in ogni ambito della vita gravità e altezzosità: “Perché mai? Presto capimmo
trattarsi di politica, essere in gioco l’idea di nazione. E in realtà la
spiaggia brulicava di bimbi patrioti, fenomeno innaturale e avvilente”. Siamo
negli anni dell’Italia fascista, dove abbondano il braccio e la mano tesi nel
saluto romano; anche in spiaggia si odono discorsi sulla grandezza e dignità
della Nazione, sulla “patria risorta”, sull’esigenza di saper di volta in volta
ubbidire e comandare, come avviene tra popolo e duce. Nel racconto di Mann si
palesano con evidenza tutto l’orrore, la stupidità, il conformismo, la violenza
verbale gratuita - sempre pronta a sfociare in violenza fisica - del
nazionalismo fascista.
Verso la fine della vacanza, fa
la sua comparsa “l'orrendo Cipolla”, “il funesto Cipolla”, nome il cui modello
dal vero per Mann fu il mago Cesare Gabrielli (1881-1943), famoso ai suoi tempi
per l’abilità negli esperimenti ipnotici.

Thomas Mann

Nel racconto, il cavalier
Cipolla-Gabrielli si qualifica come “forzatore, illusionista e prestidigitatore”;
lo scrittore lo definisce “un virtuoso ambulante, un artista del divertimento”;
nella realtà, durante i suoi spettacoli, Gabrielli chiamava ad esempio sul
palcoscenico alcuni spettatori e li ipnotizzava dicendo loro di guardarlo,
facendosi passare per una bella donna pronta a spogliarsi.
Il cavalier Cipolla del racconto
è dunque un prestigiatore che tiene il suo spettacolo, a cui assistono anche i
coniugi Mann, coi loro due figli minori, particolarmente incuriositi ed
eccitati. Deforme, con uno scudiscio in mano, Cipolla-Gabrielli si presenta al
pubblico in frac, con rigida serietà e con aria di superiorità, senza nulla di
scherzoso, umoristico e clownesco, dandosi importanza, mostrandosi con orgoglio
severo e arroganza, molto sicuro di sé, evidentemente a imitazione del suo
duce. Egli è abile nel suggestionare i suoi succubi e nel leggere nel pensiero
degli spettatori.
Gran simulatore, anche quando interloquisce col pubblico e fa
complimenti, Cipolla è pieno di sé, mostra sempre un atteggiamento di
superiorità, dall’alto in basso, ironico, sarcastico e degradante nei confronti
degli altri, andando sul sicuro con le sue battute ispirate al patriottismo e
all’orgoglio nazionalistico. Così, pur non risultando simpatico e, anzi,
suscitando qualche ostilità e perplessità, l’inflessibile sicurezza esibita
produceva impressione, anche grazie allo scudiscio che portava con sé, avente
il manico a foggia di artiglio.
Nel finale del racconto, risalta
il Cipolla non solo prestigiatore, ma soprattutto incantatore, seduttore e
ipnotizzatore, dedito tenacemente a esperimenti di imposizione e privazione
della volontà. Il pubblico era in balìa della sua personalità estremamente
sicura di sé, rinforzata dai numerosi bicchierini di cognac che beveva durante
lo spettacolo.
Cipolla manipolava abilmente le
persone e le privava dell’autodeterminazione, della libera volontà, ma l’esito
letale (la morte del mago per mano di Mario), palesemente inventato dall’autore
rispetto allo svolgimento reale dei fatti accaduti durante la vacanza, appare a
Mann un finale di terrore, catastrofico e, nel contempo, liberatorio. È la
liberazione dalla tirannia dell’incantatore e seduttore, del manipolatore e
dominatore, dell’illusionista che gode nel sottomettere la volontà altrui alla
propria.
In che cosa consiste allora il
fascino di Mario e il mago? Forse -
oltre che nella straordinaria abilità narrativa dell’autore, ça va sans dire - anche nella eccezionale
capacità di introdurre, partendo da un semplice resoconto (per quanto
arricchito e reinventato) di una vacanza estiva italiana, un’atmosfera
intrigante di suggestione e di premonizione.
Prendendo spunto da un piccolo
fatto privato, Mann ci rende partecipi della tragicità di tutta un’epoca e un
periodo storico (quello cupo e oscuro dell’ascesa dei fascismi e dell’incubazione
della Seconda guerra mondiale), restituendoci lo spessore delle esperienze e
vite individuali intessute e inserite nel grande, tragico palcoscenico della
storia umana e di ciò che Hegel chiamò lo “spirito oggettivo”. I dittatori e
gli incantatori delle masse fanno ovunque disastri e sta allora ai popoli
cercare di sottrarsi alla manipolazione e al dominio cui sono costantemente
sottoposti.
PAROLE
di Anna Rutigliano
Le parole
possono allontanare, creare squarci di ferite all’anima, insanabili, al pari dei
silenzi, generatori di distanze; ma è nell’impalpabile spazio di assenza di parole,
che è possibile ritrovare il punto di connessione con il nostro Io più profondo,
facendole emergere autenticamente per gettare ponti relazionali: sono quelle
parole che fanno avanzare nuovi orizzonti, come nell’illuminante intuizione
poetica di Nelly Sachs, la quale, nell’ultima strofa della sua lirica Völker
der Erde (Popoli della Terra), invitava tutti i popoli a toccare con
il proprio spirito la fonte delle parole, pur essendo un percorso doloroso, per
creare un punto di incontro con l’immensità del Cielo, a cui noi mortali indistintamente
apparteniamo e da cui siamo protetti: Völker der Erde, lasset die Worte an
ihrer Quelle, denn sie sind es, die die Horizonte in die wahren Himmel rücken können. (Popoli della Terra, lasciate le parole alla propria fonte,
giacché grazie ad esse gli orizzonti possono far ritorno all’autentico Cielo),
come nel lieve sfiorarsi fra Adamo e Dio nell’affresco michelangiolesco della
Cappella Sistina.
Le parole possono essere foriere
di mondi alternativi, quando alla loro fonte risiede la ricerca della Bellezza
in ogni dove, persino a Damla, il piccolo villaggio di appena duecento anime
del Turkmenistan, in cui la resiliente adolescente Ogulnar, protagonista del nuovo
romanzo di Luciana De Palma, cui dà il nome (Les Flâneurs Edizioni), scopre,
nei ritmi monotoni che scandiscono i doveri e le azioni quotidiane della
comunità, di poter attraversare mondi nuovi e possibili, per mezzo della forza
misteriosa e magica delle parole, componendo segretamente poesie, nate nel
silenzio della propria anima, con lo sguardo rivolto al cielo blu cobalto, nell’avvicendarsi
delle torride e glaciali notti del deserto del Karakum.
Per mezzo delle poesie,
Ogulnar può curare un bambino in fin di vita, sfidando sia il ruolo prestigioso
della nonna, considerata dagli abitanti una maga per gli intrugli di erbe magiche
con cui è capace di guarire i malati, che però, risultano fallimentari nel
salvare il piccolo ad un passo dalla morte, guarigione che, invece, è affidata
alla nipote, sia le rigide tradizioni custodite dai sei uomini del villaggio,
creduti saggi e depositari di verità inconfutabili da millenni.
Se provassimo per un istante a
lambire dolcemente alla fonte la parola “dialogo”, quasi accarezzandola con la
nostra anima, scopriremmo, nella sua etimologia
greca di Διά-λογος, quanto le parole possano muoversi
rincorrendosi l’un l’altra in una traiettoria la cui meta finale è la
consapevole e reciproca comprensione dei parlanti. È stato il fisico David Bohm,
amico di Einstein e allievo di Oppenheimer, a sostenere l’importanza di
adottare la pratica dialogica, quale prassi a fondamento del campo
epistemologico, atta a ricreare nuovi contesti significativi sia a livello
micro che macro-concettuali, nell’ottica di universale giustizia e pacifica
convivenza, quale metodo euristico indispensabile e applicabile a qualunque
società si consideri civile. Si tratta di una pratica che richiede tempi di
ascolto piuttosto lenti, che cozzano con la velocità con cui oggi siamo
abituati a dialogare al ritmo di algoritmi nel mondo Onlife, nell’attuale
era della comunicazione digitale, per dirla in gergo informatico, mutuato dal
filosofo Luciano Floridi, per la quale, tuttavia, Floridi ravvisa un’etica
dell’informazione incentrata sugli aspetti significativamente qualitativi della
comunicazione.
Senza entrare nello specifico
della fisica quantistica, che esige particolari competenze scientifiche, sono
interessanti gli sforzi di Bohm di applicare il concetto di coerenza del laser,
che genera una energia straordinaria rispetto a quella della lampadina, dal
canto suo incoerente, creando un’analogia nel mondo sociale.
Nel suo saggio
On Dialogue (Sul Dialogo), pubblicato nel 1990, Bohm sostiene
che perché una società funzioni, è fondamentale che il pensiero emerga dal
“piano tacito condiviso”: nell’incontro dialogico fra parlanti, l’esistenza di
visioni multiple deve potersi fondare sulla sospensione dei giudizi e sull’abbandono dei propri assunti, sul non
ancorarsi a convinzioni e opinioni personali generando flussi di significato
coerenti al fine di vivere in modo più pacifico nella collettività; diversamente si incorrerebbe in significati
incoerenti su larga scala e sulla non
comprensione.
Il pensiero dialogico bohmiano
incontra negli anni ottanta quello del filosofo indiano Krishnamurti, una delle
menti più influenti del ventesimo secolo. Dalle loro conversazioni improntate
sulla fisica e sulla filosofia nascono successivamente una serie di dialoghi illuminanti
dal titolo The Ending of Time: Where Philosophy and Physics meet (La
fine del tempo: quando la Filosofia e la Fisica si incontrano): entrambi
gli studiosi concordano nel sostenere l’esistenza di una forma di intelligenza
diversa da quella ordinaria, definita come “abilità del pensiero” associata
all’amore, in grado di abbattere le barriere e gli schemi mentali. Non resta
allora per l’animale semiotico, quale è l’uomo, che impegnarsi ed esercitarsi
nella pratica dialogica, nel senso che ne dà Bohm, di guardare alle cose con amore,
nell’ottica meditativa e spirituale di Krishnamurti e di non smettere mai di
guardare al Cielo, come la piccola adolescente Ogulnar del villaggio di
Damla, nell’omonimo romanzo di Luciana De Palma.
LIBRI
di Federica
Albani

Valentina Fulginiti
Nessuna di
queste vite mi appartiene.
Irene ha quasi
quarant’anni, due dottorati e nessuna certezza. Dopo aver inseguito la
possibilità di una carriera accademica fin negli Stati Uniti, è tornata in
provincia, con lo stigma del fallimento da sopportare, per accudire la madre
malata: la vita che sognava - fatta di studio, successo e libertà - si riduce a
una quotidianità di medicine, attese, silenzi e a un confronto, forse sempre
evitato fino a quel momento della sua vita, con i genitori. Alla ricerca dell’approvazione
fin dall’adolescenza, Irene si ritrova a dover fare i conti con un mancato
riconoscimento, professionale e personale, da parte delle figure che più di
tutte avrebbero dovuto concederglielo: il lavoro culturale, precario e poco
remunerativo, non è all’altezza dei progetti immaginati per quella figlia così
in gamba. Tra l’odore dei disinfettanti, i corridoi d’ospedale e i ricordi
d’infanzia, si consuma così lo scontro tra due generazioni: le madri, cresciute
con la convinzione cieca che il futuro sarebbe stato migliore del passato, e le
figlie, che non riconoscono nella realtà che le circonda il mondo a cui sono
state preparate da ragazzine, educate a non deludere ma costrette sullo sfondo
e adulte solo a metà. Un romanzo generazionale che fotografa l’esatto momento
in cui la tendenza al progresso si è drasticamente invertita e come, totalmente
impreparata al disastro, la generazione dei ragazzi nati sul finire degli anni
Settanta ne abbia pagato lo scotto. Davanti al proprio dolore ma soprattutto a
quello degli altri, Irene sperimenta che crescere non significa soltanto
prendersi cura, ma anche imparare a lasciar andare.
Nessuna di queste vite mi appartiene, romanzo d’esordio di Valentina
Fulginiti, è l’opera vincitrice della prima edizione del Premio Letterario
Luciano Bianciardi - Sezione Inediti, svoltasi nel 2024 con il tema “Il lavoro
culturale”. A seguito del concorso, organizzato da ExCogita con Feltrinelli
Editore, Fondazione Luciano Bianciardi e Università IULM, il libro è stato
pubblicato da ExCogita. L’autrice, nata a Bologna nel 1983, è laureata in
Lettere moderne, ha conseguito un dottorato in Italianistica alla University of
Toronto, e oggi vive negli Stati Uniti e insegna Lingua e cultura italiana presso
la Cornell University.
![]() |
| Valentina Fulginiti |
Valentina Fulginiti
Nessuna di queste vite mi
appartiene
ExCogita
2025
Pagine 2016
- € 18,00
POETI
di Francesca
Mezzadri
La raccolta poetica di Andrea Ravazzini: Tu sei la terra, il vento e la luce si colloca tra lirica
visionaria e meditazione metafisica, articolando un dialogo costante fra
interiorità e natura. L’impianto stilistico - sintassi rarefatta, lessico
sensoriale, frequenti immagini di notte, vento, mare e stelle - crea un
territorio poetico sospeso, dove l’io non descrive il mondo ma lo attraversa
come luogo simbolico della propria trasformazione. La forza della silloge non
sta nella narrazione, ma nella capacità di convertire stati emotivi in fenomeni
cosmici e viceversa. Il paesaggio è qui una superficie di risonanza: non
scenario, ma proiezione psichica. La notte diviene spazio di ascolto, la luce
principio di rivelazione, il mare un fondo emotivo instabile. Questa fusione di
elementi genera una costante condizione liminare: l’io si trova sul margine tra
presenza e dissoluzione, tra finito e infinito. Il silenzio, ricorrente e quasi
corporeo, non è assenza ma densità percettiva; è il luogo in cui l’esperienza
si fa rivelazione, dove la luce può emergere come epifania intermittente. Il
tempo non progredisce secondo logica lineare: si frantuma in attimi, si
sospende, si dissolve. Tale scomposizione conferisce ai testi un carattere
contemplativo, che privilegia il ritmo emotivo alla sequenza narrativa. La luce,
forza ermeneutica centrale, non illumina soltanto: vela, taglia, disorienta,
suggerendo una conoscenza non razionale ma oscillante. L’io poetico, figura in
costante transito, è attraversato dagli elementi più che capace di dominarli.
La sua identità appare come un bagliore provvisorio, fragile e mobile. La
verticalità dei versi, la rarefazione sintattica e gli enjambement
contribuiscono a un’estetica della sospensione: la poesia diventa respiro,
frattura, progressione interiore. Il trascendente non è mai soluzione
consolatoria: è una vibrazione sottile iscritta nella materia, un oltre che
filtra attraverso i chiaroscuri. L’intera raccolta si configura così come
percorso di ascolto più che di affermazione, di rivelazioni minime piuttosto
che di enunciazioni sistematiche. La poesia qui riportata è stata scelta perché
esemplifica in modo paradigmatico tutti i nuclei tematici e stilistici della
silloge. Essa mette in scena la doppia natura dell’interlocutore - umano e
cosmico - e condensa l’intero movimento della raccolta: dalla fusione con gli
elementi alla disgregazione, dalla memoria al desiderio, dalla fragilità alla
tensione ascensionale. Vi compaiono gli elementi chiave (terra, vento, luce,
mare, stelle), la centralità del silenzio e del buio come matrici generative,
la percezione del tempo come onda, la costante oscillazione tra corpo e spazio
interiore. Il simbolo della stella finale, “ultima” e senza riposo, riassume la
postura della silloge: la ricerca di una presenza irriducibile che resiste nel
gelo, nella distanza, nel non compiersi dell’abbraccio. È l’immagine che meglio
sintetizza la poetica dell’intera raccolta - una luce invernale che continua a
brillare, nonostante la sua inattingibilità.
Andrea Ravazzini
Tu sei la terra, il vento e
la luce
Eretica,
2025
Quaderni di poesia, pag. 72
SACRE SPECIE ANIMALI
di
Francesco Campo

Angelo Airò Farulla
Il nuovo
libro di Airò Farulla.
Nel panorama
della letteratura italiana odierna è raro leggere storie e vicende che non
siano centrate esclusivamente sull’essere umano, sui problemi psicologici dell’individuo,
sui suoi rapporti più o meno problematici con il quotidiano. Si privilegiano romanzi
d’amore, di risentimento o di riscatto, storie familiari, legate al vissuto
personale. Storie tutte umane, troppo umane. Se questa è, come alcuni
direbbero forse a ragione, la cifra fondante del romanzo come forma letteraria,
Sacre Specie Animali di Angelo Airò Farulla (Nulla Die Edizioni, Piazza
Armerina) è forse allora un caso a sé stante. Nell’opera, breve in sé stessa,
esseri umani, creature non-umane e strani ibridi animaleschi si contendono selvaggiamente
lo stesso spazio vitale, ovvero lo stesso Lebensraum (il riferimento
alla terminologia nazista non è messo qui a caso). A questi attori, aggiungerei
poi l’isola immaginaria di Ciclope, nella quale è ambientata la vicenda e che
assume - con i suoi paesaggi misteriosi e a tratti sublimi - quasi il ruolo di
protagonista. Il romanzo, strano e coinvolgente, modellato su più registri
anche linguistici, potrebbe essere ascrivibile al genere del folk-horror, ma io
potrei definirlo come espressione di una sorta di “ur-realismo magico”, dove la
magia adottata è però quella nera, sfuggita al controllo di un operatore
maldestro. Questo romanzo di Airò Farulla esce a quattro anni di distanza dal
suo precedente: Presenza reale (deiMerangoli, Roma, 2021), presentato al
Premio Strega dal professor Sergio Givone, l’anno in cui vinse Desiati con Spatriati.
Era anche quello un romanzo sui generis, un racconto di sofferenza
intellettuale e mistica, impostato come un tu per tu tra un povero sacerdote e
l’assenza invadente del Dio cattolico. Un romanzo che si poneva al crocevia tra
scienza e religione, tra materia e spirito. Nel frattempo, è uscito per la
Fallone di Taranto il poema narrativo L’aldilà del mare, che è paragonabile
a questo Sacre Specie Animali nella sua tensione distopica, nel
rapporto catastrofico e forse impossibile tra creature viventi all’interno
dello stesso pianeta.

Continuando a rivolgere la sua attenzione alle potenze
latenti della distruzione biologica, Sacre Specie Animali prende
spunto dalla sempre più frequente presenza degli animali selvatici all’interno
delle aree urbane (in questo caso si tratta di cinghiali) e costruisce una
storia dalla forte impronta simbolica e mitologica, nella quale nessuno degli
attori coinvolti si salva dal proprio destino. Ed è forse proprio il concetto
cristiano di salvezza a essere messo qui in discussione, a essere liquidato da un
orizzonte dove tutto si compie nel ciclico ritorno violento di un tempo
essenzialmente pagano, innestato in uno spazio liminale, in un’isola che sembra
comportarsi come una creatura vivente, che si rivolta contro la gestione umana
del territorio, che decide di per sé stessa - senza appello - del proprio
equilibrio “naturale”. Pur essendo le Sacre Specie del titolo un aperto
richiamo al sangue e al corpo di Cristo (carne delle creature viventi), l’opera
va a resuscitare gli antichi miti che sottostanno al crimine della
crocifissione, come lo squartamento di Dioniso. Intorno a questo cuore barbaro
e antichissimo, nel romanzo si scontrano almeno due livelli di società moderna:
quello tecnico-amministrativo dell’organizzazione degli spazi, che ha
trasformato l’isola di Ciclope in una riserva naturale, e quello anarchico e refrattario
a ogni ingerenza esterna della popolazione locale. Tra questi, spicca la figura
scarificale di una donna schiacciata dall’insostenibile consapevolezza che
«ogni cosa, anche soltanto sfiorata» subisce il contatto di chi l’avvicina, che
«ogni gesto, anche il più banale», è sporco di sangue, «macchiato dalla colpa e
dalla vergogna».
Rivolse
poi la sua attenzione ai cinghiali fucilati. Il sangue scorreva in ruscelli
verso il mare. Anche quella morte era imputabile a lei; era sua, le
apparteneva. Quei cinghiali erano lì per causa sua. Si sentì chiamata a fare un
bilancio di tutte le azioni che aveva compiute e non compiute nella sua vita;
un bilancio di tutte le creature che aveva ucciso, schiacciato, mangiato,
bevuto, respirato, fatto soffrire in modo diretto o indiretto, tolto in qualche
maniera dal mondo. Presa dallo sconcerto, si ricordò che non poteva farlo,
perché non conosceva l’entità delle sue colpe.
In
questo libro gli esseri umani si comportano come animali e gli animali (e forse
anche le piante) si rivelano dotati di una consapevolezza che non saremmo mai propensi,
nemmeno nella più generosa delle ipotesi, ad attribuire loro, perché va al di
là delle nostre aspettative e dei nostri modelli. Non è prevista nessuna
riparazione al male compiuto. Ed ogni cosa compiuta è male. Sull’isola di Ciclope, come sulla Terra intera, i sacrifici vengono consumati senza
destinatario apparente, quasi inconsapevolmente. Il rito è svuotato di ogni
valenza protettiva, perpetrato solo per l’atto cruento. Ma le conseguenze
gravano su tutti. Sacre Specie Animali, almeno nella sua prima parte, potrebbe
ricordare alla lontana certe cose di Cormac McCarthy. Anche qui, la violenza mostrata
è talvolta al limite del tollerabile, così come può farsi intollerabile la coscienza
della realtà della vita quando si scorga l’insensata sventura insita in ogni
atto o pensiero.
LA POESIA DI SPAGNUOLO
di Annitta Di Mineo

Antonio Spagnuolo
Antonio
Spagnuolo, in questa suo ultimo lavoro poetico dal titolo Dissolvenze e Sussurri,
con incipit di Carlo Di Lieto, edito da La Valle del Tempo-2025, ci immette nel
sentiero del suo tempo sul quale lascia traccia o segni oppure “pennellate”, si
vedono spazi di memoria che rinchiudono un evo che ci è dato come una vasta
distesa di irripetibili silenzi che parlano al cuore e che ci uniscono nella
fase matura del percorso di vita di ciascuno. Nel silenzio notturno dietro un
mouse ed una tastiera dei versi “parlano” come il baccano nel dì, sotto il
nostro sguardo si propagano ovunque, ci inondano e languono nella grande
mestizia delle stagioni della vita, lasciando tratti indelebili da non rimanere
indifferenti.
Il poeta coglie i frutti della
sua sagace osservazione di un mondo cambiato, ma sappiamo che esistere è
cambiare, cambiare è maturare, e quella maturazione non è altro che l’infinita
creazione di sé stessi, sapientemente con un gioco di parole mescola poesia ed
esperienze personali. Poesie singolari che vanno oltre le parole, con
divagazioni rivelatorie i cui versi sono in movimento e divengono espedienti
icastici che svelano un pensiero rigenerativo. Affrontano tematiche differenti
e ambiti di interesse tra sogno e realtà, razionale e irrazionale, linguaggio
simbolico e filosofico, fonti di ispirazione e di mossa del suo versificare,
che sono anche lucide considerazioni e momenti di raccoglimento nel fare
memoria degli accadimenti.
![]() |
| Antonio Spagnuolo |
La potenza delle parole è
straordinaria, il modo dipende dalla profondità e di come scaturiscono senza
interferenze, cosicché chi legge le 45 poesie del nostro Autore potrà
discernere e riconoscerne il valore. La sua valenza poetica non permette
l’indifferenza, è un atto di resistenza, offre parole sempre nuove, difatti i
componimenti di Dissolvenze e Sussurri sono anfratti celati tra l’ethos
dolente e l’accettazione del fato, mantecati di luci che si allargano per poi
dissolversi, sono cromie di versi che dilatano avvilimento nel vivere
quotidiano sopra una prospettiva che con sussurri celebra l’esistenza. I testi,
zolle palpitanti, coinvolgono il lettore, compartecipe ma turbato da queste
iscrizioni mai acquietate. Il poeta si muove tra un senso intrinseco degli
eventi e la realtà che tutti vediamo, ogni parola diviene stimolo di
meditazione creando un dibattito con il lettore a cui viene chiesto solo l’offerta
del suo tempo per accedere al suo poetare. Antonio Spagnuolo ci invita a
riscoprire l’ascolto attivo come gesto relazionale, scambio reciproco, un’esortazione
a rallentare per cogliere risonanze, dissolvenze, silenzi e sussurri spesso
trascurati.
POETE OLTRE LE STANZE
di Adele D’Addario
Un consapevole gesto di
autorappresentazione femminile.
A cento
anni dal celebre suggerimento di Virginia Woolf, che esortava le aspiranti
scrittrici a ritagliarsi un proprio spazio autonomo e risorse finanziarie (“una
stanza tutta per sé”), l’antologia poetica Poete oltre le stanze, curata
da Elisa Malvoni raccoglie voci che, pur avendo costruito quegli spazi di
autonomia, avvertono oggi che la “stanza non basta più”. È sorto il bisogno di
varcare la soglia, di accogliere “altre voci, altri vite” e di accostare i
propri testi a quelli di altre autrici, in una catena che si convoca
reciprocamente per darsi “testimonianza e ascolto”. L’intento critico della
raccolta è chiaro: nessuna delle autrici ambisce a rappresentare la propria
generazione, né genericamente “il genere femminile” o la categoria delle “donne
poete(sse)”. Le poetiche offerte sono semplicemente “le loro”, esperienze
distanti sia dal linguaggio dell’appartenenza forzata che dalla “testimonianza
obbligata”. Ciò che cementa queste voci disparate, che scrivono di tempi e
storie differenti, è un “gesto comune”: l’assunzione della parola come
autorappresentazione consapevole. La poesia diviene lo strumento primario per
ridefinirsi e per interrogare continuamente la propria identità. L’autrice
Alina Nicoara sintetizza questa missione: Non sono questo smalto rosso / o l’abito
che ora indosso. / Io sono le mie parole, / i silenzi e ogni errore. Il tema
dell'autorappresentazione è onnipresente: le poete si mettono in discussione,
si accettano o desiderano cambiarsi, ripercorrendo sé stesse nei contesti più
vari: dalla ricerca spirituale e l’amicizia, al lavoro e al quotidiano, alla
maternità (o alla sua assenza), fino alla cura e alla ribellione. L’identità
che emerge non è un monologo chiuso, ma un “laboratorio aperto” che cerca di “abitare
il cambiamento, tradurre l’incertezza in linguaggio”. Un elemento di grande
impatto in Poete oltre le stanze è il dialogo costante con altre figure
femminili, siano esse storiche, bibliche, letterarie o mitologiche. Questa
riscrittura non è imitativa, ma un modo per farsi “eredi e testimoni” e
accettare la continuità come un “gesto di crescita”. Troviamo Anna Lombardo in
dialogo con Emily Dickinson, rileggendo il suo “sbattere e richiudere le
finestre”, o Adalgisa Zanotto che evoca Maria Maddalena, la “cercante” ostinata
che non permette alla pietra del sepolcro di chiudere la vita per sempre,
fungendo da “archetipo di fede e ostinazione”. Anna Bani si rivolge a Sylvia
Plath in “Nella coppia”, smontando il mito domestico per restituirne una “verità
aspra e quotidiana”. Altre figure come Lilith, Eva e Didone compaiono come
presenze riscritte per omaggiarle come donne della contemporaneità. Particolarmente
toccante è la misurazione con le “donne che hanno preceduto”: madri, nonne,
zie, spesso silenziose o sconfitte, custodi della memoria. La madre è vista ora
come un modello, ora come un “nodo da sciogliere”, un'interlocutrice mai
pacificata. n questo senso, l’antologia si rivela un “atto di riconoscimento
genealogico” che restituisce voce alle antenate che hanno reso possibile la
scrittura odierna. Nonostante la poesia sia spesso associata all’isolamento,
questa raccolta dimostra l’opposto: la parola poetica ha la capacità di “tenere
insieme”. Il libro è diventato un luogo di incontro e alleanza per molte
autrici che non si conoscevano prima. Il femminile che si definisce è “plurale,
concreto, terreno e spirituale insieme”, e rifiuta l’archetipo per trovare
nella poesia la possibilità di descriversi senza compiacimento. Come esprime
Betty Gilmore nel suo canto collettivo, The time will come again / when the
danger has passed / and we will celebrate. La curatela di Malvoni spinge il
concetto di autonomia di Woolf a una nuova dimensione: se la “stanza”
rappresentava lo spazio privato necessario per scrivere, oggi ciò che serve è “una
casa di voci, una soglia comune”. Questa antologia è, in definitiva, la mappa
di questa nuova dimora collettiva, con “più stanze comunicanti”, dove l’autorappresentazione
dell’io poetico si realizza pienamente solo in presenza dell’altra.
Autrici: Adalgisa Zanotto - Alice
Serrao - Alina Nicoara - Anna Bani - Anna Lombardo - Anna Ruotolo - Annunciata
Colombo - Antje Stehn - Betty Gilmore - Catia Simone - Fabiola Meroni -
Federica Re - Francesca Maria Federici - Gabriela Fantato - Giusi Busceti -
Lucianna Argentino - Maddalena Grigoletto - Manuela Zappa - Maria Piacente -
Pamela Ruggieri - Paola Caronni - Silvia Giacomini - Tamara Vitan - Valeria
Raimondi.
Curatrice: Elisa Malvoni.
Autrici Varie
Poete oltre le stanze
a cura di Elisa Malvoni.
ChiareVoci Edizioni 2025)
Pagine 154 - euro 14.00
Disponibile su Amazon a questo
link
https://www.amazon.it/gp/product/B0G1YKSB2W?ref_=dbs_m_mng_rwt_calw_tpbk_20&storeType=ebooks
IL PENSIERO DEL GIORNO
La poesia è credere nel gratuito. (…) La
poesia è l’umiltà di cercare ogni giorno note e accordi nuovi che riaccendano
il desiderio della bellezza.
La poesia è fedeltà muta, scarna,
inflessibile al ricordo di un lampo, di un bagliore, di un’illuminazione
ricevuta una volta sola, tanto tempo fa, per grazia.
Giovanni Gasparini
Iscriviti a:
Commenti (Atom)

















