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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
lunedì 8 dicembre 2025
LA CENSURA DEI GUERRAFONDAI
di
Coordinamento per la Pace - Milano
Il
Coordinamento per la Pace - Milano solidarizza con i Professori Angelo D'Orsi e
Alessandro Barbero per il grave atto di censura subito (spiegazione in calce) e
invita i cittadini e le organizzazioni a fare fronte comune per una
mobilitazione a sostegno dei principi dell'iniziativa soggetto di censura:
quelli sanciti dalla Costituzione della Repubblica Italiana nata grazie alla
Resistenza contro il nazifascismo. Per la Pace, la Democrazia e la Libertà di parola.
Per queste ragioni convochiamo per martedì 9
dicembre alle ore 21 alla Casa Rossa di via Monte Lungo n. 2 a Milano
(Metropolitana Linea 2 Rossa fermata Turro) un’assemblea pubblica al fine di
organizzare una mobilitazione contro il sistema guerra che vede come primo
elemento quello della propaganda e della censura.
Torino. A pochi giorni dall’evento “Democrazia in tempo di guerra.
Disciplinare la cultura e la scienza, censurare l’informazione”, previsto per
il giorno 9 dicembre al Teatro Grande Valdocco di Torino, nel quale il
sottoscritto avrebbe dialogato con il collega Alessandro Barbero, con
l’adesione di importanti nomi della cultura, della scienza, del giornalismo, della
comunicazione (Elena Basile, Alberto Bradanini, Luciano Canfora, Alessandro Di
Battista, Donatella Di Cesare, Margherita Furlan, Enzo Iacchetti, Marc Innaro,
Roberto Lamacchia, Tomaso Montanari, Piergiorgio Odifreddi, Moni Ovadia, Marco
Revelli, Carlo Rovelli, Vauro Senesi, Marco Travaglio), ci viene comunicato
questa mattina dalla proprietà del teatro, col quale si era giunti alla firma
di un regolare contratto dopo una lunga gestazione, che lo spazio non ci verrà
concesso. Al di là delle motivazioni
pretestuose e della rottura unilaterale di un regolare contratto - per cui
abbiamo già allertato il nostro team legale per avviare azione di richiesta
risarcitoria dei danni che questo comportamento ci procura - non possiamo non
rilevare che il fatto conferma perfettamente le nostre preoccupazioni sulla
limitazione degli spazi di libertà nel Paese e in generale l’inquietante deriva
politica e culturale di una democrazia ormai palesemente illiberale, a dispetto
della facciata. Di questo avremmo voluto parlare nel corso della serata.
Intanto mentre a nome dei soggetti
organizzatori, che hanno lavorato per settimane per preparare l’evento, esprimo
rammarico a chi aveva prenotato i posti, e a quanti, colleghi e amici che
avevano data la loro disponibilità, a partecipare (a cominciare dal prof.
Barbero), chiedo a quanti mi sono stati vicini in questo mese di “passione”, a
quanti hanno a cuore i principi della legalità democratica sancita dalla nostra
Costituzione, a quanti anelano soltanto ad essere correttamente informati, per
poter assumere una posizione in merito alle gravissime problematiche del nostro
tempo, di sostenermi in questo nuovo capitolo di lotta. Ancora una volta non si
tratta solo di Angelo d’Orsi, ma di coloro che, esponendosi in prima persona,
mirano semplicemente a esprimere il loro pensiero anche quando esso non sia “in
linea” con quello dei poteri forti, palesi o occulti che siano. In ogni caso, l’evento si terrà. Nei primi giorni
della prossima settimana comunicheremo data e luogo. Però, intanto, annuncio
che alle 18.00 del 9 dicembre, nel giorno dell’evento negato, faremo un sit-in
di protesta davanti alla sede del Comune di Torino, come luogo simbolo di una
città che è di tutti, e deve essere di tutti, una città medaglia d’oro della
Resistenza, la città di Gramsci e di Gobetti, per semplificare, di Norberto
Bobbio e di Gastone Cottino, e di tanti e tante che si sono battuti per la
libertà.
FUGA DALLE URNE MA NON SI CHEDONO PERCHÉ
di Gian
Giacomo Migone
Risulta sempre più evidente la contraddizione tra
la gravità dellapreoccupante situazione in
atto, in Italia come in Occidente, e l’irrilevanza attuale della politica partiticamente
intesa. Ma concentriamoci sui problemi di casa nostra. Il governo finanzia una
politica che alimenta le guerre in atto, sottraendo i pochi soldi a
disposizione dei bisogni sempre più impellenti dei cittadini, mentre si
intensificano gli attacchi a garanzie costituzionali quali la libertà di parola
e di pensiero, l'indipendenza della magistratura, il ruolo del parlamento.
Nello stesso tempo i partiti di opposizione sono impegnati in sfibranti
conflitti sulle modalità di confronto con la presidente del consiglio, in casa
sua (il caso Atreju), mentre il PD dedica buona parte delle proprie energie a
costruire un correntone allo scopo di contenere o ratificare i poteri della
propria segretaria in carica. Il popolo sovrano guarda altrove. Ma vi è chi ci
aiuta a trovare il bandolo di una matassa essenziale in democrazia, quella
delle elezioni. “È poco utile riflettere sul risultato del voto regionale in
Campania, Veneto e Puglia partendo dall’astensionismo alluvionale (cfr. “La
Repubblica”, 25 novembre, p. 21). Sono parole di Stefano Folli e, quindi, per
il suo ruolo di sostenitore indefesso di un campo sempre più largo e il più
possibile annacquato, va da sé che bisogna fare il contrario di quanto egli
dice. Certo, non possiamo che compiacerci del forte segnale di cedimento di
Meloni nel “suo” Mezzogiorno, come anche della capacità del centro sinistra, fondato
sull’alleanza Schlein-Conte, di pareggiare i conti con la destra nella recente
tornata di elezioni regionali. Tuttavia, resta il fatto brutale che si sono
persi quasi altri 2,3 milioni di votanti in questo giro di elezioni italiane. Non
mi stancherò di ripeterlo: in Italia, come in tutto l’Occidente, vincono le
elezioni coloro che riescono a motivare al voto il maggior numero di
astensionisti, ormai maggioranza assoluta o relativa, più o meno dappertutto. Un
tempo era più o meno la stessa percentuale di cittadini a recarsi alle urne;
negli Stati Uniti il 50-60%, in Italia addirittura si rasentava il 90%. Allora
vinceva chi riusciva a guadagnarsi il consenso degli incerti, di solito
moderati e centristi.
Ora non è più così. Tuttavia, non lo hanno capito neanche
persone serie e bene intenzionate, quali Romano Prodi, dotato delle
rispettabili credenziali di essere stato - ma in altri tempi - il solo a portare
per due volte alla vittoria una coalizione di centro sinistra, nonché il suo
pesce pilota Arturo Parisi; con un codazzo di ambiziosi leaderini PD, per non
parlare dei grandi giornali interessati a collocarli in vetrina. Ne consegue
che il problema non è quello di moderare il presunto radicalismo di Elly
Schlein, beneficamente liberata - aggiungo io - dai condizionamenti d’oltreoceano
come effetto dell'ascesa di Donald Trump. Vince chi motiva al voto il maggior
numero di persone altrimenti convinte che recarsi alle urne non vale la fatica.
Quindi, lo scontro si radicalizza. Non è un caso se personaggi, forze politiche
e apparato mediatico portati all’inseguimento del voto di centro sono parimenti
impegnati ad esorcizzare il “cattivo esempio” di Zohran Mamdani, eletto sindaco
di New York sulla base di un messaggio politico durissimo, capace di mobilitare
un’inedita partecipazione al voto. Altrettanto significativo è il pressoché
totale silenzio mediatico che circonda la più recente conquista di Copenhagen -
più piccola di New York, ma più vicina a casa nostra - da parte di una
coalizione di forze di sinistra ed ambientaliste, guidate dalla novella
sindaca, Sisse-Marie Welling, che, tra l’altro, ha segnato una sconfitta del
governo socialdemocratico in carica, duramente anti immigratorio.
Ciò che motiva al voto, altrimenti
astensionista maggioritario, è la natura del messaggio e la credibilità dell’impegno
di chi lo lancia. Nel momento in cui il “Dio, Patria e Famiglia” dei Trump e
delle Meloni comincia a mostrare la corda, avendo fatto il pieno di voti
identitari, occorrono valori corrispondenti ai sacrosanti interessi di una
potenziale maggioranza popolare, nettamente contrapposti a quelli di un’esigua
minoranza che, per interposta classe politica, ci governa. Perché una simile
intenzione risulti credibile occorre indicare la redistribuzione di risorse
necessaria per conseguire più pane, più pace e anche più libertà per tutte e
per tutti.
LA FOLLIA
EUROPEA
di Luigi
Mazzella
Qualche giorno fa, in risposta alla nota con cui Franco Continolo scriveva: “la follia europea è il frutto dell’irrazionalismo e la religione c’entra nella misura in cui è essa stessa a farsi divulgatrice di forme di irrazionalismo”, osservavo che sottoscrivevo in pieno tale assunto ma proponevo di non limitare il discorso all’Europa, perché la pazzia era, a mio giudizio, quanto meno Occidentale. Oggi aggiungo che l’occidentalizzazione di Corea del Sud, Giappone e Filippine, con punte notevoli di religiosità soprattutto cristiana, la “comunistizzazione” della Corea del Nord e l’islamizzazione di altre parti del Continente Mediorientale e Asiatico tout court, rischiano di ampliare il panorama degli irrazionalismi nel globo, omogenei e nefasti per i danni che provocano, e di lasciare poco adito a speranze per un miglioramento futuro delle condizioni di vita dell’intera umanità. Ritornando all’Occidente, devo dire che sinora, quando la pazzia collettiva ha toccato il suo diapason, sono magicamente spuntati leader politici luminosa intelligenza che ne hanno impedito una catastrofica fine. Negli anni Quaranta, Winston Churchill smascherò il Nazifascismo penetrato fin negli ambulacri della Corte di Gran Bretagna: oggi, nel Terzo Millennio, Donald Trump sta riuscendo a mettere alle corde (anche lui, come allora, con l’aiuto dei Russi, pur non amati nel mondo anglosassone fin dai tempi degli Zar) il Nazifascismo mascherato di Zelensky, penetrato nel cuore degli Stati Uniti d’America, grazie al Deep State e ai suoi ben pagati burocrati, ai Democratici ad esso asserviti, ai finanziatori (di Wall Street), ai produttori di armi, ai loro commercianti palesi e ai loro trafficanti occulti (mafie).
Ora, dopo l’intervento di Donald Trump che, senza mezzi termini ha parlato di declino e di collasso inarrestabile soltanto del Vecchio Continente, per le sue posizioni suicide in campo bellico, mi incombe di chiarire meglio, alla luce di tale affermazione, il pensiero da me espresso nella nota di qualche giorno addietro. Trump ha ragione nel dire che la follia esplosa tra i “volenterosi di guerra” in Francia, in Germania e in Gran Bretagna (a tacere dell’Italia di Crosetto, di Tajani, della Meloni definita, per cavalleria “cavalleria”, dal neo presidente americano solo “miope” e non totalmente “cieca”)” non ha equivalenti in America, ma solo perché il partito dei guerrafondai, quello sedicente “Democratico” dei Biden e degli Obama, collegato alla CIA, all’FBI e al Pentagono è stato da lui sconfitto sonoramente e preferisce, come sa fare ogni abile ventriloquo, dare l’impressione che a sbraitare contro la ben controllata Russia sia il “fantoccio” del suo braccio “europeo”. I “servizi segreti” a suo tempo abilmente “deviati” dall’Intelligence anglosassone hanno fatto un buon lavoro: risulta fin troppo chiaro che le aberranti dichiarazioni di “attacchi preventivi in funzione difensiva” di militari lontani dal motto della nostra Arma benemerita mettono la sola Europa sull’orlo del baratro. È altrettanto verosimile che l’Europa, dopo essere uscita sostanzialmente sconfitta dalle due guerre mondiali (che hanno ridimensionato in modo deciso e progressivo il suo ruolo e che dalle due guerre attualmente in atto verrà fuori ugualmente malconcia e stremata), possa farneticare, per suo conto, di rivincite assurde, pretendendo di imporre, essa, le condizioni di resa formulate da Zelensky, pure uscendo perdente come l’Ucraina. Non si può escludere neppure che gli interessati e servi “Arlecchini” dei Democratici americani (oggi: transnazionali), fanatici, ad oltranza, della guerra, possano decidere (in un prossimo futuro) di unirsi al Giappone, per portare il mondo a una nuova guerra mondiale, contro Russia, Stati Uniti d’America (se retti da Presidenti Repubblicani pacifisti, alla Trump) e Cina per la questione di Taiwan. Divorata, com’è, dal suo desiderio di riprendere un posto significativo nella geo politica mondiale prima che sia troppo tardi, l’Europa agisce con l’irrazionalità che è diventata la sua nota distintiva e dominante senza tenere nel giusto conto che la riunificazione nazionale è un affare esclusivamente cinese e non spetta al Giappone intromettersi. L’Italia della Meloni, memore delle sue rivendicazioni patriottiche per Trieste e Trento, dovrebbe sapere perfettamente quale sia il nocciolo del problema: ma “contro la forza (della follia) la ragion non vale”.
Detto ciò
va anche precisato che l’Europa sta dando, come suole dirsi, “i numeri” perché
è rimasta servile, per i poliennali salamelecchi precedenti, non della America tout court ma dei Democratici d’Oltreoceano. In altre parole, la “demenza” Europea ha la propria fonte e il
suo humus nella forsennata politica del partito Democratico
statunitense che in ottanta anni di cosiddetta “pace” non ha fatto altro che
scatenare furibonde guerre, producendo, da un lato, violazioni dei più
elementari diritti umani e, dall’altro, arricchimenti smisurati di produttori,
venditori e trafficanti illegali (soprattutto mafiosi) di armi.
Trump è
un leader politico e deve fare necessariamente il suo
gioco. Se, però, fosse anche un filosofo o un pensatore libero dai
condizionamenti politici, dovrebbe riconoscere che l’America non può essere
esente dalla follia Occidentale, perché in quel Paese non solo le religioni
sono numerose e presenti con articolazioni varie in numero superiore a ogni
altro luogo del Pianeta (assumendo, per giunta, aspetti di stravaganza più
preoccupanti che altrove) ma anche che fascismo e comunismo non sono
estranei alle scelte demagogiche degli uomini politici statunitensi propensi,
anche in questo caso più che altrove, alla “irreggimentazione” dei propri
seguaci in gang con regimi settari e segreti di conduzione. D’altronde il “sedicente” filosofo Platone, che diceva di amare la
conoscenza della realtà di cui, però, era egli stesso il fantasioso
creatore con visioni di mondi inesistenti e che alla razionalità,
all’empirismo, alla sperimentazione concreta della vera realtà esistente (
quella esaminata dai filosofi “veri” della civiltà precedente) anteponeva, come
gli altrettali visionari del dualismo religioso nato e
sviluppatosiin Medioriente (non a caso, da sempre rissoso e
litigioso) ha influenzato tutta intera la cosiddetta “cultura” politica
Occidentale, che con il suo bagaglio di fantasiose utopie, è passata dal
Vecchio al Nuovo Continente senza sostanziali differenze.
Domanda
finale: Se la follia Europea sta toccando un apice che potrebbe condurre il
Vecchio Continente all’autodistruzione più stupida e ingloriosa,
Trump
veramente crede che i suoi nemici interni del Partito Democratico siano esenti da colpa per una tale tragedia
e che siano, soprattutto alieni dal ripetere la stessa esperienza, se
dovessero ritornare al potere con l’aiuto del Deep State, che
certamente non ha dato forfait, nonostante lo smacco elettorale?
domenica 7 dicembre 2025
IL VERSO DI MILANO
di Angelo Gaccione
Il verso di Milano (sottotitolo: Un ritratto della città in 80 immagini,
poesie e canzoni) a cura di Gino Cervi e Giancarlo Consonni, fotografie di
Lorenzo De Simone e post-fazione di Roberto Mutti (About Cities Ed. 2025,
pagine 206 € 26) è uno splendido ed elegantissimo libro corale. Si compone di
84 foto, se contiamo quelle inserite all’interno delle controcopertine, di 80
testi, tra poesie e canzoni, dedicati alla città meneghina, per un totale di 51
autori. È strutturato in sei blocchi (Paesaggi e luoghi, Case, Movimenti,
Permanenze e discontinuità, Vite, Sogni) ciascuno introdotto da un puntuale e
stimolante breve saggio che funge anche da guida per il lettore-osservatore. Parole
e immagini si chiamano e si ritrovano: nelle atmosfere e nei sentimenti, nei
dettagli e negli scorci. Il lettore scoprirà quanto sia articolata e composita
la Milano dei poeti, e come lo sia altrettanto quella su cui si è posato
l’occhio del fotografo che ha guidato l’obiettivo della macchina fotografica.
Un dialogo in apparenza muto, fissato sulla carta e che altre parole ancora
(dei curatori), si incaricano di precisare. Se è fin troppo noto che Milano non
possiede, come efficacemente scrive Roberto Mutti nella post-fazione, “la
bellezza sfrontatamente esibita di Roma, il fascino incantato di
Venezia, l’eleganza di Firenze, la vitalità vibrante di Napoli”, va
aggiunto, per citare ancora una volta Edith Wharton, che “Neppure a
un’occhiata veloce Milano può sembrare poco interessante”.
Riservata, nascosta, pur con tutti gli oltraggi che ha dovuto sopportare, la
sua bellezza c’è, ma devi andare a cercartela, e quando la scopri ti sorprende,
ti risarcisce della pazienza. Ma dovete entrarle nel ventre, mettervi in
ascolto come faccio io da anni e anni, percorrerla a piedi senza pregiudizi
scegliendone volta a volta una fetta. E così che sono entrato in risonanza con
lei, e ora ci comprendiamo a fondo, ci apparteniamo. Di versi non gliene ho
dedicato molti, ma una sezione dal titolo ‘Le Milanesi’ è compresa nella mia
raccolta poetica: Una gioiosa fatica 1964-2022 (La Scuola di Pitagora,
2025), pubblicata di recente. Contiene otto affettuose poesie: ne riproduco qui
una scritta nel 1999. Sono versi di una antica stagione a cui sono rimasto
fedele.
Milano
Conosco una città
che molti dicono brutta
ma nel mio cuore è vivo
l’eco dei suoi cortili.
Conosco una città
di giardini segreti
celati ad occhi indiscreti
come amori proibiti.
Conosco una città
che non ha orizzonte
ma oltre i palazzi e le antenne
io immagino il mare.
Conosco una città
che ha molti difetti
ma io non l’amerei
se fosse troppo perfetta.
Resta grigia e impura
mia città senza sole
che la bellezza sia
per me il tuo cuore.
MANIPOLATORI
di Franco Toscani
Thomas
Mann e gli incantatori del popolo. Note su letteratura e politica.
Nel 1930,
mentre nello scritto Un appello
alla ragione cerca di mettere in guardia la borghesia tedesca dal pericolo
nazista e la invita ad appoggiare il partito socialdemocratico, Thomas Mann
pubblica la novella Mario und der
Zauberer. Ein tragisches Reiseerlebnis (Mario
e il mago. Una tragica esperienza di viaggio). Il racconto, scritto nel
1929 e pubblicato nel 1930, è il resoconto sostanzialmente fedele - salvo l’esito
letale del finale, frutto di pura invenzione - delle vacanze italiane passate
da Mann, da sua moglie Katia e dai loro due figli minori Elisabeth e Michael, a
Forte dei Marmi, in Versilia, nell’agosto-settembre 1926.
Registrando alcuni contrattempi e
disagi della vacanza, Mann menziona “il rozzo abuso di forza, ingiustizia,
corruzione strisciante”, avverte umori sgradevoli e indefinibili, nota un certo
clima pesante e oscuro gravante sulla vacanza. È un’atmosfera strana, tesa,
sgradevole, malsana e opprimente. Nemmeno il sole splendente e la morbida
spiaggia sono sufficienti a rasserenare lo scrittore; anzi, essi lasciano
inappagati “i bisogni profondi, meno elementari dell’anima nordica”, circondata
com’è “senza scampo da mediocrità umana e da marmaglia borghese”.
È infatti l’elemento
umano e politico qui in questione, uomini e donne che ostentano dignità,
coltivano un forte sentimento del proprio onore e del proprio ego, manifestano
in ogni ambito della vita gravità e altezzosità: “Perché mai? Presto capimmo
trattarsi di politica, essere in gioco l’idea di nazione. E in realtà la
spiaggia brulicava di bimbi patrioti, fenomeno innaturale e avvilente”. Siamo
negli anni dell’Italia fascista, dove abbondano il braccio e la mano tesi nel
saluto romano; anche in spiaggia si odono discorsi sulla grandezza e dignità
della Nazione, sulla “patria risorta”, sull’esigenza di saper di volta in volta
ubbidire e comandare, come avviene tra popolo e duce. Nel racconto di Mann si
palesano con evidenza tutto l’orrore, la stupidità, il conformismo, la violenza
verbale gratuita - sempre pronta a sfociare in violenza fisica - del
nazionalismo fascista.
Verso la fine della vacanza, fa
la sua comparsa “l'orrendo Cipolla”, “il funesto Cipolla”, nome il cui modello
dal vero per Mann fu il mago Cesare Gabrielli (1881-1943), famoso ai suoi tempi
per l’abilità negli esperimenti ipnotici.

Thomas Mann

Nel racconto, il cavalier
Cipolla-Gabrielli si qualifica come “forzatore, illusionista e prestidigitatore”;
lo scrittore lo definisce “un virtuoso ambulante, un artista del divertimento”;
nella realtà, durante i suoi spettacoli, Gabrielli chiamava ad esempio sul
palcoscenico alcuni spettatori e li ipnotizzava dicendo loro di guardarlo,
facendosi passare per una bella donna pronta a spogliarsi.
Il cavalier Cipolla del racconto
è dunque un prestigiatore che tiene il suo spettacolo, a cui assistono anche i
coniugi Mann, coi loro due figli minori, particolarmente incuriositi ed
eccitati. Deforme, con uno scudiscio in mano, Cipolla-Gabrielli si presenta al
pubblico in frac, con rigida serietà e con aria di superiorità, senza nulla di
scherzoso, umoristico e clownesco, dandosi importanza, mostrandosi con orgoglio
severo e arroganza, molto sicuro di sé, evidentemente a imitazione del suo
duce. Egli è abile nel suggestionare i suoi succubi e nel leggere nel pensiero
degli spettatori.
Gran simulatore, anche quando interloquisce col pubblico e fa
complimenti, Cipolla è pieno di sé, mostra sempre un atteggiamento di
superiorità, dall’alto in basso, ironico, sarcastico e degradante nei confronti
degli altri, andando sul sicuro con le sue battute ispirate al patriottismo e
all’orgoglio nazionalistico. Così, pur non risultando simpatico e, anzi,
suscitando qualche ostilità e perplessità, l’inflessibile sicurezza esibita
produceva impressione, anche grazie allo scudiscio che portava con sé, avente
il manico a foggia di artiglio.
Nel finale del racconto, risalta
il Cipolla non solo prestigiatore, ma soprattutto incantatore, seduttore e
ipnotizzatore, dedito tenacemente a esperimenti di imposizione e privazione
della volontà. Il pubblico era in balìa della sua personalità estremamente
sicura di sé, rinforzata dai numerosi bicchierini di cognac che beveva durante
lo spettacolo.
Cipolla manipolava abilmente le
persone e le privava dell’autodeterminazione, della libera volontà, ma l’esito
letale (la morte del mago per mano di Mario), palesemente inventato dall’autore
rispetto allo svolgimento reale dei fatti accaduti durante la vacanza, appare a
Mann un finale di terrore, catastrofico e, nel contempo, liberatorio. È la
liberazione dalla tirannia dell’incantatore e seduttore, del manipolatore e
dominatore, dell’illusionista che gode nel sottomettere la volontà altrui alla
propria.
In che cosa consiste allora il
fascino di Mario e il mago? Forse -
oltre che nella straordinaria abilità narrativa dell’autore, ça va sans dire - anche nella eccezionale
capacità di introdurre, partendo da un semplice resoconto (per quanto
arricchito e reinventato) di una vacanza estiva italiana, un’atmosfera
intrigante di suggestione e di premonizione.
Prendendo spunto da un piccolo
fatto privato, Mann ci rende partecipi della tragicità di tutta un’epoca e un
periodo storico (quello cupo e oscuro dell’ascesa dei fascismi e dell’incubazione
della Seconda guerra mondiale), restituendoci lo spessore delle esperienze e
vite individuali intessute e inserite nel grande, tragico palcoscenico della
storia umana e di ciò che Hegel chiamò lo “spirito oggettivo”. I dittatori e
gli incantatori delle masse fanno ovunque disastri e sta allora ai popoli
cercare di sottrarsi alla manipolazione e al dominio cui sono costantemente
sottoposti.
PAROLE
di Anna Rutigliano
Le parole
possono allontanare, creare squarci di ferite all’anima, insanabili, al pari dei
silenzi, generatori di distanze; ma è nell’impalpabile spazio di assenza di parole,
che è possibile ritrovare il punto di connessione con il nostro Io più profondo,
facendole emergere autenticamente per gettare ponti relazionali: sono quelle
parole che fanno avanzare nuovi orizzonti, come nell’illuminante intuizione
poetica di Nelly Sachs, la quale, nell’ultima strofa della sua lirica Völker
der Erde (Popoli della Terra), invitava tutti i popoli a toccare con
il proprio spirito la fonte delle parole, pur essendo un percorso doloroso, per
creare un punto di incontro con l’immensità del Cielo, a cui noi mortali indistintamente
apparteniamo e da cui siamo protetti: Völker der Erde, lasset die Worte an
ihrer Quelle, denn sie sind es, die die Horizonte in die wahren Himmel rücken können. (Popoli della Terra, lasciate le parole alla propria fonte,
giacché grazie ad esse gli orizzonti possono far ritorno all’autentico Cielo),
come nel lieve sfiorarsi fra Adamo e Dio nell’affresco michelangiolesco della
Cappella Sistina.
Le parole possono essere foriere
di mondi alternativi, quando alla loro fonte risiede la ricerca della Bellezza
in ogni dove, persino a Damla, il piccolo villaggio di appena duecento anime
del Turkmenistan, in cui la resiliente adolescente Ogulnar, protagonista del nuovo
romanzo di Luciana De Palma, cui dà il nome (Les Flâneurs Edizioni), scopre,
nei ritmi monotoni che scandiscono i doveri e le azioni quotidiane della
comunità, di poter attraversare mondi nuovi e possibili, per mezzo della forza
misteriosa e magica delle parole, componendo segretamente poesie, nate nel
silenzio della propria anima, con lo sguardo rivolto al cielo blu cobalto, nell’avvicendarsi
delle torride e glaciali notti del deserto del Karakum.
Per mezzo delle poesie,
Ogulnar può curare un bambino in fin di vita, sfidando sia il ruolo prestigioso
della nonna, considerata dagli abitanti una maga per gli intrugli di erbe magiche
con cui è capace di guarire i malati, che però, risultano fallimentari nel
salvare il piccolo ad un passo dalla morte, guarigione che, invece, è affidata
alla nipote, sia le rigide tradizioni custodite dai sei uomini del villaggio,
creduti saggi e depositari di verità inconfutabili da millenni.
Se provassimo per un istante a
lambire dolcemente alla fonte la parola “dialogo”, quasi accarezzandola con la
nostra anima, scopriremmo, nella sua etimologia
greca di Διά-λογος, quanto le parole possano muoversi
rincorrendosi l’un l’altra in una traiettoria la cui meta finale è la
consapevole e reciproca comprensione dei parlanti. È stato il fisico David Bohm,
amico di Einstein e allievo di Oppenheimer, a sostenere l’importanza di
adottare la pratica dialogica, quale prassi a fondamento del campo
epistemologico, atta a ricreare nuovi contesti significativi sia a livello
micro che macro-concettuali, nell’ottica di universale giustizia e pacifica
convivenza, quale metodo euristico indispensabile e applicabile a qualunque
società si consideri civile. Si tratta di una pratica che richiede tempi di
ascolto piuttosto lenti, che cozzano con la velocità con cui oggi siamo
abituati a dialogare al ritmo di algoritmi nel mondo Onlife, nell’attuale
era della comunicazione digitale, per dirla in gergo informatico, mutuato dal
filosofo Luciano Floridi, per la quale, tuttavia, Floridi ravvisa un’etica
dell’informazione incentrata sugli aspetti significativamente qualitativi della
comunicazione.
Senza entrare nello specifico
della fisica quantistica, che esige particolari competenze scientifiche, sono
interessanti gli sforzi di Bohm di applicare il concetto di coerenza del laser,
che genera una energia straordinaria rispetto a quella della lampadina, dal
canto suo incoerente, creando un’analogia nel mondo sociale.
Nel suo saggio
On Dialogue (Sul Dialogo), pubblicato nel 1990, Bohm sostiene
che perché una società funzioni, è fondamentale che il pensiero emerga dal
“piano tacito condiviso”: nell’incontro dialogico fra parlanti, l’esistenza di
visioni multiple deve potersi fondare sulla sospensione dei giudizi e sull’abbandono dei propri assunti, sul non
ancorarsi a convinzioni e opinioni personali generando flussi di significato
coerenti al fine di vivere in modo più pacifico nella collettività; diversamente si incorrerebbe in significati
incoerenti su larga scala e sulla non
comprensione.
Il pensiero dialogico bohmiano
incontra negli anni ottanta quello del filosofo indiano Krishnamurti, una delle
menti più influenti del ventesimo secolo. Dalle loro conversazioni improntate
sulla fisica e sulla filosofia nascono successivamente una serie di dialoghi illuminanti
dal titolo The Ending of Time: Where Philosophy and Physics meet (La
fine del tempo: quando la Filosofia e la Fisica si incontrano): entrambi
gli studiosi concordano nel sostenere l’esistenza di una forma di intelligenza
diversa da quella ordinaria, definita come “abilità del pensiero” associata
all’amore, in grado di abbattere le barriere e gli schemi mentali. Non resta
allora per l’animale semiotico, quale è l’uomo, che impegnarsi ed esercitarsi
nella pratica dialogica, nel senso che ne dà Bohm, di guardare alle cose con amore,
nell’ottica meditativa e spirituale di Krishnamurti e di non smettere mai di
guardare al Cielo, come la piccola adolescente Ogulnar del villaggio di
Damla, nell’omonimo romanzo di Luciana De Palma.
LIBRI
di Federica
Albani

Valentina Fulginiti
Nessuna di
queste vite mi appartiene.
Irene ha quasi
quarant’anni, due dottorati e nessuna certezza. Dopo aver inseguito la
possibilità di una carriera accademica fin negli Stati Uniti, è tornata in
provincia, con lo stigma del fallimento da sopportare, per accudire la madre
malata: la vita che sognava - fatta di studio, successo e libertà - si riduce a
una quotidianità di medicine, attese, silenzi e a un confronto, forse sempre
evitato fino a quel momento della sua vita, con i genitori. Alla ricerca dell’approvazione
fin dall’adolescenza, Irene si ritrova a dover fare i conti con un mancato
riconoscimento, professionale e personale, da parte delle figure che più di
tutte avrebbero dovuto concederglielo: il lavoro culturale, precario e poco
remunerativo, non è all’altezza dei progetti immaginati per quella figlia così
in gamba. Tra l’odore dei disinfettanti, i corridoi d’ospedale e i ricordi
d’infanzia, si consuma così lo scontro tra due generazioni: le madri, cresciute
con la convinzione cieca che il futuro sarebbe stato migliore del passato, e le
figlie, che non riconoscono nella realtà che le circonda il mondo a cui sono
state preparate da ragazzine, educate a non deludere ma costrette sullo sfondo
e adulte solo a metà. Un romanzo generazionale che fotografa l’esatto momento
in cui la tendenza al progresso si è drasticamente invertita e come, totalmente
impreparata al disastro, la generazione dei ragazzi nati sul finire degli anni
Settanta ne abbia pagato lo scotto. Davanti al proprio dolore ma soprattutto a
quello degli altri, Irene sperimenta che crescere non significa soltanto
prendersi cura, ma anche imparare a lasciar andare.
Nessuna di queste vite mi appartiene, romanzo d’esordio di Valentina
Fulginiti, è l’opera vincitrice della prima edizione del Premio Letterario
Luciano Bianciardi - Sezione Inediti, svoltasi nel 2024 con il tema “Il lavoro
culturale”. A seguito del concorso, organizzato da ExCogita con Feltrinelli
Editore, Fondazione Luciano Bianciardi e Università IULM, il libro è stato
pubblicato da ExCogita. L’autrice, nata a Bologna nel 1983, è laureata in
Lettere moderne, ha conseguito un dottorato in Italianistica alla University of
Toronto, e oggi vive negli Stati Uniti e insegna Lingua e cultura italiana presso
la Cornell University.
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| Valentina Fulginiti |
Valentina Fulginiti
Nessuna di queste vite mi
appartiene
ExCogita
2025
Pagine 2016
- € 18,00
POETI
di Francesca
Mezzadri
La raccolta poetica di Andrea Ravazzini: Tu sei la terra, il vento e la luce si colloca tra lirica
visionaria e meditazione metafisica, articolando un dialogo costante fra
interiorità e natura. L’impianto stilistico - sintassi rarefatta, lessico
sensoriale, frequenti immagini di notte, vento, mare e stelle - crea un
territorio poetico sospeso, dove l’io non descrive il mondo ma lo attraversa
come luogo simbolico della propria trasformazione. La forza della silloge non
sta nella narrazione, ma nella capacità di convertire stati emotivi in fenomeni
cosmici e viceversa. Il paesaggio è qui una superficie di risonanza: non
scenario, ma proiezione psichica. La notte diviene spazio di ascolto, la luce
principio di rivelazione, il mare un fondo emotivo instabile. Questa fusione di
elementi genera una costante condizione liminare: l’io si trova sul margine tra
presenza e dissoluzione, tra finito e infinito. Il silenzio, ricorrente e quasi
corporeo, non è assenza ma densità percettiva; è il luogo in cui l’esperienza
si fa rivelazione, dove la luce può emergere come epifania intermittente. Il
tempo non progredisce secondo logica lineare: si frantuma in attimi, si
sospende, si dissolve. Tale scomposizione conferisce ai testi un carattere
contemplativo, che privilegia il ritmo emotivo alla sequenza narrativa. La luce,
forza ermeneutica centrale, non illumina soltanto: vela, taglia, disorienta,
suggerendo una conoscenza non razionale ma oscillante. L’io poetico, figura in
costante transito, è attraversato dagli elementi più che capace di dominarli.
La sua identità appare come un bagliore provvisorio, fragile e mobile. La
verticalità dei versi, la rarefazione sintattica e gli enjambement
contribuiscono a un’estetica della sospensione: la poesia diventa respiro,
frattura, progressione interiore. Il trascendente non è mai soluzione
consolatoria: è una vibrazione sottile iscritta nella materia, un oltre che
filtra attraverso i chiaroscuri. L’intera raccolta si configura così come
percorso di ascolto più che di affermazione, di rivelazioni minime piuttosto
che di enunciazioni sistematiche. La poesia qui riportata è stata scelta perché
esemplifica in modo paradigmatico tutti i nuclei tematici e stilistici della
silloge. Essa mette in scena la doppia natura dell’interlocutore - umano e
cosmico - e condensa l’intero movimento della raccolta: dalla fusione con gli
elementi alla disgregazione, dalla memoria al desiderio, dalla fragilità alla
tensione ascensionale. Vi compaiono gli elementi chiave (terra, vento, luce,
mare, stelle), la centralità del silenzio e del buio come matrici generative,
la percezione del tempo come onda, la costante oscillazione tra corpo e spazio
interiore. Il simbolo della stella finale, “ultima” e senza riposo, riassume la
postura della silloge: la ricerca di una presenza irriducibile che resiste nel
gelo, nella distanza, nel non compiersi dell’abbraccio. È l’immagine che meglio
sintetizza la poetica dell’intera raccolta - una luce invernale che continua a
brillare, nonostante la sua inattingibilità.
Andrea Ravazzini
Tu sei la terra, il vento e
la luce
Eretica,
2025
Quaderni di poesia, pag. 72
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