UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

lunedì 8 dicembre 2025

ACQUA E OLIMPIEDI
di Erica Rodari


 
Mancano due mesi all’inaugurazione delle Olimpiadi Milano Cortina 2026. I costi che dovevano essere zero hanno superato i 4 miliardi e alcuni terreni sono a rischio frane. Fontana (Regione Lombardia) e Sala (Sindaco di Milano) esultavano. Chi pagherà i debiti?
 
Questo ‘grande evento’ cosa significa, in termini di ricadute sulle terre montane, i territori, le città, nel pieno di una crisi climatica che tutti i poteri istituzionali sembrano ignorare? Le ricadute sono sociali, ambientali, economiche (altro che ‘ a costo zero’ come ci avevano detto, l’esborso di denaro pubblico lievita di giorno in giorno per centinaia di milioni).
Ma concentriamoci sull’acqua. Nevica sempre meno e quindi aumenta la costruzione di bacini per l’innevamento artificiale. Si arriva anche a prelevare neve dalle altissime quote con gli elicotteri o a trasportarla da una pista all’altra con i camion. I bacini artificiali per l’innevamento, che comportano cementificazione e uso improprio dell’acqua, in Italia sono 158 per 1.800.000 mq. E altri sono in costruzione: 22 in Lombardia, 22 in Piemonte, 9 in Veneto e nel Trentino 60. Si fa questo invece di diffondere la consapevolezza che bisogna cambiare strada perché questo modello è insostenibile e puntare sulla riconversione del turismo invernale: ci sono già stati casi, per esempio nel Friuli Venezia Giulia, in cui gli EELL hanno dovuto dichiarare l’impossibilità di continuare a fornire acqua a questi impianti perché bisogna dare ovviamente priorità alle utenze domestiche. L’innevamento artificiale era una pratica usata solo come supporto eccezionale ma adesso è diventata una prassi costante, con altissimi costi energetici e gravi ricadute ambientali perché la neve artificiale è più compatta e pesante di quella naturale, non lascia traspirare e soffoca il suolo, spesso poi viene coadiuvata con sale chimico perché duri di più peggiorando la situazione. In tutto questo stiamo parlando di uno spreco colossale di acqua, risorsa sempre più scarsa: per produrre due metri cubi di neve occorre un metro cubo di acqua che significa migliaia di litri così come significa milioni di kw. Si sta fabbricando un inverno artificiale sul crinale di un disastro annunciato, ma al centro ci sono gli affari e le istituzioni pubbliche sono totalmente sorde. 



Negli ultimi 150 anni la superficie dei ghiacciai si è ridotta del 60% e in modo sempre più veloce negli ultimi decenni con l’acuirsi della crisi climatica. I ghiacciai rappresentano la più grande riserva di acqua dolce, alimentano falde, fiumi e laghi. La loro ritirata significa perdita delle risorse di acqua dolce che ci conservavano per l’estate e i periodi di siccità. Le Olimpiadi ci avevano detto che dovevano garantire sostenibilità economica e sostenibilità ambientale: invece enfatizzano la monocultura dello sci, diseducano al rispetto dell’ambiente, allo stop consumo di suolo, sapendo che l’industria dello sci porta con sé urbanizzazione, infrastrutture, strade… e che tutto questo non ha niente a che fare con lo sport che dovrebbe essere popolare, sostenibile e in armonia con la natura. Anche Milano non sarà indenne dagli scempi edificatori e anche l’acqua sarà una vittima delle grandi opere di cementificazione e impermeabilizzazione del suolo che ne disturberanno il ciclo già sotto schiaffo per la crisi climatica. Nelle condizioni attuali Olimpiadi e acqua non vanno d’accordo, ecco un motivo in più per dire che sono insostenibili. Il saccheggio di Milano e dei 400 km di arco alpino coinvolti, non termina però con la chiusura delle gare. Per questo il nostro impegno deve continuare sull’eredità che le Olimpiadi lasceranno nei quartieri e nei territori di montagna. A Milano dobbiamo pretendere che le opere realizzate con i fondi pubblici (Villaggio olimpico - scalo Porta Romana - e Pala Italia - quartiere Santa Giulia -) restino pubbliche, a disposizione del bisogno di abitazioni e servizi delle persone che questa città la abitano.

LA CENSURA DEI GUERRAFONDAI
di Coordinamento per la Pace - Milano


 
Il Coordinamento per la Pace - Milano solidarizza con i Professori Angelo D'Orsi e Alessandro Barbero per il grave atto di censura subito (spiegazione in calce) e invita i cittadini e le organizzazioni a fare fronte comune per una mobilitazione a sostegno dei principi dell'iniziativa soggetto di censura: quelli sanciti dalla Costituzione della Repubblica Italiana nata grazie alla Resistenza contro il nazifascismo. Per la Pace, la Democrazia e la Libertà di parola. Per queste ragioni convochiamo per martedì 9 dicembre alle ore 21 alla Casa Rossa di via Monte Lungo n. 2 a Milano (Metropolitana Linea 2 Rossa fermata Turro) un’assemblea pubblica al fine di organizzare una mobilitazione contro il sistema guerra che vede come primo elemento quello della propaganda e della censura.
 
Torino. A pochi giorni dall’evento “Democrazia in tempo di guerra. Disciplinare la cultura e la scienza, censurare l’informazione”, previsto per il giorno 9 dicembre al Teatro Grande Valdocco di Torino, nel quale il sottoscritto avrebbe dialogato con il collega  Alessandro Barbero, con l’adesione di importanti nomi della cultura, della scienza, del giornalismo, della comunicazione (Elena Basile, Alberto Bradanini, Luciano Canfora, Alessandro Di Battista, Donatella Di Cesare, Margherita Furlan, Enzo Iacchetti, Marc Innaro, Roberto Lamacchia, Tomaso Montanari, Piergiorgio Odifreddi, Moni Ovadia, Marco Revelli, Carlo Rovelli, Vauro Senesi, Marco Travaglio), ci viene comunicato questa mattina dalla proprietà del teatro, col quale si era giunti alla firma di un regolare contratto dopo una lunga gestazione, che lo spazio non ci verrà concesso.
Al di là delle motivazioni pretestuose e della rottura unilaterale di un regolare contratto - per cui abbiamo già allertato il nostro team legale per avviare azione di richiesta risarcitoria dei danni che questo comportamento ci procura - non possiamo non rilevare che il fatto conferma perfettamente le nostre preoccupazioni sulla limitazione degli spazi di libertà nel Paese e in generale l’inquietante deriva politica e culturale di una democrazia ormai palesemente illiberale, a dispetto della facciata. Di questo avremmo voluto parlare nel corso della serata. Intanto mentre a nome dei soggetti organizzatori, che hanno lavorato per settimane per preparare l’evento, esprimo rammarico a chi aveva prenotato i posti, e a quanti, colleghi e amici che avevano data la loro disponibilità, a partecipare (a cominciare dal prof. Barbero), chiedo a quanti mi sono stati vicini in questo mese di “passione”, a quanti hanno a cuore i principi della legalità democratica sancita dalla nostra Costituzione, a quanti anelano soltanto ad essere correttamente informati, per poter assumere una posizione in merito alle gravissime problematiche del nostro tempo, di sostenermi in questo nuovo capitolo di lotta. Ancora una volta non si tratta solo di Angelo d’Orsi, ma di coloro che, esponendosi in prima persona, mirano semplicemente a esprimere il loro pensiero anche quando esso non sia “in linea” con quello dei poteri forti, palesi o occulti che siano. In ogni caso, l’evento si terrà. Nei primi giorni della prossima settimana comunicheremo data e luogo. Però, intanto, annuncio che alle 18.00 del 9 dicembre, nel giorno dell’evento negato, faremo un sit-in di protesta davanti alla sede del Comune di Torino, come luogo simbolo di una città che è di tutti, e deve essere di tutti, una città medaglia d’oro della Resistenza, la città di Gramsci e di Gobetti, per semplificare, di Norberto Bobbio e di Gastone Cottino, e di tanti e tante che si sono battuti per la libertà.


 

FUGA DALLE URNE MA NON SI CHEDONO PERCHÉ
di Gian Giacomo Migone



Risulta sempre più evidente la contraddizione tra la gravità dellapreoccupante situazione in atto, in Italia come in Occidente, e l’irrilevanza attuale della politica partiticamente intesa. Ma concentriamoci sui problemi di casa nostra. Il governo finanzia una politica che alimenta le guerre in atto, sottraendo i pochi soldi a disposizione dei bisogni sempre più impellenti dei cittadini, mentre si intensificano gli attacchi a garanzie costituzionali quali la libertà di parola e di pensiero, l'indipendenza della magistratura, il ruolo del parlamento. Nello stesso tempo i partiti di opposizione sono impegnati in sfibranti conflitti sulle modalità di confronto con la presidente del consiglio, in casa sua (il caso Atreju), mentre il PD dedica buona parte delle proprie energie a costruire un correntone allo scopo di contenere o ratificare i poteri della propria segretaria in carica. Il popolo sovrano guarda altrove. Ma vi è chi ci aiuta a trovare il bandolo di una matassa essenziale in democrazia, quella delle elezioni. “È poco utile riflettere sul risultato del voto regionale in Campania, Veneto e Puglia partendo dall’astensionismo alluvionale (cfr. “La Repubblica”, 25 novembre, p. 21). Sono parole di Stefano Folli e, quindi, per il suo ruolo di sostenitore indefesso di un campo sempre più largo e il più possibile annacquato, va da sé che bisogna fare il contrario di quanto egli dice. Certo, non possiamo che compiacerci del forte segnale di cedimento di Meloni nel “suo” Mezzogiorno, come anche della capacità del centro sinistra, fondato sull’alleanza Schlein-Conte, di pareggiare i conti con la destra nella recente tornata di elezioni regionali. Tuttavia, resta il fatto brutale che si sono persi quasi altri 2,3 milioni di votanti in questo giro di elezioni italiane. Non mi stancherò di ripeterlo: in Italia, come in tutto l’Occidente, vincono le elezioni coloro che riescono a motivare al voto il maggior numero di astensionisti, ormai maggioranza assoluta o relativa, più o meno dappertutto. Un tempo era più o meno la stessa percentuale di cittadini a recarsi alle urne; negli Stati Uniti il 50-60%, in Italia addirittura si rasentava il 90%. Allora vinceva chi riusciva a guadagnarsi il consenso degli incerti, di solito moderati e centristi. 



Ora non è più così. Tuttavia, non lo hanno capito neanche persone serie e bene intenzionate, quali Romano Prodi, dotato delle rispettabili credenziali di essere stato - ma in altri tempi - il solo a portare per due volte alla vittoria una coalizione di centro sinistra, nonché il suo pesce pilota Arturo Parisi; con un codazzo di ambiziosi leaderini PD, per non parlare dei grandi giornali interessati a collocarli in vetrina. Ne consegue che il problema non è quello di moderare il presunto radicalismo di Elly Schlein, beneficamente liberata - aggiungo io - dai condizionamenti d’oltreoceano come effetto dell'ascesa di Donald Trump. Vince chi motiva al voto il maggior numero di persone altrimenti convinte che recarsi alle urne non vale la fatica. Quindi, lo scontro si radicalizza. Non è un caso se personaggi, forze politiche e apparato mediatico portati all’inseguimento del voto di centro sono parimenti impegnati ad esorcizzare il “cattivo esempio” di Zohran Mamdani, eletto sindaco di New York sulla base di un messaggio politico durissimo, capace di mobilitare un’inedita partecipazione al voto. Altrettanto significativo è il pressoché totale silenzio mediatico che circonda la più recente conquista di Copenhagen - più piccola di New York, ma più vicina a casa nostra - da parte di una coalizione di forze di sinistra ed ambientaliste, guidate dalla novella sindaca, Sisse-Marie Welling, che, tra l’altro, ha segnato una sconfitta del governo socialdemocratico in carica, duramente anti immigratorio.
Ciò che motiva al voto, altrimenti astensionista maggioritario, è la natura del messaggio e la credibilità dell’impegno di chi lo lancia. Nel momento in cui il “Dio, Patria e Famiglia” dei Trump e delle Meloni comincia a mostrare la corda, avendo fatto il pieno di voti identitari, occorrono valori corrispondenti ai sacrosanti interessi di una potenziale maggioranza popolare, nettamente contrapposti a quelli di un’esigua minoranza che, per interposta classe politica, ci governa. Perché una simile intenzione risulti credibile occorre indicare la redistribuzione di risorse necessaria per conseguire più pane, più pace e anche più libertà per tutte e per tutti.
 

 

LA FOLLIA EUROPEA  
di Luigi Mazzella 


 

Qualche giorno fa, in risposta alla nota con cui Franco Continolo scriveva: “la follia europea è il frutto dell’irrazionalismo e la religione c’entra nella misura in cui è essa stessa a farsi divulgatrice di forme di irrazionalismo”, osservavo che sottoscrivevo in pieno tale assunto ma proponevo di non limitare il discorso all’Europa, perché la pazzia era, a mio giudizio, quanto meno Occidentale. Oggi aggiungo che l’occidentalizzazione di Corea del Sud, Giappone e Filippine, con punte notevoli di religiosità soprattutto cristiana, la “comunistizzazione” della Corea del Nord e l’islamizzazione di altre parti del Continente Mediorientale e Asiatico tout court, rischiano di ampliare il panorama degli irrazionalismi nel globo, omogenei e nefasti per i danni che provocano, e di lasciare poco adito a speranze per un miglioramento futuro delle condizioni di vita dell’intera umanità. Ritornando all’Occidente, devo dire che sinora, quando la pazzia collettiva ha toccato il suo diapason, sono magicamente spuntati leader politici luminosa intelligenza che ne hanno impedito una catastrofica fine. Negli anni Quaranta, Winston Churchill smascherò il Nazifascismo penetrato fin negli ambulacri della Corte di Gran Bretagna: oggi, nel Terzo Millennio, Donald Trump sta riuscendo a mettere alle corde (anche lui, come allora, con l’aiuto dei Russi, pur non amati nel mondo anglosassone fin dai tempi degli Zar) il Nazifascismo mascherato di Zelensky, penetrato nel cuore degli Stati Uniti d’America, grazie al Deep State e ai suoi ben pagati burocrati, ai Democratici ad esso asserviti, ai finanziatori (di Wall Street), ai produttori di armi, ai loro commercianti palesi e ai loro trafficanti occulti (mafie). 



Ora, dopo l’intervento di Donald Trump che, senza mezzi termini ha parlato di declino e di collasso inarrestabile soltanto del Vecchio Continente, per le sue posizioni suicide in campo bellico, mi incombe di chiarire meglio, alla luce di tale affermazione, il pensiero da me espresso nella nota di qualche giorno addietro. Trump ha ragione nel dire che la follia esplosa tra i “volenterosi di guerra” in Francia, in Germania e in Gran Bretagna (a tacere dell’Italia di Crosetto, di Tajani, della Meloni definita, per cavalleria “cavalleria”, dal neo presidente americano  solo “miope” e non totalmente “cieca”)” non ha equivalenti in America, ma solo perché il partito dei guerrafondai, quello sedicente “Democratico” dei Biden e degli Obama, collegato alla CIA, all’FBI e al Pentagono è stato da lui sconfitto sonoramente e preferisce, come sa fare ogni abile ventriloquo, dare l’impressione che a sbraitare contro la ben controllata Russia sia il “fantoccio” del suo braccio “europeo”. I “servizi segreti” a suo tempo abilmente “deviati” dall’Intelligence anglosassone hanno fatto un buon lavoro: risulta fin troppo chiaro che le aberranti dichiarazioni di “attacchi preventivi in funzione difensiva” di militari lontani dal motto della nostra Arma benemerita mettono la sola Europa sull’orlo del baratro. È altrettanto verosimile che l’Europa, dopo essere uscita sostanzialmente sconfitta dalle due guerre mondiali (che hanno ridimensionato in modo deciso e progressivo il suo ruolo e che dalle due guerre attualmente in atto verrà fuori ugualmente malconcia e stremata), possa farneticare, per suo conto, di rivincite assurde, pretendendo di imporre, essa, le condizioni di resa formulate da Zelensky, pure uscendo perdente come l’Ucraina. Non si può escludere neppure che gli interessati e servi “Arlecchini” dei Democratici americani (oggi: transnazionali), fanatici, ad oltranza, della guerra, possano decidere (in un prossimo futuro) di unirsi al Giappone, per portare il mondo a una nuova guerra mondiale, contro Russia, Stati Uniti d’America (se retti da Presidenti Repubblicani pacifisti, alla Trump) e Cina per la questione di Taiwan. Divorata, com’è, dal suo desiderio di riprendere un posto significativo nella geo politica mondiale prima che sia troppo tardi, l’Europa agisce con l’irrazionalità che è diventata la sua nota distintiva e dominante senza tenere nel giusto conto che la riunificazione nazionale è un affare esclusivamente cinese e non spetta al Giappone intromettersi. L’Italia della Meloni, memore delle sue rivendicazioni patriottiche per Trieste e Trento, dovrebbe sapere perfettamente quale sia il nocciolo del problema: ma “contro la forza (della follia) la ragion non vale”. 


Detto ciò va anche precisato che l’Europa sta dando, come suole dirsi, “i numeri” perché è rimasta servile, per i poliennali salamelecchi precedenti, non della America tout court ma dei Democratici d’Oltreoceano. In altre parole, la “demenza” Europea ha la propria fonte e il suo humus nella forsennata politica del partito Democratico statunitense che in ottanta anni di cosiddetta “pace” non ha fatto altro che scatenare furibonde guerre, producendo, da un lato, violazioni dei più elementari diritti umani e, dall’altro, arricchimenti smisurati di produttori, venditori e trafficanti illegali (soprattutto mafiosi) di armi.
Trump è un leader politico e deve fare necessariamente il suo gioco. Se, però, fosse anche un filosofo o un pensatore libero dai condizionamenti politici, dovrebbe riconoscere che l’America non può essere esente dalla follia Occidentale, perché in quel Paese non solo le religioni sono numerose e presenti con articolazioni varie in numero superiore a ogni altro luogo del Pianeta (assumendo, per giunta, aspetti di stravaganza più preoccupanti che altrove) ma anche che fascismo e comunismo non sono estranei alle scelte demagogiche degli uomini politici statunitensi propensi, anche in questo caso più che altrove, alla “irreggimentazione” dei propri seguaci in gang con regimi settari e segreti di conduzione. D’altronde il “sedicente” filosofo Platone, che diceva di amare la conoscenza della realtà di cui, però, era egli stesso il fantasioso creatore con visioni di mondi inesistenti e che alla razionalità, all’empirismo, alla sperimentazione concreta della vera realtà esistente ( quella esaminata dai filosofi “veri” della civiltà precedente) anteponeva, come gli altrettali visionari del dualismo religioso nato e sviluppatosiin Medioriente (non a caso, da sempre rissoso e litigioso)  ha influenzato tutta intera la cosiddetta “cultura” politica Occidentale, che con il suo bagaglio di fantasiose utopie, è passata dal Vecchio al Nuovo Continente senza sostanziali differenze.
Domanda finale: Se la follia Europea sta toccando un apice che potrebbe condurre il Vecchio Continente all’autodistruzione più stupida e ingloriosa, 
Trump veramente crede che i suoi nemici interni del Partito Democratico   siano esenti da colpa per una tale tragedia e che siano, soprattutto alieni dal ripetere la stessa esperienza, se dovessero ritornare al potere con l’aiuto del Deep State, che certamente non ha dato forfait, nonostante lo smacco elettorale?

domenica 7 dicembre 2025

IL VERSO DI MILANO
di Angelo Gaccione
 

Il verso di Milano (sottotitolo: Un ritratto della città in 80 immagini, poesie e canzoni) a cura di Gino Cervi e Giancarlo Consonni, fotografie di Lorenzo De Simone e post-fazione di Roberto Mutti (About Cities Ed. 2025, pagine 206 € 26) è uno splendido ed elegantissimo libro corale. Si compone di 84 foto, se contiamo quelle inserite all’interno delle controcopertine, di 80 testi, tra poesie e canzoni, dedicati alla città meneghina, per un totale di 51 autori. È strutturato in sei blocchi (Paesaggi e luoghi, Case, Movimenti, Permanenze e discontinuità, Vite, Sogni) ciascuno introdotto da un puntuale e stimolante breve saggio che funge anche da guida per il lettore-osservatore. Parole e immagini si chiamano e si ritrovano: nelle atmosfere e nei sentimenti, nei dettagli e negli scorci. Il lettore scoprirà quanto sia articolata e composita la Milano dei poeti, e come lo sia altrettanto quella su cui si è posato l’occhio del fotografo che ha guidato l’obiettivo della macchina fotografica. Un dialogo in apparenza muto, fissato sulla carta e che altre parole ancora (dei curatori), si incaricano di precisare. Se è fin troppo noto che Milano non possiede, come efficacemente scrive Roberto Mutti nella post-fazione, “la bellezza sfrontatamente esibita di Roma, il fascino incantato di Venezia, l’eleganza di Firenze, la vitalità vibrante di Napoli”, va aggiunto, per citare ancora una volta Edith Wharton, che “Neppure a un’occhiata veloce Milano può sembrare poco interessante”. Riservata, nascosta, pur con tutti gli oltraggi che ha dovuto sopportare, la sua bellezza c’è, ma devi andare a cercartela, e quando la scopri ti sorprende, ti risarcisce della pazienza. Ma dovete entrarle nel ventre, mettervi in ascolto come faccio io da anni e anni, percorrerla a piedi senza pregiudizi scegliendone volta a volta una fetta. E così che sono entrato in risonanza con lei, e ora ci comprendiamo a fondo, ci apparteniamo. Di versi non gliene ho dedicato molti, ma una sezione dal titolo ‘Le Milanesi’ è compresa nella mia raccolta poetica: Una gioiosa fatica 1964-2022 (La Scuola di Pitagora, 2025), pubblicata di recente. Contiene otto affettuose poesie: ne riproduco qui una scritta nel 1999. Sono versi di una antica stagione a cui sono rimasto fedele. 


 
Milano

Conosco una città
che molti dicono brutta
ma nel mio cuore è vivo
l’eco dei suoi cortili.
 
Conosco una città
di giardini segreti
celati ad occhi indiscreti
come amori proibiti.
 
Conosco una città
che non ha orizzonte
ma oltre i palazzi e le antenne
io immagino il mare.
 
Conosco una città
che ha molti difetti
ma io non l’amerei
se fosse troppo perfetta.
 
Resta grigia e impura
mia città senza sole
che la bellezza sia
per me il tuo cuore
.  

 

 

CONTRAPPUNTI
Gaccione alla Biblioteca Ostinata.





 

MANIPOLATORI
di Franco Toscani


 
Thomas Mann e gli incantatori del popolo. Note su letteratura e politica.
 
Nel 1930, mentre nello scritto Un appello alla ragione cerca di mettere in guardia la borghesia tedesca dal pericolo nazista e la invita ad appoggiare il partito socialdemocratico, Thomas Mann pubblica la novella Mario und der Zauberer. Ein tragisches Reiseerlebnis (Mario e il mago. Una tragica esperienza di viaggio). Il racconto, scritto nel 1929 e pubblicato nel 1930, è il resoconto sostanzialmente fedele - salvo l’esito letale del finale, frutto di pura invenzione - delle vacanze italiane passate da Mann, da sua moglie Katia e dai loro due figli minori Elisabeth e Michael, a Forte dei Marmi, in Versilia, nell’agosto-settembre 1926.
Registrando alcuni contrattempi e disagi della vacanza, Mann menziona “il rozzo abuso di forza, ingiustizia, corruzione strisciante”, avverte umori sgradevoli e indefinibili, nota un certo clima pesante e oscuro gravante sulla vacanza. È un’atmosfera strana, tesa, sgradevole, malsana e opprimente. Nemmeno il sole splendente e la morbida spiaggia sono sufficienti a rasserenare lo scrittore; anzi, essi lasciano inappagati “i bisogni profondi, meno elementari dell’anima nordica”, circondata com’è “senza scampo da mediocrità umana e da marmaglia borghese”. 



È infatti l’elemento umano e politico qui in questione, uomini e donne che ostentano dignità, coltivano un forte sentimento del proprio onore e del proprio ego, manifestano in ogni ambito della vita gravità e altezzosità: “Perché mai? Presto capimmo trattarsi di politica, essere in gioco l’idea di nazione. E in realtà la spiaggia brulicava di bimbi patrioti, fenomeno innaturale e avvilente”. Siamo negli anni dell’Italia fascista, dove abbondano il braccio e la mano tesi nel saluto romano; anche in spiaggia si odono discorsi sulla grandezza e dignità della Nazione, sulla “patria risorta”, sull’esigenza di saper di volta in volta ubbidire e comandare, come avviene tra popolo e duce. Nel racconto di Mann si palesano con evidenza tutto l’orrore, la stupidità, il conformismo, la violenza verbale gratuita - sempre pronta a sfociare in violenza fisica - del nazionalismo fascista.
Verso la fine della vacanza, fa la sua comparsa “l'orrendo Cipolla”, “il funesto Cipolla”, nome il cui modello dal vero per Mann fu il mago Cesare Gabrielli (1881-1943), famoso ai suoi tempi per l’abilità negli esperimenti ipnotici. 


Thomas Mann

Nel racconto, il cavalier Cipolla-Gabrielli si qualifica come “forzatore, illusionista e prestidigitatore”; lo scrittore lo definisce “un virtuoso ambulante, un artista del divertimento”; nella realtà, durante i suoi spettacoli, Gabrielli chiamava ad esempio sul palcoscenico alcuni spettatori e li ipnotizzava dicendo loro di guardarlo, facendosi passare per una bella donna pronta a spogliarsi.
Il cavalier Cipolla del racconto è dunque un prestigiatore che tiene il suo spettacolo, a cui assistono anche i coniugi Mann, coi loro due figli minori, particolarmente incuriositi ed eccitati. Deforme, con uno scudiscio in mano, Cipolla-Gabrielli si presenta al pubblico in frac, con rigida serietà e con aria di superiorità, senza nulla di scherzoso, umoristico e clownesco, dandosi importanza, mostrandosi con orgoglio severo e arroganza, molto sicuro di sé, evidentemente a imitazione del suo duce. Egli è abile nel suggestionare i suoi succubi e nel leggere nel pensiero degli spettatori. 



Gran simulatore, anche quando interloquisce col pubblico e fa complimenti, Cipolla è pieno di sé, mostra sempre un atteggiamento di superiorità, dall’alto in basso, ironico, sarcastico e degradante nei confronti degli altri, andando sul sicuro con le sue battute ispirate al patriottismo e all’orgoglio nazionalistico. Così, pur non risultando simpatico e, anzi, suscitando qualche ostilità e perplessità, l’inflessibile sicurezza esibita produceva impressione, anche grazie allo scudiscio che portava con sé, avente il manico a foggia di artiglio.
Nel finale del racconto, risalta il Cipolla non solo prestigiatore, ma soprattutto incantatore, seduttore e ipnotizzatore, dedito tenacemente a esperimenti di imposizione e privazione della volontà. Il pubblico era in balìa della sua personalità estremamente sicura di sé, rinforzata dai numerosi bicchierini di cognac che beveva durante lo spettacolo.
Cipolla manipolava abilmente le persone e le privava dell’autodeterminazione, della libera volontà, ma l’esito letale (la morte del mago per mano di Mario), palesemente inventato dall’autore rispetto allo svolgimento reale dei fatti accaduti durante la vacanza, appare a Mann un finale di terrore, catastrofico e, nel contempo, liberatorio. È la liberazione dalla tirannia dell’incantatore e seduttore, del manipolatore e dominatore, dell’illusionista che gode nel sottomettere la volontà altrui alla propria.



In che cosa consiste allora il fascino di Mario e il mago? Forse - oltre che nella straordinaria abilità narrativa dell’autore, ça va sans dire - anche nella eccezionale capacità di introdurre, partendo da un semplice resoconto (per quanto arricchito e reinventato) di una vacanza estiva italiana, un’atmosfera intrigante di suggestione e di premonizione.
Prendendo spunto da un piccolo fatto privato, Mann ci rende partecipi della tragicità di tutta un’epoca e un periodo storico (quello cupo e oscuro dell’ascesa dei fascismi e dell’incubazione della Seconda guerra mondiale), restituendoci lo spessore delle esperienze e vite individuali intessute e inserite nel grande, tragico palcoscenico della storia umana e di ciò che Hegel chiamò lo “spirito oggettivo”. I dittatori e gli incantatori delle masse fanno ovunque disastri e sta allora ai popoli cercare di sottrarsi alla manipolazione e al dominio cui sono costantemente sottoposti.
 

 

 

PAROLE
di Anna Rutigliano



Le parole possono allontanare, creare squarci di ferite all’anima, insanabili, al pari dei silenzi, generatori di distanze; ma è nell’impalpabile spazio di assenza di parole, che è possibile ritrovare il punto di connessione con il nostro Io più profondo, facendole emergere autenticamente per gettare ponti relazionali: sono quelle parole che fanno avanzare nuovi orizzonti, come nell’illuminante intuizione poetica di Nelly Sachs, la quale, nell’ultima strofa della sua lirica Völker der Erde (Popoli della Terra), invitava tutti i popoli a toccare con il proprio spirito la fonte delle parole, pur essendo un percorso doloroso, per creare un punto di incontro con l’immensità del Cielo, a cui noi mortali indistintamente apparteniamo e da cui siamo protetti: Völker der Erde, lasset die Worte an ihrer Quelle, denn sie sind es, die die Horizonte in die wahren Himmel rücken können. (Popoli della Terra, lasciate le parole alla propria fonte, giacché grazie ad esse gli orizzonti possono far ritorno all’autentico Cielo), come nel lieve sfiorarsi fra Adamo e Dio nell’affresco michelangiolesco della Cappella Sistina.
Le parole possono essere foriere di mondi alternativi, quando alla loro fonte risiede la ricerca della Bellezza in ogni dove, persino a Damla, il piccolo villaggio di appena duecento anime del Turkmenistan, in cui la resiliente adolescente Ogulnar, protagonista del nuovo romanzo di Luciana De Palma, cui dà il nome (Les Flâneurs Edizioni), scopre, nei ritmi monotoni che scandiscono i doveri e le azioni quotidiane della comunità, di poter attraversare mondi nuovi e possibili, per mezzo della forza misteriosa e magica delle parole, componendo segretamente poesie, nate nel silenzio della propria anima, con lo sguardo rivolto al cielo blu cobalto, nell’avvicendarsi delle torride e glaciali notti del deserto del Karakum. 


Per mezzo delle poesie, Ogulnar può curare un bambino in fin di vita, sfidando sia il ruolo prestigioso della nonna, considerata dagli abitanti una maga per gli intrugli di erbe magiche con cui è capace di guarire i malati, che però, risultano fallimentari nel salvare il piccolo ad un passo dalla morte, guarigione che, invece, è affidata alla nipote, sia le rigide tradizioni custodite dai sei uomini del villaggio, creduti saggi e depositari di verità inconfutabili da millenni.
Se provassimo per un istante a lambire dolcemente alla fonte la parola “dialogo”, quasi accarezzandola con la nostra anima, scopriremmo, nella sua etimologia  greca di Διά-λογος, quanto le parole possano muoversi rincorrendosi l’un l’altra in una traiettoria la cui meta finale è la consapevole e reciproca comprensione dei parlanti. È stato il fisico David Bohm, amico di Einstein e allievo di Oppenheimer, a sostenere l’importanza di adottare la pratica dialogica, quale prassi a fondamento del campo epistemologico, atta a ricreare nuovi contesti significativi sia a livello micro che macro-concettuali, nell’ottica di universale giustizia e pacifica convivenza, quale metodo euristico indispensabile e applicabile a qualunque società si consideri civile. Si tratta di una pratica che richiede tempi di ascolto piuttosto lenti, che cozzano con la velocità con cui oggi siamo abituati a dialogare al ritmo di algoritmi nel mondo Onlife, nell’attuale era della comunicazione digitale, per dirla in gergo informatico, mutuato dal filosofo Luciano Floridi, per la quale, tuttavia, Floridi ravvisa un’etica dell’informazione incentrata sugli aspetti significativamente qualitativi della comunicazione.
Senza entrare nello specifico della fisica quantistica, che esige particolari competenze scientifiche, sono interessanti gli sforzi di Bohm di applicare il concetto di coerenza del laser, che genera una energia straordinaria rispetto a quella della lampadina, dal canto suo incoerente, creando un’analogia nel mondo sociale. 


Nel suo saggio On Dialogue (Sul Dialogo), pubblicato nel 1990, Bohm sostiene che perché una società funzioni, è fondamentale che il pensiero emerga dal “piano tacito condiviso”: nell’incontro dialogico fra parlanti, l’esistenza di visioni multiple deve potersi fondare sulla sospensione dei giudizi  e sull’abbandono dei propri assunti, sul non ancorarsi a convinzioni e opinioni personali generando flussi di significato coerenti al fine di vivere in modo più pacifico nella collettività;  diversamente si incorrerebbe in significati incoerenti su larga scala e  sulla non comprensione.
Il pensiero dialogico bohmiano incontra negli anni ottanta quello del filosofo indiano Krishnamurti, una delle menti più influenti del ventesimo secolo. Dalle loro conversazioni improntate sulla fisica e sulla filosofia nascono successivamente una serie di dialoghi illuminanti dal titolo The Ending of Time: Where Philosophy and Physics meet (La fine del tempo: quando la Filosofia e la Fisica si incontrano): entrambi gli studiosi concordano nel sostenere l’esistenza di una forma di intelligenza diversa da quella ordinaria, definita come “abilità del pensiero” associata all’amore, in grado di abbattere le barriere e gli schemi mentali. Non resta allora per l’animale semiotico, quale è l’uomo, che impegnarsi ed esercitarsi nella pratica dialogica, nel senso che ne dà Bohm, di guardare alle cose con amore, nell’ottica meditativa e spirituale di Krishnamurti e di non smettere mai di guardare al Cielo, come la piccola adolescente Ogulnar del villaggio di Damla, nell’omonimo romanzo di Luciana De Palma.

LIBRI
di Federica Albani


Valentina Fulginiti
 
Nessuna di queste vite mi appartiene.
 
Irene ha quasi quarant’anni, due dottorati e nessuna certezza. Dopo aver inseguito la possibilità di una carriera accademica fin negli Stati Uniti, è tornata in provincia, con lo stigma del fallimento da sopportare, per accudire la madre malata: la vita che sognava - fatta di studio, successo e libertà - si riduce a una quotidianità di medicine, attese, silenzi e a un confronto, forse sempre evitato fino a quel momento della sua vita, con i genitori. Alla ricerca dell’approvazione fin dall’adolescenza, Irene si ritrova a dover fare i conti con un mancato riconoscimento, professionale e personale, da parte delle figure che più di tutte avrebbero dovuto concederglielo: il lavoro culturale, precario e poco remunerativo, non è all’altezza dei progetti immaginati per quella figlia così in gamba. Tra l’odore dei disinfettanti, i corridoi d’ospedale e i ricordi d’infanzia, si consuma così lo scontro tra due generazioni: le madri, cresciute con la convinzione cieca che il futuro sarebbe stato migliore del passato, e le figlie, che non riconoscono nella realtà che le circonda il mondo a cui sono state preparate da ragazzine, educate a non deludere ma costrette sullo sfondo e adulte solo a metà. Un romanzo generazionale che fotografa l’esatto momento in cui la tendenza al progresso si è drasticamente invertita e come, totalmente impreparata al disastro, la generazione dei ragazzi nati sul finire degli anni Settanta ne abbia pagato lo scotto. Davanti al proprio dolore ma soprattutto a quello degli altri, Irene sperimenta che crescere non significa soltanto prendersi cura, ma anche imparare a lasciar andare.
Nessuna di queste vite mi appartiene
, romanzo d’esordio di Valentina Fulginiti, è l’opera vincitrice della prima edizione del Premio Letterario Luciano Bianciardi - Sezione Inediti, svoltasi nel 2024 con il tema “Il lavoro culturale”. A seguito del concorso, organizzato da ExCogita con Feltrinelli Editore, Fondazione Luciano Bianciardi e Università IULM, il libro è stato pubblicato da ExCogita. L’autrice, nata a Bologna nel 1983, è laureata in Lettere moderne, ha conseguito un dottorato in Italianistica alla University of Toronto, e oggi vive negli Stati Uniti e insegna Lingua e cultura italiana presso la Cornell University. 


 
 
Valentina Fulginiti
Nessuna di queste vite mi appartiene
ExCogita 2025
Pagine 2016 - € 18,00

POETI
di Francesca Mezzadri
 
 
La raccolta poetica di Andrea Ravazzini: Tu sei la terra, il vento e la luce  si colloca tra lirica visionaria e meditazione metafisica, articolando un dialogo costante fra interiorità e natura. L’impianto stilistico - sintassi rarefatta, lessico sensoriale, frequenti immagini di notte, vento, mare e stelle - crea un territorio poetico sospeso, dove l’io non descrive il mondo ma lo attraversa come luogo simbolico della propria trasformazione. La forza della silloge non sta nella narrazione, ma nella capacità di convertire stati emotivi in fenomeni cosmici e viceversa. Il paesaggio è qui una superficie di risonanza: non scenario, ma proiezione psichica. La notte diviene spazio di ascolto, la luce principio di rivelazione, il mare un fondo emotivo instabile. Questa fusione di elementi genera una costante condizione liminare: l’io si trova sul margine tra presenza e dissoluzione, tra finito e infinito. Il silenzio, ricorrente e quasi corporeo, non è assenza ma densità percettiva; è il luogo in cui l’esperienza si fa rivelazione, dove la luce può emergere come epifania intermittente. Il tempo non progredisce secondo logica lineare: si frantuma in attimi, si sospende, si dissolve. Tale scomposizione conferisce ai testi un carattere contemplativo, che privilegia il ritmo emotivo alla sequenza narrativa. La luce, forza ermeneutica centrale, non illumina soltanto: vela, taglia, disorienta, suggerendo una conoscenza non razionale ma oscillante. L’io poetico, figura in costante transito, è attraversato dagli elementi più che capace di dominarli. La sua identità appare come un bagliore provvisorio, fragile e mobile. La verticalità dei versi, la rarefazione sintattica e gli enjambement contribuiscono a un’estetica della sospensione: la poesia diventa respiro, frattura, progressione interiore. Il trascendente non è mai soluzione consolatoria: è una vibrazione sottile iscritta nella materia, un oltre che filtra attraverso i chiaroscuri. L’intera raccolta si configura così come percorso di ascolto più che di affermazione, di rivelazioni minime piuttosto che di enunciazioni sistematiche. La poesia qui riportata è stata scelta perché esemplifica in modo paradigmatico tutti i nuclei tematici e stilistici della silloge. Essa mette in scena la doppia natura dell’interlocutore - umano e cosmico - e condensa l’intero movimento della raccolta: dalla fusione con gli elementi alla disgregazione, dalla memoria al desiderio, dalla fragilità alla tensione ascensionale. Vi compaiono gli elementi chiave (terra, vento, luce, mare, stelle), la centralità del silenzio e del buio come matrici generative, la percezione del tempo come onda, la costante oscillazione tra corpo e spazio interiore. Il simbolo della stella finale, “ultima” e senza riposo, riassume la postura della silloge: la ricerca di una presenza irriducibile che resiste nel gelo, nella distanza, nel non compiersi dell’abbraccio. È l’immagine che meglio sintetizza la poetica dell’intera raccolta - una luce invernale che continua a brillare, nonostante la sua inattingibilità.
 
Andrea Ravazzini
Tu sei la terra, il vento e la luce
Eretica, 2025
Quaderni di poesia, pag. 72 
 

 

 

 

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