UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

lunedì 24 novembre 2025

ULIVI E FRANTOI  
di Giuseppe Cinà


 
In una campagna sempre più metastasi della città i frantoi sono come musicanti di una banda ormai sciolta che ne riportano brani sparsi di musica. Musicanti frastornati, che si confrontano con contrastanti dinamiche di espansione (in aree pianeggianti) e abbandono (in aree collinari) degli uliveti a fronte dello schizofrenico mercato globale. In Sicilia gli agrumeti erano i giacimenti di oro rosso, con due ettari di mandarini un agricoltore accorto riusciva a mandare un figlio all’università, ma richiedevano impianti specializzati e cospicui investimenti. Invece gli oliveti, i giacimenti di oro verde, non richiedevano impianti specializzati. Presenti da sempre, le tracce di una gestione antropica dell'ulivo in Sicilia datano ben 3.700 anni fa. Gli ulivi erano ubiqui, crescevano da un ceppo selvatico autoctono anche in terreni impervi e quando posti fuori dalle proprietà presidiate appartenevano a tutti o quasi. Ancora negli anni ’50 del secolo scorso, nella piana di Palermo passavano i cambiatori di olio. Prendevano i pochi chili di olive che la gente raccoglieva da terra, per le strade e i sentieri dove stavano ulivi non ancora raccolti, e a occhio davano in cambio una carraffina di olio corrispondente al peso ricevuto. In attesa del raccolto, ritardato per far maturare al massimo i frutti, non si lasciavano marcire a terra le olive cadute solo perché attaccate dalla mosca.



Ottobbri, iàmu, è ura di cògghiri l’alivi direbbe un D’Annunzio siciliano, ma Ora in terra di Sicania li me viddani li troviamo solo sepolti nei testi delle poesie dialettali di vecchio conio. Contenitori capienti quelle poesie, ma insufficienti per contenere la memoria di una epopea che vedeva per due mesi interi tutti i siciliani impegnati nelle varie operazioni della raccolta, dalle vestitissime ‘femmine’ che raccoglievano a terra le olive che gli uomini buttavano giù a colpi di ramazzo, ai burgisi, ai grandi possidenti ex nobili in continua via di estinzione, agli indispensabili sensali, ai vari artigiani che provvedevano tutti i materiali necessari, legni corde e metalli, via via fino ai frantoiani. 



E questo da Capo Passero a Capo San Vito ma con sensibili differenziazioni. L’ulivo infatti, pianta rustica e adattabile, per molteplici ragioni cedeva il passo alla presenza degli agrumeti nelle piane e delle aree a frumento nelle colline, ai noccioleti e ai castagneti in quelle montane, e si adattava ai terreni pietrosi e marginali lasciando quelli migliori alle coltivazioni più redditizie. 



Si adatta ancora oggi, in piantagioni che non si relazionano tanto alle condizioni naturali, al tipo di terreno e ai diversi modi di sfruttarlo, ma ai modi di corrispondere alle premialità delle politiche della PAC, alle nuove forme di coltivazione poste in essere dai nuovi macchinari e in ultimo alla scomparsa dei contadini.
Al loro posto oggi troviamo diversi nuovi soggetti, che vanno dalle squadre di raccoglitori a percentuale nelle aziende agricole, dotati di abbacchiatori e scuotitori a pinza capaci di raccogliere bel oltre la tradizionale media giornaliera di un quintale/uomo, ai piccoli proprietari, usciti fuori come chiocciole dopo la pioggia, spesso cittadini con nessuna dimestichezza con il lavoro di campagna ma motivati sul piano ambientalista e sul ritorno alla tradizione.



La varietà di attori la si scopre in tutta evidenza quando si va al frantoio. Qui, a parte i pochissimi che hanno mantenuto la lavorazione a freddo con macina in pietra e fiscoli, la scena è quella di un opificio moderno, dove la molitura avviene in un’ora al massimo contro le intere giornate necessarie nel passato; ci sono impianti che riescono a fare anche 24 lavorazioni contemporaneamente. Ma l’affollarsi dei tanti produttori nel giro di poche settimane produce lunghe code di attesa prima che le olive vengano pesate e messe in macchina. Ed è in questa attesa, in questo tempo morto del guardare, con il corpo ancora caldo del lavoro intenso della giornata, che si annida un barlume della memoria della molitura di una volta. Certo, non ci sono più i trasportatori a spalla né i ‘filosofi’ di mano nodosa e cervello fino che nell’attesa della molitura discettavano sui come e perché delle cose del mondo, ma ci sono le persone di oggi. 



I vecchi naturalmente, che sono i figli dell’ultima generazione dei contadini ‘in purezza’, e i loro figli, persino ragazze, madri, nonne (quando mai si erano viste delle donne nei frantoi?). Poi ci sono gli immigrati, in maggiorana africani, e i professionisti scappati dagli uffici, che mai avevano avuto a che fare con la campagna da giovani e ora si trovano a gestire un bene di famiglia, talora con poche decine di alberi, ma che sfida a una scelta, occuparsene o venderlo a un villettaro più o meno abusivo. Professionisti che mai avrebbero pensato di inventarsi olivicultori se non obbligati perché il padre è morto e bisogna occuparsi di quanto ereditato. “Noi siamo ormai una famiglia larga sparsa in tutta Italia e oltre, mi diceva una matura signora, e per un motivo o per un altro sempre meno riuscivamo a vederci una volta l’anno a Natale. Ma ora che siamo obbligati a curare l’uliveto, e abbiamo scoperto che fare l’olio ci rende felici, riusciamo a vederci tutti sdoppiando la data di incontro. Chi può viene a Natale, chi non può viene per la festa della raccolta”. 



Fanno altresì la loro comparsa gli italiani che abitano e lavorano all’estero, qualcuno magari accompagnato dalla moglie olandese e la loro bambina anch’essi ormai sedotti dall’uliveto di famiglia.
E così nell’attesa dell’esaurirsi della coda, un popolo di diversi si aggira da estranei ma guardandosi con rispetto e solidarietà. Si guardano i cassoni pieni delle olive degli altri, si confrontano con le proprie, si fanno domande, si confronta la carica di quest’anno con la meteorologia, la varietà dei miei alberi con quelli tuoi, la potatura annuale con quella biennale, e si ride, si commenta, si scruta la partita che viene molita prima della propria, saranno olive da coltivazione biologica o sono state trattate con antiparassitari? E il mondo di fuori è scomparso, risucchiato nella grande tramoggia dove si svuotano i cassoni di olive e negli assordanti macchinari per la defogliatura, la gramolatura e la centrifugazione. Ne uscirà purificato sotto forma di olio, che scivola silenzioso, morbido e profumato sotto gli occhi avidi di chi lo ha prodotto. Avidi ma non in ambasce come quelli del contadino capofamiglia di una volta, che non sempre riusciva a portare a casa l’olio per il fabbisogno familiare per l’anno a venire. 



Oggi, con i supermercati traboccanti di olio sedicente extravergine a prezzi stracciati, nessuno corre rischi e dunque nessuno guarda più con occhi lucidi il fiotto di olio che sbocca sul vassoio di acciaio inossidabile da dove lo spillerà. Eppure tutti stanno sempre a chiedersi quanto ‘butta’ l’oliva quest’anno, cioè quale percentuale di olio produrrà rispetto al suo peso, da dove può dipendere la maggiore o minore resa da un anno all’altro e di una zona rispetto a un’altra.
E tutti sentono il brivido di muoversi in un mondo che ci racconta ancora la nostra storia, ne colgono i contorni ancorché molto sfumati, ne tentano nuove interpretazioni. Si lanciano alla sua scoperta e allo studio, leggono, cercano gli esperti, attingono alle effimere chat dei social, seguono corsi di potatura, si commuovono alla vista degli ulivi centenari e millenari, scoprono insomma che esiste ancora un mondo che fu. Un mondo che è un impeto che muore come un dialetto che nessuno parla più, inghiottito da quel niente travestito da nuovo che avanza, ma che manifesta tuttavia non secondarie risorse di resistenza.



Un mondo che corre all’impazzata incurante dei pericoli che lo minacciano. Noi vecchi non riusciamo quasi più a parlare di questi pericoli, anzi delle catastrofi che incombono. Forse perché non abbiamo più la forza necessaria per affrontarli e allora perché piangerci addosso, fare le Cassandre e renderci la vita ancora più pesante? Meglio pensare che i giovani sapranno trovare una loro via d’uscita (forse lo fanno già e noi non lo sappiamo) e restare comunque operosi: per dirla con Voltaire “bisogna coltivare il nostro giardino”.
A sera, la famiglia dei nuovi agricoltori aspetta i valorosi tornati tardi dal frantoio con l’olio nuovo e approntano il primo assaggio. L’olio vorrebbe un mese di risettu per ricomporsi dopo la spremitura, appena un’ora dopo è ancora acerbo, troppo amaro. Ma i nuovi adepti dell’ulivo giustamente non sanno aspettare e via con la bruschetta di pane tostato e poi bagnato sul pelo dell’olio versato in un piatto. L’olio, ancora arrabbiato, si scalda e si scioglie in un profumo che chiama in causa tutte le fragranze della mediterraneità.



Al mattino il sole chiama alla sacra discesa al mare, i giovani venuti a dare una mano ai grandi vengono dal lontano nord, ma non si può smettere, le olive continuano a maturare, i polifenoli poco a poco si ammansiscono, l’olio perde profumo. Aiutano nonna Caterina e nonna Simona, che raccolgono le olive ancora a mani nude, per loro la raccolta è un atto di devozione e ringraziamento. Una bimba gattona per terra sulla rete stesa sotto un albero, con mucchi di olive formatisi qua e là, i suoi ditini tentano di prenderle ma le scappano dalle mani, è sedotta dai mille colori che vanno dal verde al viola. Ogni tanto riesce a prenderne una e subito la mette in bocca, la soppesa, si accorge che non può mangiarla, la sputa. Una è molto matura e gocciola un sugo viola chiaro, lo lecca, curiosa e pensosa, poi la mette via e ne cerca un’altra. Una piccola Cerere sta cominciando a esplorare il mondo dal lato giusto. Poesia.



Al contempo, intorno a queste tante e piccole isole di paradiso, c’è la smarrita campagna di oggi, quella che già mezzo secolo fa Ceronetti vedeva “umiliata, sofferente, che si vergogna di non poter sparire, nella quale ogni nuovo insediamento industriale è come un vistoso chiodo nella carne, disperata di non avere difesa. La peste chimica l’avviluppa completamente, di sopra e di sotto, di dentro e di fuori, animali, esseri umani, piante, suolo, acque d’irrigazione, acque profonde. La gente che rimane accetta tutto, con una passività di pollaio: non è felice, ma non sa reagire all’incantesimo” (Guido Ceronetti, La carta è stanca, 1976). Non sa reagire al punto che persino l’orrore delle lugubri fattorie fotovoltaiche viene venduto e accolto come un fulgido esempio di evoluzione tecnologica verso un ambiente più resiliente. In questa distopia vorremmo sperare che i frantoi e gli uliveti ripopolati, che stanno sopravvivendo persino alla xylella, diventino un fortino di resistenza, un altro avamposto per presidiare il futuro. Se salveremo l’ulivo salveremo il mondo.

 

DIPLOMAZIA: APPELLO AL MOVIMENTO PER LA PACE
di Franco Astengo


 
È arrivato il momento in cui il movimento per la pace deve sapersi misurare con lo spinoso nodo della diplomazia. Il conflitto che si sta svolgendo da quattro anni nel cuore dell’Europa si trova ad un possibile punto di svolta: su di un crinale scivoloso. L’intesa tra USA e Russia potrebbe sortire, infatti, un esito di vera e propria trasformazione dell’insieme delle relazioni internazionali in ispecie sul piano europeo. È necessario ed urgentissimo che il movimento per la pace (che pure ha dato in questi ultimi anni alcune prove di capacità transnazionale) si rivolga alle forze politiche della sinistra perché si giunga ad una proposta che consenta una presenza al tavolo che non consista semplicisticamente all’idea della prosecuzione del conflitto e del processo di riarmo dei singoli Paesi (“in primis” della Germania). Dovrebbe essere considerata la possibilità di proporre una conferenza di pace sul suolo europeo nella quale si riesca a discutere dell'assetto complessivo del Continente. Il tema della pace può essere declinato soltanto intervenendo attivamente sulla politica estera compiendo scelte di programma anche difficili e rovesciando anche alcune impostazioni “storiche”. La presidenza Trump ha spostato diversi punti di riferimento mandando in crisi il sistema di relazioni sovranazionali NATO inclusa: un sistema di relazioni cui la destra si è prontamente acconciata. Per la sinistra è rimasto scoperto un campo d’intervento decisivo: quello europeo. È necessario riflettere appunto sullo spazio politico europeo. Senza farla lunga limitiamoci all’analisi del concetto teorico di “neutralità” che potrebbe essere collegato alla definizione di uno spazio politico europeo e alla presenza di una sinistra sovranazionale. In senso stretto neutralità è la situazione giuridica regolata dal diritto internazionale di estraneità e di equidistanza di uno Stato in presenza di un conflitto armato, tra gli stati. L’istituto ha una lunga storia di convenzioni e norme. Il concetto, invece, pone una serie di problemi, provocati dalla pluralità dei significati di neutralità e dei termini giuridici e politici da esso derivanti (neutralizzazione, neutralismo) ma soprattutto dalla relazione di neutralità con concetti come guerra, terzo, amicizia. Oggi l’idea di “neutralità” potrebbe essere collegata a una ripresa del discorso su di una “terza via” riferita non semplicemente alla ricerca di un equilibrio tra sistemi politici ma all’elaborazione di una strategia globale posta sul piano delle relazioni internazionali riportando al centro l’idea fondamentale del rapporto Nord/Sud in un quadro di recupero degli organismi sovranazionali nel senso di un re-orientamento nell’utilizzo delle risorse e di complessiva smilitarizzazione. Questo potrebbe essere il tema della proposta di conferenza di pace. Potrebbe essere possibile allora avanzare una proposta di struttura politica europea fondata sulla ripresa di alcune concezioni di carattere costituzionale e di ruolo degli organismi elettivi in un disegno di raccordo tra il lavoro dei Parlamenti Nazionali e di quello Europeo. La sinistra potrebbe tentare di muoversi per costituzionalizzare la neutralità in parallelo con la nascita di uno spazio politico europeo nel quale agire in una dimensione di potestà sovranazionale. Una sovranazionalità che ritorni ad individuare un nesso con il concetto di neutralità codificato in passato, tra gli altri, da Grozio, Wolff, Vattel e poi ripreso da più parti nel cuore della “guerra fredda” (smilitarizzazione e neutralità: pensiamo al Piano Rapacki). Una sinistra sovranazionale che recuperi la centralità del diritto pubblico europeo come proprio fondamento nel determinare l’indirizzo della propria politica e ritrovi autonomia nella complicata, difficilissima contesa internazionale.

LA FAMIGLIA NEL BOSCO
di Laura Margherita Volante 


 
I bambini nel bosco tolti alla famiglia. 
 
La famiglia nel bosco, così chiamata, una coppia di genitori dalla visione educativa pressoché rousseauiana, rappresenta una minaccia ad un sistema sociale, che si regge su regole e su convenzioni spesso contraddittorie, la cui rigida applicazione per fare giustizia può commettere gravi ingiustizie.
La società è attraversata da fenomeni sociali inquietanti per incapacità a gestirle, da parte di chi presiede a tale compito, non investendo in percorsi di formazione. educativi e culturali. Propagande consumistiche, illusorie di benessere, modelli mediatici irrealistici sono il veleno per molti bambini alla ricerca della propria identità. Infatti, il conseguente malessere generale si declina fra violenze in aumento, omicidi/suicidi, e devianze soprattutto fra gli adolescenti, ribelli senza causa, fra dipendenze e coltelli, come simboli di forza e di potere. Rousseau basa la sua teoria pedagogica sul principio educativo, fuori dalla società che corrompe e non educa. Emilio, il bambino protagonista del suo romanzo dal titolo stesso, viene allontanato dalla società per vivere in campagna, affinché cresca libero e felice, educato secondo le leggi della natura. 




Strappare i bambini dalla famiglia nel bosco, sopra citata, per affidarli ad una comunità educativa è un atto che avrà conseguenze traumatiche sui bambini stessi, mentre altri sono abbandonati al loro destino fra degrado ambientale, violenze, omicidi di nuclei familiari allo sbando. Quanta malafede e incapacità di identificare i problemi e relative soluzioni umane. I due genitori del bosco, come scelta di vita, sono persone che hanno deciso di educare i loro tre bambini secondo una visione ecologica, non condizionata dalla società, che non garantisce autonomia indipendenza libertà ed equilibrio psicosomatico, offrendo loro istruzione, vita sana, capacità motorie e creatività, oltre all’amore in un clima familiare sereno.
Il coraggio di vivere fuori da schemi imposti da una società malata che brancola nel buio è lo scandalo dei tempi nostri, in mano a guerrafondai, con l’uccisione di migliaia di bambini nell’orrore di guerre e distruzioni in più luoghi del pianeta. Il problema dunque è la famiglia nel bosco?

VOCI NOSTRE AD ANCONA




FABBRICA DELL’ANIMAZIONE - MILANO
Mancini e la ricerca della felicità. Conduce Samuele Santacroce.









AD ARCAVACATA - COSENZA




domenica 23 novembre 2025

TARDO AUTUNNO
di Zaccaria Gallo


 
Profumo d’autunno / il cuore strugge” (Basho)


() cresce nel vento d’autunno una pallida / primavera tanto a lungo negata” (Mario Luzi)



Tityre, tu patulae, recubans sub tegmine fagi, / silvestrem tenui musam meditaris avena; / nos patriae fine et dulcia linquimus  arva; nos patriam fugimus: / tu, Tityre, lentus in umbra / formosam resonare doces Amaryllida silvas”. (“Titiro, tu, che stai sdraiato sotto il riparo di un faggio, /componi un canto silvestre con il flauto modesto;/ io lascio la patria e i suoi dolci campi, fuggiamo via: / tu, Titiro, sereno nell’ombra / fa risonare i boschi del nome della bella Amarillide”) (Virgilio - Bucolica I)



Andare verso l’alta Murgia, seguendo il richiamo della Terra del silenzio, che scorre tra le foglie, con l’ansia trattenuta dell’innamorato. Lungo la strada, piccoli e grandi gruppi di automezzi da lavoro, di trattori, aggrappati alle strade di campagna, sono già in cammino da prima dell’alba. Come un tempo sostituiscono i “traini” tirati, allora, da muli e cavalli; da sempre vanno e vengono nei campi per la raccolta delle olive e trasportarle alla molitura. Abbiamo lasciato la città con il profumo dell’olio nuovo che, dai trappeti, s’insinua nelle strade e attraversa le finestre e ci raggiunge fin dal primo mattino. Anche adesso che stiamo uscendo di casa. È la ricchezza di questa terra che ha anche altra terra, ai suoi confini: quella verso la quale, nel tardo autunno, si deve andare, lasciando che Poseidone riposi in riva al mare, dopo la sua affaticosa estate. Terra e colline, pietre ed erbe che chiamano, salgono o scendono, abbracciano le rocce, si fanno sfiorare da un vento radente, freddo d'inverno (da steppa) o da un sole accecante, incombente di caldofornace, d'estate; terra che si adatta continuamente allo sguardo, e lo sguardo che alla terra sempre ritorna; terra che ha il dono del silenzio per ascoltarsi eascoltare. “Ha messo chiome / il bosco d’autunno. / Vi dominano buio, sogno e quiete. / Né scoiattoli, / né civette o picchi / lo destano dal sogno…” (B. Pasternak). Una terra che ha l'orgoglio di un giardino. Eccola la pineta, nel cuore dell’alta Murgia, e andarci è come entrare nel mistero per far visita a quegli alberi che, come grandi uomini solitari, parlano tra loro con lingua che loro conoscono e pochi di noi capiscono. Città dei Pini, dì alberi che invecchiano piano piano, mentre attraverso i loro rami, il sole, di giorno, filtra i suoi raggi e li riflette sul  soffice tappeto d’aghi caduti durante la notte, per il soffio d’un vento di luna. Ingresso regale è quello della grande pineta: sui sentieri, danno il benvenuto erbe verdissime, coperte qua e là dai fiori d’erbastella, bianchissimi, che non hanno profumo, ma umile bellezza e che si confondono col bianco delle pietre calcaree e galleggiano, come ninfee mosse dal vento, ai piedi d’un faggio rosso. Il faggio dalla chioma rossa! Ci saluta, agitando sui rami le sue manifoglie. Anche con quelle cadute sul terreno attorno, e che si possono raccogliere come cose ancora vive.


 
E si deve guardar bene quel faggio: c’è una grande pietra sul bordo del sentiero. Ci si può sedere e accarezzare la sua ruvida traforata pelle, mentre con l’albero si fa dolce conoscenza. Con la sua eterna maestosa compagna che ha poco lontano, la quercia, il faggio è albero portatore, per antiche credenze del bene, protetto e amico inseparabile delle Driadi, ninfe della saggezza e della memoria conservata nei boschi. Luciano di Samosata riferisce che l’oracolo di Dodona non si manifestava soltanto usando le foglie di quercia, ma anche quelle di faggio. Nell IV sec. Macrobio riporta, nei suoi scritti, che esso era ritenuto uno degli arbores felices e che le coppe utilizzate per i sacrifici nei templi erano scolpite nel legno di faggio. Ma per me, e per noi, riveste anche un altro valore grandissimo: il nome tedesco del faggio, Buche, ha la stessa etimologia di Buch che vuol dire libro. 



Per questo si dice che il faggio è un albero legato alla sapienza, alla saggezza e alla tradizione, e quindi al conservare e tramandare la memoria, al “non dimenticare”. Sì per non dimenticare, ad esempio che “Johannes Gutemberg avrebbe inventato il torchio tipografico dopo aver intagliato un carattere da un blocco di legno di faggio e averlo avvolto in un foglio di carta. Dopo averlo estratto dall’involucro, si era accorto che il carattere aveva lasciato un’impronta sulla carta. Questa scoperta avrebbe portato all’invenzione della stampa” (Bettina Lemke). Entrare in quella pineta, dà la sensazione di esser fuori del mondo in cui abitualmente si vive: gli occhi degli alberi, la loro voce, che è voce di silenziose presenze, raccolte nei loro nidi altissimi, ci avvolge, con lo stupore di un mistero che attende sempre di essere svelato. Ed è improvviso questo stupore, sempre diverso, perché un profumo ci accoglie fin dai primi passi. 



L’aria sa di resine ed essenze, ma anche di qualcosa d’altro, che proprio e solo nel tardo autunno sappiamo che si può sentire. Inciampiamo quasi in quel profumo: da sotto al tappeto di aghi, spunta un cappello, anzi due, no, tre, cinque, dieci, tanti: eccoli! Gli gnomi si sono trasformati in funghi ed è l’incanto, con il loro incontro profumato, che ci sa parlare della eterna fiaba che lega l’acqua alla terra, la terra alla luna, la luna a questo luogo incantato. Città dei pini, sei immortale e io so perché. Tu sai come dare i sogni e come far diventare, misteri e magie, alta poesia.
 

 

 

  

IL LUNGO ITINERARIO DI UN POETA
di Cataldo Russo



Il testo che qui riproduciamo è apparso venerdì 7 novembre 2025 sul quotidiano “Il Crotonese” che “Odissea” ringrazia per l’autorizzazione. 
 
Nell’incipit alla raccolta Una gioiosa fatica. 1964-2022 (La Scuola di Pitagora Editrice 2025, pagine 160 euro 16) il poeta Angelo Gaccione pone in risalto il legame forte, quasi da simbiosi, che ha sempre avuto con la poesia, sebbene nella sua vita abbia frequentato e praticato i generi letterari più diversi: la narrativa, dove ha lasciato segni indelebili con i suoi romanzi e racconti, la saggistica, il teatro con le sue commedie e drammi, l’aforisma, la critica letteraria, il giornalismo, ecc.
Se nella raccolta poetica di Cesare Pavese, Lavorare Stanca, il poeta estende il concetto di stanchezza non solo a quello fisico ma soprattutto a quello intellettuale e alla difficoltà di integrarsi in una società sempre più alienante, nella raccolta di Gaccione il lavoro, il travaglio, diventa gioioso quando si ha la consapevolezza di aver fatto il proprio meglio, rispettando i propri principi e i propri valori morali. Allora sì, dopo aver salito il Colle di dantesca memoria, che il cammino diventa gioioso.
Un legame quello di Gaccione con la poesia che si è manifestato quando ancora era adolescente come ci è testimoniato da due brevissime poesie di questa raccolta, sopravvissute alla falcidia del tempo e dell’incuria e che fanno parte della prima sezione ‘Le Ritrovate’. La prima, datata 1964, quando l’autore aveva solo tredici anni, evidenzia una notevole sensibilità come dicono questi versi: Quando la notte / uccide la luce / tutti gli uccelli più gai / vanno a morire.
Sempre nell’incipit il poeta ci tiene a dirci che ha scritto quando la materia “urgeva”, quando la pulsione si faceva prepotente, segno che siamo di fronte a una poesia che nasce dalle viscere, intrisa di sudore e sangue e non come puro esercizio intellettuale.
La sezione successiva, ‘Le Illuminate’, composta da 13 poesie pone in evidenza l’insofferenza verso il potere, le sovrastrutture e le convenzioni: Sotto i tacchi dei signori / la carne gridava alle ferite / il sangue colava di nascosto per timidezza. / Si prendevano le mogli i vigliacchi. Al di là di una certa veemenza la posizione del ventiseienne poeta sembra non indietreggiare di fronte alla virulenza del potere e ai tacchi dei dominatori.



La sezione compresa sotto la dicitura, ‘Le Straniere’, raggruppa 8 poesie ispirate da viaggi reali o immaginari compiuti dal poeta intorno agli anni ’80. La maggior parte sono dedicate a Parigi, un paio a Monaco di Baviera e una al Brasile, la più recente, del 2019, dove la nostalgia diventa un denominatore comune di tutti gli esseri. Non stancarti di bussare alla mia porta, / prima o poi sarò io a venire da te, scrive a proposito di questo sentimento.   
Nella sezione quattro troviamo le poesie dedicate a Milano, ‘Le Milanesi’, città che il poeta dimostra si conoscere in maniera profonda e meticolosa, soprattutto dal punto di vista culturale e artistico. Nella lirica ‘Città mia’ l’amore di Gaccione verso Milano è totale, pari solo a quello che per la sua Acri. Ci fosse un’altra vita dopo questa / io tornerei da te / a mescolare la mia terra con la tua / a impastare vita con la vita / a farti caldo il cuore. /Ti abbraccerei per implorarti e dirti…
Nella sezione cinque, ‘Le Disperse’, troviamo tre poesie soltanto: ‘Dio com’ è rara l’amicizia’, ‘Notte, notte di stelle’, ‘I gabbiani’. Il denominatore comune di questi tre componimenti, scritti tra il 1987 e il 1989, è un certo, oserei dire, ottimismo che il poeta vorrebbe infondere ai propri simili per portarli fuori dalla gora dell’assuefazione alle ingiustizie, alla rassegnazione e alle prevaricazioni. Nella sezione sette, ‘Le Sacre’, spicca la poesia ‘La Classe morta’ dove l’urlo di condanna del poeta per una strage di bambini tanto cruenta quanto inutile diventa una sentenza senza appello. Quel limpido luminoso settembre / alla Scuola Numero Uno / non è apparso nessun dio benigno / ad annunziarvi la lieta novella. È venuto invece l’uomo nero e ha gridato: / “Io sono il pane della mortemangiate!”.



Le sezioni sei e otto, ‘Le arrabbiate’ e ‘Le Dolenti’, seppure si differenzino dal punto di vista delle tematiche trattate, hanno in comune la forte tensione ideale. In esse il travaglio del poeta si fa grido, denuncia per un mondo che ha dimenticato la solidarietà, i valori alti, e si sta incamminando verso la catastrofe che rischia di distruggere la vita sul nostro Pianeta.
‘Le Liete’ nascono per lo più da un sentimento di pacato ottimismo, dove la natura tempera in qualche modo gli eccessi e le brutture dell’uomo. Nella prima di questa mezza dozzina di componimenti il poeta sembra riconciliarsi con la vira: “Il loro canto festoso si accorda / con la nave di nuvole gonfie di vele / che salpa nel soffice azzurromare del cielo. / E per una volta il dolore del mondo scompare / e col mondo si riconcilia il mio cuore.
‘Le Diverse’ rivelano un poeta più portato alla meditazione e con il pensiero rivolto all’ineluttabilità della morte. Nella lirica’ Testamento’ il poeta esprime il suo desiderio di essere sepolto fra i libri, tutti, senza distinzione, che ha tanto amato.  Poiché ho vissuto / tutta la vita di libri / custodite le mie ceneri /– siano ben in vista /– accanto ai libri- /– sul ripiano – /di una Biblioteca. / Un ripiano a caso.
Nelle penultime tre sezioni, della quale fanno parte ‘Le Incivili’, Gaccione ritorna alla poesia di impegno civile. Se il mondo diventa sempre più barbaro e incivile il poeta deve uscire dall’immobilismo del fair play e agire, come ci dice nel componimento ‘Da una parte sola’: Io sono un uomo di parte, / e sto da una parte sola: / non è la vostra parte, / questo dev’essere chiaro. / Me ne assumo ogni rischio / e ho messo in conto tutti i pericoli.
Una raccolta ricca che ha accompagnato il poeta per oltre mezzo secolo; ben congegnata, ma soprattutto che vibra di intensità poetica, senza mai cedere all’autocompiacimento o al semplice esercizio letterario.


 
Angelo Gaccione
Una gioiosa fatica. 1964-2022
La Scuola di Pitagora Editrice, 2025
Pagg. 160 € 16

                                             

POETI
di Anna Rutigliano


Nelly Sachs

Non avremmo testimonianza della creatività poetica della scrittrice Nelly Sachs e del suo realismo lirico impregnato di mistica ebraica, se una grande prova di coraggio e di profonda e sincera amicizia non avesse salvato lei e sua madre anziana dalle persecuzioni naziste degli anni ‘39-’40, trovando riparo a Stoccolma : la prima donna ad aver ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura in assoluto, nel 1909, la scrittrice svedese Selma Lagerlöf, sarà successivamente ricordata con immensa gratitudine dalla Sachs , nel 1966 , in occasione del suo discorso durante la cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Letteratura, non avendo avuto la possibilità di ringraziarla personalmente: un sentimento, quello di gratitudine, che, quando solido, resiste ai “burrascosi vortici dell’eternità”, verso a cui ci richiama la poetessa stessa nel suo componimento Se i profeti irrompessero (Wenn die Propheten einbrächen), tratto dalla raccolta di poesie Le stelle si oscurano (Sternverdunkelung. Gedichte , 1944-’46).


 
Se i profeti irrompessero
 
Se i profeti con irruenza,
entrassero
per le porte della notte,
nello zodiaco dei demoni
al capo cinti
d’orrida corona di fiori,
ponderando con le spalle i segreti
dei cieli  in caduta e in ascesa
per chi da tempo è dipartito dall’orrore –
 
Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
illuminando di luce dorata
le vie di stelle tracciate nei loro palmi  
per chi da tempo nel sonno è sprofondato  
 
Se i profeti penetrassero
per le porte della notte,
infliggendo nei campi dell’abitudine,
ferite di parole,
recuperando quanto di più remoto ci sia
per il bracciante
che da tempo non ha più attese a sera  
 
Se i profeti si intrufolassero
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria  
Orecchio degli uomini
d’ortica inzuppato,
saresti in ascolto?
 
Se la voce dei profeti
soffiasse
nei flauti-ossa dei bambini assassinati,
se espirasse
l’aria bruciata dalle urla di martirio  
se costruisse un ponte
con i sospiri dei vecchi ormai morti 
tu, Orecchio degli uomini
intento solo ad origliare,
saresti in ascolto?
  
Se i profeti con irruenza
entrassero
nei burrascosi vortici dell’eternità,
se lacerassero il tuo udito con codeste parole:
chi di voi vuol fare guerra a un mistero,
chi vuol creare delle stelle la morte?
 
Se i profeti si levassero
nella notte degli uomini
come amanti in cerca dei reciproci cuori,
oh Notte degli uomini
doneresti il tuo cuore?

SCAFFALI
di Francesca Mezzadri



Questa lunga anteprima appare come un vero e proprio manifesto poetico sul rapporto tra vita, memoria e scrittura. Non è un semplice preambolo: è un’autobiografia che si nega mentre si offre, un autoritratto in filigrana, continuamente spostato, contraddetto, ritratto e rilanciato. La riflessione iniziale su Vermeer non è un ornamento erudito, ma una chiave d’accesso: la donna intenta a leggere, sorpresa nell’intimità, diventa lo specchio del gesto segreto dello scrittore che fruga nella propria memoria come la madre ipotetica fruga nei cassetti del figlio. È qui che l’immagine si fa narrazione, e la narrazione teoria: l’atto di leggere - e dunque di vivere, ricordare, scrivere - è sempre un’intrusione, un furto d’identità, un rischio di scoperta.
L’autore sviluppa la propria poetica attraverso una serie di confessioni che non concedono mai realmente la confessione. Il diario, gli appunti sparsi, le fotografie fuori fuoco: tutto concorre a una memoria che vuole essere precisa ma si riconosce frammentaria. I suoi strumenti sono concreti ma il risultato sfugge: la vita vissuta e quella raccontata divergono, e nel loro divario nasce la letteratura. L’insistenza sul diario come archivio privato e destinato alla distruzione mette in scena un paradosso: ciò che è più autentico non è per i lettori; ciò che è pubblicato è inevitabilmente un inganno. Ma è un inganno che salva.
Molto affascinante è la tensione tra racconto e romanzo, tra brevità e pretesa delle grandi forme. L’autore rifiuta il romanzo come se gli venisse imposto dall’esterno, come se per scriverlo servisse una verità che nessuno possiede - o peggio, che sarebbe un tradimento. Il rapporto con la madre, evocato come rovello e come impossibilità narrativa, incarna il nodo centrale: ci sono figure e dolori che non stanno in trenta pagine, ma che nemmeno il romanzo può contenere. La notte, evocata come possibile luogo di una futura scrittura materna, non è un tempo ma uno stato dell’anima: il tempo in cui il “soldato nella notte”, figura dylaniana e insieme epica, avanza alla cieca sapendo soltanto che la paura è anche protezione.
La parte che più mi ha colpito dell’anteprima del testo è forse quella in cui lo scrittore dichiara, con limpida sincerità, che “scrivendo di me, scrivo sempre di un altro e scrivendo di altri, scrivo sempre di me”. Qui l’autobiografia si dissolve nella bioautografia: non un racconto di sé, ma un raccontarsi attraverso i fantasmi degli altri, attraverso i personaggi amati, rubati, reinventati. Il riferimento a Cyrano, Casanova, Baudelaire, Hemingway non è citazione colta: è dichiarazione di appartenenza a una linea di scrittori inattuali, infedeli, refrattari alle mode. È una rivendicazione preziosa in un tempo che chiede continue semplificazioni.
Colpisce anche il tono sommesso e ironico, la volontà di non prendersi troppo sul serio pur parlando di temi gravissimi: l’identità, il linguaggio, la memoria che cola via come acqua attraverso un elmo bucato. La metafora finale è splendida: chi cerca nella scrittura dell’autore una biografia ordinata “morirà di sete”, perché il vero non è trattenibile. Non per mancanza di sincerità, ma per necessità strutturale: la vita è acqua corrente, la scrittura il suo riflesso tremolante. Questa anteprima è un saggio-narrazione che prepara il lettore non solo a un “viaggio con la madre”, ma a una poetica della soglia. Ogni pagina sembra dire che si può scrivere solo ciò che sfugge, ciò che non coincide, ciò che non torna: i ricordi indistinti, le ombre che svaniscono, le parole che non bastano e tuttavia insistono. Ed è proprio in questa oscillazione - tra verità e invenzione, tra io e altro, tra intimità e maschera - che il testo trova la sua forza più alta.
È una dichiarazione d’amore alla scrittura, ma anche un avvertimento: nessuna autobiografia dice davvero “io”. La vera voce, quella che rimane, è quella che riesce a diventare “tu” e “noi”
  
Massimo Del Pizzo
In viaggio con la madre
Arsenio Edizioni, 2025
Pagg. 48, 10 euro  

 

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