UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

mercoledì 17 dicembre 2025

CILE E DEMOCRAZIA
di Franco Astengo


 
L’esito delle elezioni cilene impone di ritornare sul tema della democrazia: non è consentita indifferenza e o sottovalutazione.
 
In Cile si afferma una destra pinochettista che sale al potere proprio nel momento in cui tutti gli indicatori statistici indicano un arretramento nella qualità della democrazia sul piano planetario. Proprio il 15 dicembre, avevamo cercato di attirare l'attenzione sulla relazione nel merito del tema dei diritti compilata dalla Commissione del Parlamento Europeo, oggi "il Manifesto" pubblica un ampio articolo di Filippo Barbera che prende le mosse dal rapporto di Freedom House nella sua 52a edizione.
Il rapporto di Freedom House registra per 19 anni di seguito una "diminuzione globale consecutiva della libertà in 60 paesi che hanno peggiorato i loro indicatori di diritti politici e libertà civili".
Nel suo articolo appena citato Barbera individua bene i prerequisiti sui quali può basarsi la democrazia:
1) un livello minimo di integrazione sociale della base popolare;
2) una relativa autonomia del processo decisionale collettivo;
3) una separazione tra la disuguaglianza nella sfera privata e l'uguaglianza nella sfera politica.
Sono questi i punti sui quali si sta incrinando la democrazia; i punti che sono negati dalla modernizzazione tecnocratica-autoritaria (ricordando che storicamente la tecnocrazia ha spesso assunto la veste della dittatura e della guerra). Si inquadra in questo contesto il salto all'indietro che il Cile ha compiuto con il turno elettorale conclusosi con il ballottaggio di domenica scorsa (ricordando anche che l'acuirsi delle contraddizioni ha portato - alla fine - allo scontro tra un filo fascista e una comunista).
Kast ha ottenuto 7.200.000 voti risultando così il presidente eletto con il maggior numero di voti nella storia del Paese Andino, mentre Boruc candidato della sinistra ed eletto nel 2021 ne aveva ottenuto 4.600.000 sconfiggendo lo stesso Kast fermo a 3.650.000: quindi tra il 2021 e il 2025 non si può non registrare un forte spostamento di voti verso destra.
Una situazione quella cilena che si infila in un quadro latinoamericano molto complesso laddove davvero forme democratiche di sistema politico appaiono disporre di poco spazio. Un risultato che avrà influenza anche sui meccanismi politici a livello planetario: una spinta non da poco a quel restringimento di agibilità politica che verifichiamo essere già in atto assumendo anche tratti che possono definirsi egemonici. Per l'Italia quella cilena può ben essere considerata come una brutta lezione: è facile ricordare i legami tra la sinistra italiana e quella cilena nella memoria del golpe che trascinò via Salvador Allende.
L'influenza di quella vicenda è da ricordare per la proposta di compromesso storico che sulla base di quei fatti fu avanzata da Enrico Berlinguer ma anche nell'attualità tra Cile e Italia sorgono affinità comuni: la vittoria della destra infatti è stata propiziata da una promessa "securitaria" avanzata da Kast sul tema dei migranti. Un'agenda di legge e ordine "da far paura" quella di Kast cui hanno immediatamente plaudito gli esponenti nostrani della destra.
Un risultato quello cileno (senza dimenticare l'analisi del fallimento di quella sinistra di governo arretrata ai minimi storici) che non deve essere sottovalutato in Europa, ma soprattutto in Italia, paese che un tempo aveva un sistema politico dalle caratteristiche simili a quello cileno oggi invece albergato da soggetti personalistici-populisti oppure incentrati sulle acquisizioni istituzionali in un contesto di "autonomia del politico" slegato da riferimenti sociali. L'Italia è ormai un Paese nel quale sta affermandosi una vera e propria scissione tra il sistema politico-istituzionale e i livelli minimi di integrazione sociale: una scissione che può rappresentare la base per uno scivolamento in un accentramento di potere che negherebbe la sostanza costituzionale.

LA PAROLA AI LETTORI


Luigi Mazzella


Caro Direttore,
fra i collaboratori di “Odissea” il più assiduo mi pare l’ex giudice della Corte Costituzionale ed ex ministro per la funzione pubblica Luigi Mazzella. Quasi ogni giorno vedo suoi articoli, per la verità molto ripetitivi e spesso anche fuori registro. Ammira Trump che considera un “pacifista”, ma non dice che il presidente americano ha lasciato mano libera a Netanyahu per massacrare i palestinesi. Attacca con virulenza le alte autorità europee, ma difende Elon Musk che vorrebbe spadroneggiare in Europa senza limiti e senza regole, e soprattutto senza pagare le tasse. Esagera, a mio modesto parere, dando troppa importanza alle fedi religiose che taccia di irrazionalismo, assieme alle ideologie del Novecento, fascismo e comunismo. In Italia i cattolici sono in massima parte credenti per convenienza e vivono secondo costumi che sono lontanissimi dal cristianesimo. Forse neppure credono a quello che Papa e prelati prescrivono, e le vocazioni religiose sono in caduta libera in tutta Europa. Il fanatismo islamico riguarda esigue minoranze manovrate da marpioni che le sfruttano per ragioni di potere e per i loro disegni politici molto più terreni. Lo stesso dicasi per l’ebraismo che è molto più secolarizzato di quanto si crede. In Israele la maggioranza della popolazione vive secondo i dettami dell’unica religione oramai universale: il liberalismo capitalista edonista, non certo secondo i dettami del Talmud. Minoranze di fanatici integralisti possono tuttalpiù servire a tenere in piedi il governo. I fascisti non sono più quelli di Mussolini e collaborano a coalizioni di governo con liberali, socialdemocratici, ex democristiani, in larghe coalizioni. I comunisti in Italia sono minoranze infinitesimali neppure rappresentate in Parlamento e non riescono neppure a superare la soglia di sbarramento. Ha perfettamente ragione, invece, quando parla di conformismo di massa e di autoritarismo; questi due elementi attraversano luoghi e sistemi fra i più diversi, compreso Stati Uniti, Russia, Cina, Europa, paesi islamici e non solo, le cui classi dirigenti, sia liberali che ex comuniste ed ex fasciste, sono diventate tutte intolleranti, piratesche e furiosamente militariste. È vero che avendo perso la guerra l’Italia è una colonia americana a sovranità limitata; che la Nato è un pericolo e saremmo più sicuri se fossimo militarmente neutrali. Che imperversano massonerie deviate, complottisti, mafie varie e giornalismo asservito al potere, così come tanta parte della cultura e delle accademie. Ma questo non vale solo per noi. L’Europa intera è asservita all’America, anche quella ex comunista. Come analista Mazzella mi sembra ripetitivo e il più delle volte carente. Potrebbe usare meglio le sue capacità, per esempio scrivendo di musica che deve conoscere bene. Il suo pezzo del 14 dicembre sulla prima della Scala l’ho trovato davvero profondo e originale e mi ha sorpreso positivamente.
Cordiali saluti
Emilio Corsi  

ADIACENZA, O DELL’IDEALE DELLA POESIA
di Massimo Pamio


Adam Vaccaro
 
Adam Vaccaro è un poeta militante, cioè un poeta civile, impegnato, che crede fortemente nella possibilità della parola, fosse anche quella dell’ultimo poeta della terra, che però quando riesce a dialogare con altri poeti, rende ancora viva una pratica ormai relegata in un ambito talmente marginale che si potrebbe definire quasi inesistente nell’attuale società.
Di recente, ha pubblicato un volume, Percorsi di Adiacenza, Antologia di ricerca critica dei linguaggi della Poesia e dell’Arte, per Marco Saya Edizioni, 608 pagine dense di osservazioni e arricchite da due testi prestigiosi, di Elio Franzini e di Donato Di Stasi. Il corposo testo di Adiacenza si interessa di come vada letto il testo poetico, problema che in qualche modo, anche se in riferimento all’arte, Gilles Deleuze si poneva, affermando che bisognerebbe leggere le opere d’arte con il linguaggio proprio dell’opera d’arte, “Bisogna che i concetti della pittura vengano tratti nella scrittura in modo esatto, che non siano di tipo matematico o fisico, che non siano nemmeno della letteratura depositata sul quadro, ma che siano, come tali, della e nella pittura” (in La pittura infiamma la scrittura, in Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, a cura di U. Fadini, ombre corte). Si dovrebbe cercare un meccanismo interno alla poesia, per sviscerarla, questione che potrebbe anche essere formulata così: la poesia va ascoltata, va intesa così come (e in che modo) essa interroga e si fa interrogazione diretta al linguaggio stesso, obbligando l’autore a interrogare se stesso, il lettore a lasciarsi interrogare, in base a ciò che la poesia stessa tende a formulare come (gridata o sussurrata) domanda, incarnandosi. Insomma, la poesia come quaestio, come qualcosa di irrisolto - altrimenti non sarebbe mai nata, se fine e principio di sé stessa. Essa denuncia forse un vuoto inadempiuto, un tentativo di completezza, una richiesta, un desiderio di essere colmata? No, è un fenomeno di ciò che in sé non ha pienezza, ma desiderio di pienezza, e che forse nella parola cerca un ausilio, una soluzione: la poesia è dunque ciò che viene prima della parola per fondarla? Per Vaccaro sono le “adiacenze” essenziali, le consonanze con altri poeti, con i messaggi di quei poeti, che stabiliscono una comunità che palpita, unica, audace (e che fonda la parola). Ogni poeta, a mio avviso, dialoga con quelli del passato, li attualizza, li rende propri testimoni e interpreti, e poi interroga quelli del presente in vista della comprensione (della benevolenza) di quelli del futuro. Non dialoga con gli ideali, l’ideale vero di ogni poeta è costituito dalle relazioni con i poeti del passato (pur se errate o ingannevoli), dal fatto di stabilire con loro una nuova forma di letteratura, che è quella di una ideologia intima, serrata, il dialogo assoluto tra due solitudini.


Vaccaro e Galzio

Il poeta che dialoga con quelli che lo hanno preceduto fa accadere ciò che ciascun poeta sogna, e cioè che sia preso in considerazione da quelli del futuro, per essere reso alla vivenza - una sottovivenza - che rende attuale una nuova possibilità, e si restituisce, in qualche modo, alla tensione verso l’immortalità, fine che è però reale, e cioè parlante, condizione del poeta che continua il dialogo al di là di sé stesso, nella poesia - l’ideale. Ideale è ciò che viene idealizzato proprio con questa relazione, e diventa il contenuto della forma-poesia. Per Vaccaro, diventa “adiacente”, poesia che si abbandona, giace e trova a giacere accanto a sé il tempo, un altro tempo, una forma che si è resa ideale. Poesia ideale o l’ideale della poesia sono forse una cosa sola, sono quella interpretazione che resuscita la lettura, e con quella stabilisce la vacuità, l’inutilità del tempo: la poesia è ideale quando vince il tempo, e per vincerlo ha bisogno non di un critico ma di un altro poeta, di un lettore che crede nello stesso ideale formale, soltanto formale, che travalica quei limiti imposti all’essere mortale. Bisogna far parlare la poesia dall’interno della poesia, secondo Deleuze, ed è quel che accade quando diventa ideale, dialogo tra poeti. L’immaginario al potere, il dialogo impossibile che diventa fervido, attualizzazione di segreti, rivitalizzazione di ipno-giacenze.


Vaccaro e Ravizza

L’ideale è la parola che vola e torna a volare, mai toccando terra, mai sporcandosi, che si fa anche portatrice di “idealità”, di valori, di virtù morali, di umanità: questa è l’adiacenza di cui parla Vaccaro, giacere accanto o sopra o sotto l’egida della virtù morale, della dignità, del rispetto dell’altro, dell’anelito alla fratellanza, alla pace, all’amore universale, quando il logos si impregna del connubio tra poeti in senso morale, etico, ponendo l’ideale poesia come fondamento di contenuti in cui si esaltano le qualità migliori dell’umano; quando i poeti si fanno uomini abbandonando la loro veste di poeti, poiché l’ideale ha reso valida l’inseità della poesia trasmettendone la forma attraverso le adiacenze, la possibilità dell’uno attuata nel logos evocante dell’altro. Il futuro evoca il passato e lo chiama a sé facendosi testimone di un dire che diventa necessario, e cioè non solo attuale, ma attuato. È necessario quel che forse neanche il poeta del passato sapeva della propria poesia? Non è necessario, è immaginario che si fa ideale.


 Vaccaro

L’immaginario al potere si trasforma, muta, si fa imprendibile per non cadere nel sostanziale. Perché la parola non deve esaurirsi, perché ci saranno ancora altri dialoghi, altre adiacenze fin che la poesia esisterà, per unire i poeti.
Il poeta che dialoga con il passato incontra l’uomo. Nell’ideale i poeti negano la loro identità formale per incarnarsi di nuovo. Abbandonata la maschera del poeta, i due sono uomini nella loro idealità, nel loro immaginario che si è reso, nell’incontro di due anime, necessario. Le loro parole sono immaginario divenuto patrimonio comune, sono l’attualizzazione di una possibilità che nessuno dei due conosceva prima del loro incontro fuori del tempo, in un’assoluta libertà, in un’unione assoluta. È questa la coniugazione di comunicazione e complessità di cui parla Vaccaro, che torna a far vivere personalità di grandissima caratura come Giò Ferri, Gilberto Finzi, Lunetta, Luzzi, Gramigna, Majorino, Cara, Ruffato, Di Ruscio, Leonetti, Porta e tanti altri, conversando con Leopardi, Novalis, Valéry, Baudelaire, Goethe.
 
La copertina del libro

Adam Vaccaro
Percorsi di Adiacenza
Antologia di ricerca critica dei linguaggi della Poesia e dell’Arte
Introduzione e cura di Donato di Stasi  
Postfazione di Elio Franzini
Marco Saya Ed. 2025
Pagine 608 € 30,00

martedì 16 dicembre 2025

IL TRENO DEI BAMBINI
di Francesca Mezzadri


Simona Cappiello

Storia, finzione e responsabilità autoriale.
 
Innanzitutto una precisazione necessaria per i lettori. L’obiettivo di questo testo non è “accusare”, ma analizzare criticamente le relazioni testuali, metodologiche ed etiche tra opere storiche, documentarie e un’opera di finzione di grande successo editoriale, alla luce delle buone pratiche della ricerca e della scrittura. Sull’uso delle fonti storiche nel romanzo Il treno dei bambini di Viola Ardone. Il presente contributo analizza il rapporto tra fonti storiche, opere di ricerca precedenti e il romanzo Il treno dei bambini (Einaudi, 2019) di Viola Ardone. Attraverso una comparazione testuale puntuale, si esaminano analogie narrative, strutturali e tematiche tra il romanzo e alcuni lavori storici e documentari pubblicati negli anni precedenti, in particolare I treni della felicità di Giovanni Rinaldi (2009), il documentario Pasta nera di Alessandro Piva (2011) e Gli occhi più azzurri. Una storia di popolo a cura di Simona Cappiello (2011; ed. ampliata 2018). L’articolo non intende formulare giudizi giuridici, ma interrogare criticamente le modalità di trasformazione della ricerca storica in narrazione letteraria, il tema della riconoscibilità delle fonti e la responsabilità etica dell’autore in rapporto al lavoro di studio, testimonianza e memoria collettiva.



Letteratura, storia e memoria
Negli ultimi anni la narrativa europea ha mostrato un crescente interesse per opere di finzione radicate in eventi storici reali, spesso legati a traumi collettivi del Novecento. Questo fenomeno solleva interrogativi non solo estetici, ma anche metodologici ed etici: quale rapporto si instaura tra ricerca storica e finzione narrativa? Quali sono le responsabilità dell’autore nel rendere riconoscibile il lavoro di chi ha precedentemente raccolto fonti, testimonianze e documenti? Il caso de Il treno dei bambini si colloca pienamente all’interno di questo dibattito.


Il contesto storico: i “treni dei bambini”
L’invio di migliaia di bambini del Mezzogiorno presso famiglie del Centro-Nord nel secondo dopoguerra è un evento storicamente documentato, promosso in larga parte dal Partito Comunista Italiano, dall’UDI e da reti sindacali e popolari. Tale vicenda è stata oggetto di ricerche sistematiche e pluriennali da parte di storici, documentaristi e ricercatori indipendenti, tra cui i sopracitati Giovanni Rinaldi, Alessandro Piva, Simona Cappiello. Questi lavori condividono un approccio fondato su: interviste dirette ai protagonisti ancora viventi, ricostruzioni archivistiche, attenzione alla dimensione sociale e politica dell’evento.



Il romanzo Il treno dei bambini: dichiarazioni d’intento
Il romanzo di Viola Ardone viene presentato come opera di finzione “ispirata a fatti storici”. Tuttavia, nella prima edizione (2019) manca una nota finale sulle fonti utilizzate, pratica consueta in opere narrative fortemente ancorate a eventi reali. Solo nella nona edizione (gennaio 2020), a seguito di sollecitazioni pubbliche e legali, compare una breve e generica “Principale bibliografia di riferimento”, non presente nelle edizioni estere né in alcune edizioni speciali, né nelle edizioni a seguire.


Metodologia di analisi comparativa
L’analisi qui proposta si presenta al confronto diretto tra passi testuali.


Individuazione di nuclei narrativi coincidenti.
Comparazione di personaggi, situazioni, immagini simboliche e sequenze narrative. L’obiettivo non è dimostrare ma valutare la riconoscibilità del “nucleo individualizzante” (per usare una categoria della critica testuale) delle opere precedenti all’interno del romanzo.



Corrispondenze narrative e strutturali
Dall’analisi emergono numerose e puntuali corrispondenze tra il romanzo e i lavori precedenti, tra cui: la costruzione del protagonista Amerigo/Americo e la sua storia personale. Il rapporto con una figura femminile ispirata a Derna Scandali. Episodi specifici (scarpe strette, cappotti lanciati dal treno, il mare visto per la prima volta, la mortadella, il lavoro degli stracci). Immagini e sequenze quasi sovrapponibili nella descrizione. Tali elementi, già presenti in forma testimoniale e narrativa nelle opere di Rinaldi, Cappiello e Piva, vengono rielaborati nel romanzo senza un’esplicita attribuzione delle fonti originarie.


Questioni etiche e scientifiche
In ambito accademico e di ricerca, l’uso di materiali preesistenti comporta: citazione delle fonti, riconoscimento del lavoro altrui, trasparenza metodologica. Quando una narrazione di finzione utilizza in modo sistematico dati, testimonianze e strutture narrative derivanti da ricerche precedenti, la mancata attribuzione solleva un problema non solo di correttezza scientifica, ma anche di giustizia simbolica, in particolare nei confronti di ricercatrici e ricercatori che hanno lavorato per anni senza sostegno editoriale o mediatico.



Memoria, mercato e asimmetrie di potere
Il caso in esame evidenzia una dinamica frequente nel sistema culturale contemporaneo: lavori di ricerca “poveri”, indipendenti e militanti.


Opere di finzione sostenute da grandi editori e da un forte apparato promozionale
La memoria collettiva rischia così di essere veicolata attraverso prodotti di successo che oscurano le fonti originarie, trasformando il lavoro di ricerca in un semplice “serbatoio narrativo”. Il presente studio non intende delegittimare il valore letterario del romanzo Il treno dei bambini, ma propone una riflessione critica sul rapporto tra narrativa, storia e responsabilità autoriale. Riconoscere le fonti non limita la libertà creativa: al contrario, rafforza la credibilità dell’opera e contribuisce a costruire una memoria condivisa fondata sulla sapienza, non sulla rimozione.

 
Bibliografia essenziale 
Rinaldi, G. I treni della felicità, Ediesse, 2009
Cappiello, S. (a cura di), Gli occhi più azzurri. Una storia di popolo
Città del Sole, 2011/2018
Piva, A. Pasta nera, documentario, 2011
Ardone, V. Il treno dei bambini, Einaudi, 2019
 

 

 

 

 

IL LIBRO SALVATO
di Angelo Gaccione


 
Rendiamo qui pubblicamente onore a quanti hanno contribuito a salvare dal macero l’antologia poetica Milano in versi. Una città e i suoi poeti.
 
Salvare un libro dal macero è un’azione nobile. Un libro non è solo un insieme di fogli sui quali sono state incise con l’inchiostro delle parole. Parlo di libri che sono costati fatica e vi è stato profuso qualche pensiero decente, non di quella inutile paccottiglia che ci invade come una cloaca e, come dice perentoria la mia amica scrittrice Lodovica San Guedoro che vive in Germania, “non dovrebbero nemmeno essere stampati”. Io sono più indulgente di lei, in fondo, se non veicola idee aberranti, razziste, guerrafondaie, un libro di squalità non fa gravi danni. Anche se so che la loro quantità e il loro peso, finiscono per soffocare quelli meritevoli, utili; così come un’erba infestante toglie spazio ed ossigeno a piante sane. 



Uno di questi libri condannati al macero lo abbiamo salvato di recente; si trattava di 300 copie (o poco più) rimaste in magazzino dopo la morte del titolare della Casa Editrice. Bisognava liberare il deposito e la sua sorte era segnata. Ci siamo proposti di portarle via noi le copie di quel libro, per farlo circolare. Ho suggerito di proporlo al costo simbolico di 1 euro (si trattava di una antologia poetica di ben 190 pagine, e in cui comparivano testi poetici dei maggiori autori del Novecento, non solo italiani. Fra essi, accanto a Montale a Sereni a Fortini a Tessa a Zavattini, l’ungherese Endre Ady e l’americano Herman Melville. 



Mi sarei incaricato io stesso di fare la prova, prima di lanciare un appello più ampio a una serie di contatti. Mi intrigava l’idea di verificare le reazioni delle persone, vedere come avrebbero accolto la proposta. Scelsi gli sfarzosi ed eleganti negozi della Galleria Vittorio Emanuele qui a Milano, per un primo assaggio: in fondo i poeti del libro celebravano questa città e i suoi luoghi. Non ci crederete, ma è stato un fiasco. Come, direte voi, per un solo euro hanno detto di no? Hanno detto di no, e non mi sono affatto sorpreso. Lo sapevo di già. La poesia è un prodotto inutile, ma non nocivo, lo ha detto Montale. E un prodotto inutile, là dove non si fanno che utili, non vale nemmeno 1 euro. Sì, sono d’accordo, è giusto che non vi abbia cittadinanza.  
 

   

 

   

SEPARAZIONE DI CARRIERE 




LA GEOPOLITICA DEI FORSENNATI   
di Luigi Mazzella 


Podolyak
 
L’Occidente che io, in piena e totale solitudine, definisco ripetutamente (troppo: secondo qualche lettore irregimentato in uno di essi) dei “cinque irrazionalismi” (ritenendo esiziali per la sua sopravvivenza sia quelli religiosi sia quelli politici) continua a dare segnali di indubbia follia. In America del Nord si ripete a cadenze imprevedibili ma ricorrenti il rituale delle sparatorie nelle Università (l’ultima c’è stata alla “Brown” di Rhode Island); in Australia il fenomeno è imitato, ma sulle spiagge; in Europa i governanti di Paesi che dovrebbero “rialzarsi” da una crisi economica preoccupante diventano “volenterosi di guerre (altrui)” e dissanguano le proprie finanze (e i cittadini) con l’invio di armi e di denaro a un Paese che negli anni Quaranta era stato “collaborazionista” di Hitler e delle sue SS, nella persecuzione degli ebrei e che di recente ha ri-scoperto il fascino malefico del Nazismo, esprimendolo trucemente con i cosiddetti ”battaglioni Azov”, massacratori di russofoni e filorussi nel Donbass. A Oslo si dà il premio Nobel per la Pace a Maria Corina Machado che non ha mai usato né usa mai, nel suo lessico, il termine “pace”.


Machado

Considero inutile enumerare gli altri aspetti bizzarri di un’azione politica dell’Occidente affidata sempre più a “nani e ballerini” (per dirla con Rino Formica), a ex coatti di periferia urbana, ad incolti e semi-analfabeti “professionisti del nulla” che spuntano dal vuoto delle loro scolorite esistenze per governare i popoli. Non posso tacere, però, e non commentare l’ultimo “parto” politico-filosofico del duo Zelensky-Podolyak (consigliere preferito e prediletto del primo) non perché io tema che esso possa produrre un qualche effetto (è vuota ciarla) ma perché è sintomatico di una forma d’irrazionalismo che entra a pieno titolo nella follia e va a conforto della mia tesi. Podoloyak ci avverte che se Russia, Cina, India e America pensano di ridisegnare un nuovo assetto geopolitico del mondo esso sarebbe, come nel suo canto dice, a piena voce, Andrea Chenier, “pura fiaba”. Secondo l’uomo-ombra dell’ex protagonista dell’avanspettacolo ucraino, andrebbero invece cancellati e ridotti al pristino stato tutti gli Stati che sono nati per annessioni belliche violente. Infatti, secondo il punto di vista dello stratega Podolyak, cedere territori occupati a seguito di conquiste con le armi sarebbe (e si deve dedurre: sarebbe stato, nel corso dei secoli) del tutto illogico: un vero insulto alla ragione! Esaminiamo le conseguenze dell’ucraino assunto. L’adesione alla logica, per fare un esempio, dovrebbe indurre la Meloni, nei suoi abbracci con Zelensky, a sentirsi solo una rappresentante rionale dello Stato Pontificio.



E ciò perché l’Italia voluta unita, con scontri bellici e cruenti, da Piemontesi, Garibaldini prezzolati da Inglesi e Francesi (per fare dispetto e dare fastidio, e non solo questo, agli Imperi Europei Orientali) sarebbe il frutto di una illogicità palese, manifesta e oltraggiosa dal punto di vista della razionalità.
A parte, infatti, lo Stato Pontificio, anche la Repubblica di Venezia e quella di Genova (Repubbliche marinare con potenti flotte navali), il Ducato di Milano e la Repubblica di Firenze, il Regno di Napoli e di Sicilia, avrebbero dovuto (secondo la dottrina, fatta propria da Zelensky, non è chiaro se lo potrebbero richiedere ancora), sostenere la logica intangibilità e incedibilità dei loro rispettivi territori. In altre parole, Trieste, Trento e il Sud Tirolo, sarebbero stati sottratti  illogicamente all’Austria come Napoli al Regno delle due Sicilie.
Ora, che Podolyak, sia il più ascoltato consigliere di Zelensky, comico di Kjev, e dica corbellerie gigantesche è certamente affare che non ci riguarda, ma che la vecchia Europa, con l’aggiunta della Gran Bretagna, sia ai piedi di un leader , “nano e ballerino” in odore di neo-nazismo e propalatore di smisurate fandonie ci preoccupa e ci indigna non poco.

DON MILANI A PARMA
Venerdì 19 dicembre 2025  





MARCO VITALE  E MARCO SACCONE A BRESCIA
Alla Libreria Tarantola Via Fratelli Porcellaga n. 4



 
Sabato 20 dicembre 2025 ore 17,30
 

lunedì 15 dicembre 2025

DISAGIO DELLA SCONFITTA E SCIOPERO GENERALE
di Franco Astengo


 
Un primo rapido commento all’esito dello sciopero generale organizzato dalla CGIL nella giornata di ieri 12 dicembre 2025, anniversario della strage fascista di piazza Fontana.
 
La sinistra italiana, il movimento dei lavoratori, soffre da tempo di un “disagio della sconfitta” che rischia di farla cadere sempre di più in quella forma di falsa coscienza (probabilmente consolatoria) che imputa all’ideologia degli altri le cause dell’attuale stato di cose. La CGIL proclamando da sola lo sciopero generale (presumo senza alcun intento soreliano) ha inteso rispondere a questo evidente disagio partendo da sé, senza alcuna pretesa sostitutiva ma quale indicazione di una vera e propria “resistenza” quale presupposto basilare del ritorno ad una identificazione di classe. Questa affermazione riguardante la resistenza e l’identificazione di classe, della quale vi assumiamo per intero la responsabilità, prescinde dall’analisi dei risultati concreti che lo sciopero ha avuto, dall’andamento delle manifestazioni, dai numeri dell'astensione dal lavoro nelle diverse categorie. Egualmente definire una riconoscibilità di classe non può ignorare l’articolazione sociale (al limite della scomposizione) che si sta affermando nella modernità e la sovrapposizione esistente tra una prevalenza dell’individualismo competitivo e la necessità di iniziativa collettiva resa urgente dall’asprezza delle contraddizioni in atto. Iniziativa collettiva che appare ancora minoritaria (ma non marginale) per un insieme di ragioni, prima fra le quali il deficit democratico ormai evidente nel sistema politico italiano. Viviamo un momento storico nel quale la conflittualità prodotta dalle “fratture” materialiste e post-materialiste sta provocando un rimescolamento tra gli antichi concetti di struttura e sovrastruttura (una dicotomia “assalita” dalla forme diverse di innovazione tecnologica) e agitando i contesti sociali senza trovare corrispondenza politica: questo punto di analisi va ben oltre il perimetro del “caso italiano”, oggi di retroguardia dopo un lungo periodo nel corso del quale ha rappresentato un vero e proprio fenomeno d’avanguardia.


Per ricordarcene

I livelli di sfruttamento, l’acuirsi delle diseguaglianze, lo spostamento materiale dei luoghi di lotta, ci fanno ritenere in corso un ampliamento e una diversificazione dal punto di vista sociale della categoria della classe (ad esempio: come si misura sull’intreccio tra super sfruttamento e necessità di integrazione dei migranti): anche se le vicende genovesi della settimana scorsa ci hanno ancora una volta indicato la classe operaia come luogo “centrale” di una possibile iniziativa di reazione. Emergerebbero tanti altri spunti di riflessione: alcuni non secondari relativi alla struttura del sindacato in Italia tra i quali l'estinzione della antica prospettiva unitaria tra i sindacati confederali e la crescita dei sindacati di base fondati sulla “resistenza della classe”, in una prospettiva di diverso assetto complessivo del sindacato: ma sviluppare un’analisi compiuta in questo senso ci porterebbe troppo lontano adesso come adesso e ci costringe a limitarci a queste prime sommarie osservazioni.

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