UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

domenica 19 ottobre 2025

SONATA IN DUE MOVIMENTI
di Francesca Mezzadri


 
Questa nota di Francesca Mezzadri è comparsa su “Satisfiction” martedì 14 aprile 2025. “Odissea” ringrazia autrice e Redazione per averne autorizzato la riproduzione.
 
*
La rappresentazione della figura femminile nella letteratura milanese del Novecento e del primo ventennio del Duemila offre una chiave di lettura preziosa per comprendere i mutamenti sociali, culturali e linguistici di una città in trasformazione.
 
Giuseppe Marotta, con Le Milanesi (1962), e Angelo Gaccione, nei racconti contemporanei di Sonata in due movimenti (Di Felice Edizioni, 2022), seppur distanti nel tempo, rappresentano tappe fondamentali di un percorso evolutivo che riflette la trasformazione della donna e dei costumi a Milano. Questo confronto consente di analizzare come linguaggio e rappresentazione femminile riflettano le profonde tensioni tra tradizione e modernità.



Gaccione vs Marotta: l’evoluzione del linguaggio, dei costumi e della femminilità. 
Nel confronto tra i testi di Marotta e Gaccione emerge con chiarezza come la narrazione femminile e la rappresentazione linguistica diventino strumenti potenti per indagare i mutamenti culturali.
In Marotta, il linguaggio è sommesso e spesso allusivo: la donna è presenza più che parola. Il ritmo pacato e le espressioni eufemistiche creano un’atmosfera di pudore e rispetto. Desideri e sentimenti sono velati, nascosti dietro azioni quotidiane o dettagli d’ambiente, sottolineando la marginalità di una donna costretta a confrontarsi con una società conservatrice. 
Nella raccolta di Gaccione, invece, predomina un parlato colloquiale, tagliente e diretto, a volte persino rude. Frasi come “No, io non ci sto. Se dicono una sciocchezza, io sottolineo che quella è una sciocchezza” abbattono ogni diplomazia retorica. Il corpo femminile, con tatuaggi e piercing, diventa simbolo di rottura e autonomia. I dialoghi, scanditi da interiezioni, ripetizioni e frasi brevi, esprimono una vitalità nervosa e sincera che respinge ogni ipocrisia.
Questa scelta stilistica non solo trasmette l’urgenza delle nuove questioni femminili, ma rende tangibile il conflitto generazionale, l’insofferenza verso i cliché e il desiderio di raccontarsi senza filtri. 
Nel suo saggio Inclinazioni femminili, Adriana Cavarero evidenzia come la voce femminile in letteratura sia passata da un paradigma di “voce murata” a una “voce che reclama spazio e riconoscimento”. La conquista della parola è, per Cavarero, un atto di ribellione e di esistenza. 
Applicando questa lettura, Marotta rappresenta la “voce murata”, rispettosa delle convenzioni e della discrezione, mentre Gaccione incarna la “voce ribelle”, pronta a esprimere l’interiorità femminile con forza e irriverenza, scuotendo l’ordine costituito. 
L’opera di Gaccione non si limita a raccontare, ma riplasma la narrazione femminile, troppo a lungo addomesticata o marginalizzata. La sua scrittura pulsa di una vitalità anarchica, sfidando il lettore a immergersi in un’esperienza emotiva e intellettuale senza protezioni. 
Lungi dall’essere cronaca, i suoi testi evocano, disarmano e affondano con lucidità chirurgica: una scrittura a sangue freddo che lascia storditi, tattile e quasi epidermica, che scrostando la realtà mette a nudo le contraddizioni più intime e scomode.


 

La lingua e la città 
Gaccione valorizza il linguaggio diretto e vernacolare contemporaneo, sottolineandone la forza espressiva e la capacità di rompere con schemi tradizionali. Il narratore impiega dialoghi vividi e termini forti (“stronzate”, “pirla”, “sclerata”), che traducono la volontà di immediatezza e verità vissuta, mentre sotto la superficie emergono introspezione, idealismo e disincanto. I racconti si svolgono in una Milano reale e concreta – con luoghi precisi come Ticinese, Porta Romana, quartieri cittadini – che si fa anche simbolo di una vita urbana dove il nuovo (spiritualità orientale, tattoo, yoga, movimenti minoritari) convive con il vecchio (giudizio, conformismo, ipocrisia). Gaccione si conferma autore “fuori dal coro” non solo per i contenuti, ma per la sua audace e istintiva poesia del quotidiano, radicata in una Milano vivace, crudele e meravigliosamente reale. La sua scrittura è un jazz nervoso e improvvisato che, pur disturbando le orecchie abituate a melodie più dolci, rivela un’energia vitale impossibile da ignorare.


 
Le donne di Gaccione e Marotta: un confronto 
Nei racconti di Gaccione, la donna si presenta complessa, contraddittoria, desiderante: cinica e vulnerabile, ferocemente consapevole di un potere che scardina il maschile tradizionale. Diversamente dalle “Milanesi” di Marotta, tratteggiate con indulgenza e ironia, Gaccione disintegra la patina borghese e sentimentale che un tempo accompagnava la figura femminile. Le sue donne non rappresentano un’idea, ma incarnano uno scarto, un’interruzione. Il suo stile è crudo e tagliente, a tratti brutale, ma mai banale: dialoghi serrati, tensione, punteggiatura incalzante creano un ritmo teatrale che richiama un monologo interiore con musicalità post-noir. Voce narrante e personaggi si sovrappongono in un flusso interrotto da scontri e domande più che da risposte. Il linguaggio di Gaccione rompe il bon ton letterario per sondare la realtà psichica e sociale con onestà brutale, richiamando l’intensità di autori come Testori o il teatro di Fassbinder.


 
Tematiche e caratteri 
I racconti ruotano attorno a temi quali identità, desiderio, ipocrisia, solitudine, lotta contro il conformismo, rapporto corpo/potere, e uno sguardo disincantato sulla società contemporanea. Da Cornelia a Greta, da Morgana a Sandra, ogni personaggio si costruisce come specchio deformato del maschile narratore, ma mai subalterno. Vi è un rifiuto netto dei modelli sociali stereotipati. Spesso sono le donne a detonare le dinamiche di potere e smascherare imposture sociali e sessuali. La narrazione maschile, spesso filtrata da narratori interni, è segnata da una crisi profonda, una resa intellettuale di fronte al crollo delle illusioni sentimentali, politiche e culturali. L’uomo di Gaccione è spesso inadeguato, narcisista, spettatore smarrito davanti a donne che lo abitano e lo dissolvono.


 

Conclusioni
Gaccione non è un autore accomodante o indulgente. La sua scrittura, frenetica come un bisturi durante un intervento a cuore aperto, è antipatica nel senso migliore: originale, non stereotipata, lunare. Racconta la realtà riflessa, leggermente deformata, come un vecchio vinile jazz graffiato che inchioda il lettore alla sedia. Nei suoi racconti milanesi, Gaccione rifonda il racconto urbano, scomodo ma necessario, coraggioso nella forma e microscopico nell’indagine psicologica. Le sue donne non chiedono scusa, e nemmeno i suoi uomini. Per questo il lettore deve schierarsi, farsi coinvolgere o abbandonare il campo.
 Il confronto con Marotta mostra come, attraverso la narrativa, la figura femminile si sia evoluta da presenza protetta e silenziosa a soggetto attivo, capace di usare la parola per affermarsi e sfidare i tabù. Il linguaggio diventa così strumento di libertà e conflitto, e la rappresentazione della donna riflette le ambiguità di una società in trasformazione. La Milano di Marotta e quella di Gaccione sono due volti di una stessa città, due momenti di una storia che racconta non solo la donna, ma l’anima stessa di una città e di un paese in continuo cambiamento. 
Ed è proprio questa la cifra di un autore che, senza proclami, fa letteratura vera.

 

Angelo Gaccione
Sonata in due movimenti
Di Felice Edizioni - 2022
Pagine 254 - € 15,00
 
L’Autrice


Francesca Mezzadri

Francesca Mezzadri lavora come ricercatrice di Filologia e Letteratura italiana in ambito universitario. Collabora, come critico letterario e narratore con la rivista Satisfiction. Ha pubblicato in “Archivio Storico per le province parmensi”, Parmenio Bertoli, la drammaturgia dell’Ottocento, Edizioni Biblioteca Palatina, Parma, 1995. Collabora con il quotidiano La Gazzetta di Parma e altri numerosi organi di stampa. A Milano ha lavorato come organizzatore di eventi d’arte contemporanea presso la celebre Galleria Marconi. Nell’ambito di tale attività ha curato la pubblicazione del volume Artwave a rightwave 2001 - Rassegna d’arte contemporanea, Rimini Fiera 2001. Nel 2019 ha curato una mostra fotografica di inediti del Maestro Mario De Biasi patrocinata dal Comune di Foggia presso il Palazzetto dell’Arte Andrea Pazienza. 

POETESSE E DESTINO
di Anna Rutigliano


Sylvia Plath
 
Tragica coincidenza od infausto destino, le poetesse Sylvia Plath e Amelia Rosselli, sua fedele lettrice e traduttrice, videro le proprie vite segnate da tristi vicende familiari (la Plath fu vittima anche di violenza domestica da parte del marito/poeta Ted Hughes) che ne avrebbero, in seguito, condizionato pesantemente il rispettivo benessere psichico. Entrambe orfane di padre in giovane età, entrambe affette da gravi forme di depressione sino alla sofferta esperienza dell’elettroshock negli ospedali psichiatrici, le due poetesse sono legate da una data nefasta: quell’11 Febbraio del 1963 per la Plath e, a distanza di  33 anni, nello stesso giorno, per la Rosselli, quando posero entrambe fine alle proprie vite. Per quanto il suicidio della Plath costituisca dibattito tuttora aperto fra gli studiosi, sulle orme del sociologo Durkheim, ne evidenzierei il carattere sociale del gesto: che sia di tipo egoistico, anomico, altruistico o fatalistico, esso è un fenomeno sociale, connesso a cause esterne all’individuo (in Le Suicidie di Durkheim). 


Amelia Rosselli

I dati dell’ISS, aggiornati al 2024, a tal proposito, riportano circa il 6% di soggetti affetti da depressione nella fascia di età adulta compresa fra i 18-69 anni, con rischi particolari per le donne, per individui affetti da patologie croniche e disabilità, per soggetti che versano in condizioni economiche di disagio, per lavoratori in stato di precariato; per gli anziani oltre i 65 anni, invece, la percentuale raggiunge circa il 9%, dati che hanno visto un incremento con la pandemia. Così, nella giornata europea della Depressione (sabato 18 ottobre) e a poco più di una settimana da quella dedicata ad essa, a livello internazionale, non potevo essere indifferente ad una delle pagine più fredde, lucide e razionali (“Edge- “Orlo”) di una delle scrittrici più profonde e creativamente visionarie, nel senso della scrittura, degli anni sessanta e a cui, Amelia Rosselli si dedicò con zelo, nell’attività di traduzione di alcune sue opere, fra cui “Ariel”. Nella poesia “Orlo”, proposta qui di seguito, persino la Luna, immobile, è abituata a simil scenari immortalati quasi in un dipinto fra il realismo ed il surrealismo ad evocarne la maternità interrotta ed il raggiungimento della perfezione di sé con la morte, quella stessa Luna che, invece, nel Lied di Eichendorff, “Mondnacht” (“Notte di Luna”), farà da sfondo, anche se mai menzionata, ad una esperienza “romantica” di trascendentale connessione con l’Assoluto.


 
 
Orlo


La donna si è realizzata.
Il suo corpo
morto
veste il sorriso del compimento.
L’illusione di una necessità ellenica
scorre, fluida, nel tessuto della sua toga,
i suoi piedi
nudi
sembrano dire:
“siam giunti fin qui, è finita.”
Ciascun infante morto, come serpente bianco,
ognuno, avvolto alla propria tazzina di latte, ora vuota.
Lei li ha ripiegati
nel proprio corpo come petali
di rosa rinchiusa nell’intorpidirsi del giardino
dai sentori di sangue
effusi dalle dolci e
profonde gole del fiore notturno.
La luna non ha nulla di cui esser triste,
con lo sguardo fisso dal suo cappuccio d’osso.
Avvezza a certe scene
crepitano e si trascinano le sue macchie nere.

LIBRI
di Anna Lina Molteni


 
Africa. Il continente antico in sedici reportage a cura di Antonella Napoli
 
Non è casuale l’alternanza scelta per i sedici reportage che compongono Africa, uscito per le Edizioni All Around e curato da Antonella Napoli, giornalista e analista di questioni internazionali, direttrice della rivista Focus on Africa. Se si trattasse di un film si parlerebbe di un montaggio efficace, nel quale affascinanti scenografie africane si intercalano alla narrazione di guerre, eccidi e migrazioni forzate, soprusi e sfruttamenti con immagini che nel Congo ex colonia belga rimandano agli orrori di Cuore di tenebra di Joseph Conrad. Quasi a offrire al lettore una boccata d’ossigeno durante un’immersione nella quale l’obbrobrio della violenza non può lasciare indifferenti, e regalare una speranza che, per quanto consolatoria, non deve distogliere lo sguardo da questi mille mondi, contraddittori e sfaccettati, riuniti sotto il nome comune di “Africa”.
Gli africani utilizzano da sempre il mondo naturale come guida, mappa e strumento nel corso delle loro esistenze”, scrive Antonella Napoli nell’introduzione ed ecco che il mondo naturale ha le sembianze della riserva naturale di Mashatu, al confine orientale del Botswana, fra lo Zimbabwe e il Sudafrica, con “un paesaggio vario che va dalle praterie alle foreste fluviali, dalle colline rocciose alle paludi, a numerose creste di arenaria […] che accoglie elefanti, giraffe, varie specie di antilopi, struzzi e l’uccello kori bustard, il simbolo del Botswana”, oppure le 115 isole che compongono le Seychelles. Un insieme di corallo e granito, spiagge, barriere coralline, picchi che si ergono sopra foreste con l’eccezionale fauna di uccelli marini che vi nidificano, specie uniche come la tartaruga gigante di Aldabra o i fitti palmizi di cocco di mare.



A questi “paradisi”, che fanno pensare all’Eden come la terra vergine degli inizi, quando tutto era ancora intatto e la storia degli uomini di là da venire, si aggiungono i reportage dall’atlantica Capo Verde con il suo esperimento di “turismo comunitario” il cui scopo è “portare le persone interessate a visitare una Capo Verde differente, senza grandi hotel con piscina e vista mare, ma a contatto diretto con la realtà locale rurale e che punta sull’ambiente come atout principale”. A questa scelta si contrappone invece l‘esplosione turistica di Zanzibar e l’abbraccio della Tanzania con Dubai, uno degli esperimenti più diabolicamente riusciti di trasformare una città in un luna park permanente.
Condensare la varietà di temi che i sedici reportage, firmati da autori diversi, affrontano è impossibile. Le molte “Afriche” che descrivano sono complesse e ognuna di loro meriterebbe un approfondimento a parte. Numerosi sono i rimandi al periodo coloniale, dalla storia delle lotte per l’indipendenza ai fatti che drammaticamente entrano nelle cronache attuali, come le marce della morte attraverso il deserto per raggiungere la costa del Mediterraneo raccontate in Libia, lungo le rotte dei migranti. Bastano i titoli dei capitoli a segnare quel percorso che per molti ha le immagini del film di Matteo Garrone, Io capitano: Una via di fuga attraverso il deserto, Un viaggio disperato inseguendo la speranza, Storie di chi ce l’ha fatta e chi no, Un flusso ininterrotto di “senza futuro”, I respingimenti illegali di profughi, il “traffico umano” e il contrabbando d’organi, Migliaia ogni giorno le persone scomparse nel deserto.
Secondo dati recenti il deserto è un cimitero più affollato del Mediterraneo.
E al deserto ci riportano ancora due bellissimi reportage: Sahara occidentale, la battaglia infinita del popolo Saharawi e Meroe, la città dei faraoni neri.



Il primo raccoglie le testimonianze di alcuni sopravvissuti alle mine, tra i 7 e il 10 milioni secondo stime ONU, disseminate lungo il muro elettrificato di 2700 chilometri costruito per tenere lontani dai loro territori nel Sahara occidentale, conteso tra Marocco e Fronte Polisario, i saharawi, tribù nomade che discende da schiavi africani, beduini arabi e berberi. Questo popolo vive in campi profughi a ridosso del muro, “trasformati in presidi di resistenza, ma anche in comunità con scuole, strutture sanitarie e piccole attività commerciali, che sono l’emblema della battaglia pacifica di una nazione che da quarantaquattro anni rivendica la propria indipendenza. Accampamenti fatti di tende e di piccole costruzioni di sabbia che all’arrivo della stagione delle piogge, quando sono particolarmente abbondanti, si sgretolano […] gli aiuti umanitari permettono alla popolazione di sopperire alle carenze del luogo ostile, ma il cuore pulsante che tiene in piedi la comunità sono le donne”. Insegnanti, operatrici sanitarie, donne impegnate politicamente che conducono la battaglia per l’autodeterminazione “nonostante l’indifferenza della comunità internazionale, un silenzio che genera un deserto, non solo di sabbia, intorno alla loro esistenza”.


E sempre a un deserto ci riporta il secondo reportage, Meroe: la città dei faraoni neri, in un luogo di forti suggestioni storiche a artistiche qual è la riva orientale del Nilo Azzurro. Antica capitale del regno di Kush (III sec. a. C.), luogo di collegamento tra le civiltà mediterranee e quelle africane, patrimonio dell’umanità dal 2011, è attualmente esposta ai pericoli che derivano dallo scoppio nel 2023 di una nuova guerra civile tra l’esercito e il gruppo Rapid Support Forces, che segue quella della regione del Darfur, “dove il genocidio della popolazione non afro-araba ha portato alla morte di circa 400mila persone”.



Meroe si trova infatti vicina a una miniera d’oro “gestita dalla Meroe Gold, compagnia che risulta controllata dal gruppo di mercenari russi Wagner che sfruttano la concessione fornendo in cambio armi alle milizie”.
Oggi l’antica città originaria non esiste praticamente più, ma i nomadi si accampano ancora tra le sue rovine e può capitare che “spostando con la mano la sabbia che lo ricopre si palesano brandelli di pavimento di pietra levigata bianca e nera, a scacchi” oppure “il bassorilievo di un coccodrillo, carri carichi di prigionieri, il dio leone Apademak”. Un mondo sommerso che riaffiora, mentre lo sguardo scivola lentamente “lungo il profilo delle piramidi dei re e delle regine del regno di Kush, necropoli sontuosa e immobile da più di venti secoli sulla distesa rossa del deserto di Meroe”.
Anche questa è una delle “Afriche”, che descrisse in modo magistrale Karen Blixen: “L’aria, in Africa, ha un significato ignoto in Europa. Piena di apparizioni e di miraggi, è, in un certo senso, il vero palcoscenico di ogni evento”.


La copertina del libro

Antonella Napoli (a cura di) 

Africa. Il continente antico in sedici reportage

All Around - 2025 - euro 16,00

POETI
di Salvatore Di Marzo


Salvatore Di Marzo
 
La Cumana
 
Il vento furioso è una voce d’alloro,
un bruito che mesce parole alle foglie,
all’ombra di tede, che freme, un respiro
che esala la terra, e aggrava le ciglia.
 
Ancora tre volte il vento ha frullato
le foglie a sei dita, ma sono di polvere,
un’ombra nelle ombre, e sibila e striscia
tra i cespi sugli occhi di bianche ginestre.
 
La cicala frinisce nel giorno che muore,
in un soffio che effonde un amplesso di voce,
e sfiorisce, nelle parole che mai ho ascoltato
e nella carezza che mai mi ha lasciato.
 


Liliana Ravalli: Bosco
 
Requie materna
 
Non era di chi ti lasciava da sola la colpa, in silenzio
e tacendo, a invecchiare alla vecchia poltrona alle soglie
del giorno (le madri lo sanno che è loro dovere aspettare,
ma senza sapere). Ed era nell’alba, un quadrante sbiadito
un elianto appassito a segnarti la voce nel canto del seno,
il mio cuore. Madre, come tutte le madri povera e giusta
nella loro vecchiezza, gloria al tuo sguardo, e al silenzio.
Non sono mai quel tuo figlio, ma sono tue le bianche parole
in penombra, da quando allattavi il mio labbro, come succo
di melograno (non hanno un passato, e non hanno domani).
Il sole imbianca, e la campana, lontana coetanea, dichiara
la sera, ma tu, rassegnata, non andare nell’estremo rintocco,
soccorrimi ancora, aggrappato alla veste di un ricordo segreto,
e non andare perché lo devi al mistero sonoro del vespro.
 

POESIE
di Paola Zan
 
Paola Zan

La Palla
 
Pallida e pensosa, la ragazza
gioca da sola con una palla in mare
La fa roteare sul pelo dell'acqua
E quella, semisommersa
non si sposta beata dal suo asse
 
Eppure impazza, e senza sosta
la violenza.
 
 
I potenti
 
Vogliono arricchirsi indisturbati
E restano impuniti.
 
Non mi specchio quando mi trucco
Si specchia l'anima dentro di me
È come allattare di poesia il bimbo di tutti.
 

Liliana Ravalli: Il sogno sognato

Adoro i nidi
 
Adoro i nidi
sugli alberi spogli
Adoro scrivere
su carta qualsiasi
 
Adoro i panni, ben stesi
per fili tesi:
fantasmi lindi
danzanti
 
che dicono vieni.
 
 
Poesia spia
 
La poesia racconta la verità
anche quando non la dice:
è tutto un chiaroscuro
 
E la si evince.
 
 
Liliana Ravalli: Percorso obbligato
 
Spesa lesa
 
Ormai la vita è scandita
dai punti sulla spesa.
 
Dignità lesa
per una spesa obesa.

LA FRASE DEL GIORNO
di Laura Margherita Volante



Per natura sacrificale
si sente il peso di essere buoni
…”.

SCAFFALI
di Gianfranco De Giovanni
 


Giuseppe Carlo Airaghi
 
Giuseppe Carlo Airaghi, con il suo volume L’unione arbitraria delle singole parti, compie un gesto audace che è prima di tutto un atto interiore. Non si tratta di una pura espressione di narcisismo, ma di una sentita necessità. L’autore ha sentito il bisogno prepotente di tornare sui propri passi e tentare di fare “ordine” nel cammino percorso. Il libro è una raccolta antologica di poesie scelte e rivisitate, scritte nell’arco di dieci anni (2013–2023). Airaghi propone una rilettura del proprio itinerario poetico. L'intento è restituire una visione organica a parole, immagini e visioni ricorrenti che lo attraversano e lo abitano. La scelta del titolo - l’unione è “arbitraria” e insieme necessaria - chiarisce subito la natura del progetto. Si tratta di un tentativo di conferire unità a un percorso che, mentre si realizzava, non perseguiva consapevolmente alcuna sistemazione organica. L’autore non segue un criterio cronologico, ma un principio di risonanza. Egli accosta testi tratti da quattro raccolte già edite, ordinandoli secondo una logica “tematica”.
Airaghi mette in dialogo poesie nate in tempi diversi, ma unite da figure e domande che tornano. Ne emerge un mosaico coerente e mobile, dove la poesia diventa gesto di conoscenza e atto di scoperta. L’autore indaga temi cruciali come la memoria, l’amore, la perdita, la città, l’infanzia e il cammino. Queste sezioni tematiche non sono capitoli tradizionali, ma “soglie da attraversare”. Le sezioni che compongono il volume, come Paesaggi urbani con figure e Autobiografia apocrifa, dialogano tra loro come frammenti di un unico discorso poetico. La costanza di una postura poetica tiene insieme i testi, rifuggendo la retorica e cercando parole chiare e dirette. Il compito che Airaghi affida alla scrittura è prima descrivere e poi rivelare, anche a costo di allargare le ferite. La sua poesia cerca, nella realtà, il punto in cui l’esperienza individuale incontra le condizioni comuni a tutti, come la fatica e il dolore.
Ad aprire il percorso, due poemi unitari ampliano il registro lirico verso una dimensione quasi teatrale. Questi sono Monologo dell’angelo caduto e Il poema del cammino. A differenza delle sezioni tematiche, questi due poemi sono percorsi già strutturati nella loro interezza. Entrambi si configurano come monologhi che danno voce a un'interiorità drammatica. Con la forma poemetto, l’autore tenta di allontanarsi dall’esibizione ricorsiva dell’io lirico contemporaneo. Egli prova a filtrare la soggettività affidando la voce a un personaggio e usando un meccanismo narrativo. Tuttavia, in filigrana, l’autobiografismo inteso come traccia emotiva e conoscitiva, emerge comunque, poiché in poesia è impossibile non attingere al proprio vissuto interiore. L'autore stesso ammette che l’antologia racconta forse più del presente che del passato. Quest’opera non celebra un traguardo, ma interroga un percorso. L’unione arbitraria delle singole parti è un tentativo di ricomporre un puzzle per restituire la parvenza di un’immagine compiuta, anche se solo provvisoriamente. L’arbitrarietà dell’unione, come suggerisce il titolo, non rende l’opera priva di senso, ma riflette la ricerca continua di un senso possibile tra le tracce della propria esistenza. Il lettore troverà, si augura l’autore, il filo sottile e incompleto che unisce queste singole parti.
 

Giuseppe Carlo Airaghi
L’unione arbitraria delle singole parti 
ChiareVoci Edizioni 2025
Pagine 265 euro 13.00

CINEMA
di Marco Sbrana


 
Abbiamo scoperto il segreto del mondo - Le città di pianura di Francesco Sossai.
 
Nel finale de La dolce vita di Federico Fellini, Mastroianni accorre e la spiaggia è in delirio, perché morto a riva è stato trovato un mostro, una non meglio identificata creatura marina. Mastroianni si volta, poi, e, dall’altra parte di una conca dove l’acqua ristagna, una bambina, già vista in precedenza ma con la quale aveva scambiato poche battute, urla qualcosa di incomprensibile. Mastroianni tenta di decifrare le parole della ragazzetta; non riesce, com’è il vento non brezza ma burrasca, tanto forte da tappare le orecchie, e le bocche tappare. Alza le mani, Mastroianni, nella resa: no, non capisce. Stacco sulla bambina, che ha detto, che non è stata capita, che guarda in macchina. E così finisce il film.
Questo espediente (un personaggio che dice ma il cui dire non giunge a destinazione) è usato più volte ne Le città di pianura di Francesco Sossai, quest’anno presentato a Cannes nella sezione Un certain regard.
Il segreto del mondo, di questo parla il film. La sua indecidibilità; la possibilità che non esista; la possibilità di pervenirvi solo per poi farselo scappare; la tendenza di questo segreto a rimanere sulla punta della lingua come i sogni che il risveglio uccide.



Finestre, case, case belle. Doriano dirà che prima non era così; prima, guardando le finestre delle case degli altri, pensava che in quelle case ci sarebbe entrato, laddove adesso è un disilluso Io non ci entrerò mai.
Chitarra acustica. Sequenza di finestre. Stacco. Inizio del film. Doriano e Carlobianchi (a un certo punto chiamato “Charlie – White” da Doriano, momento che ha fatto ridere la sala) dormono in una macchina parcheggiata alla bell’e meglio. E una voce fuori campo ci racconta la leggenda metropolitana di Primo. Il suo ultimo giorno di fabbrica, si racconta, ricevette la visita del padrone dei padroni, il quale gli regalò un Rolex. Il quale padrone poi si allontanò per tornare all’elicottero che alla fabbrica lo aveva condotto, per poi dire qualcosa che, stando alla mimica, Primo avrebbe dovuto ricordare. Ma come fare? Primo non sentì le parole (la Parola), perché soverchiante su tutti i suoni era il rombo dell’elicottero.
Doriano e Carlobianchi esordiscono così: hanno scoperto qualcosa di importantissimo sulla vita; non se lo ricordano. Eugenio “Genio” sta arrivando all’aeroporto. Quale? Treviso o Venezia? Non lo sanno; poco importa, andranno a prenderlo (“Ma dove andiamo?” è Kerouac. “Andiamo!”)
Si aggiunge all’epopea Filippo Scotti, nato da Sorrentino (È stata la mano di Dio) e visto di recente al lavoro per Avati.
Perché “non possono non bere l’ultima”.



Lo incontrano, Scotti, alla festa notturna per la neolaureata Giulia. Per cui Scotti smania. Ma domani ha revisione, vorrebbe tornare a casa. Al ritrovo (seguendo il Dotto-o-re, Dotto-o-re) Carlobianchi e Doriano lo portano quasi di forza in un tipico locale veneto con musica dal vivo. E, quando Scotti scappa, i due lo prendono con loro; gli faranno da cicerone tra i luoghi del rimpianto. O forse sarà Filippo Scotti, giovane giovane, così giovane, a fare loro da guida.
I once had a girl, dicevano i Beatles, or should I say she once had me.
Perché “non c’è mai un’altra volta” (una delle tante sentenze adorabili del film).
Le città di pianura segue le peripezie dei tre. Il loro movimento nel dolore del ritorno ai tempi andati in cui “Genio” era tutto per loro, prima che scappasse in Argentina dopo le indagini su di lui per associazione a delinquere. Sì, criminale; e criminali anche Doriano e Carlobianchi: spaccio illegale di occhiali che rubavano dalla catena di montaggio. Ma, in prescrizione il reato, “Genio” può tornare. Sbaglieranno aeroporto; deluderanno “Genio”, convinto di poter ritrovare il tesoro nascosto, ricavato della delinquenza; visiteranno un’osteria derelitta, teatro un tempo della levità prandiale; vedranno la tomba di Brion, su suggerimento del colto studente di architettura (Scotti), sempre differendo la fine del film con il pretesto di dover “bere l’ultima”, sempre avendo sulla bocca il segreto del mondo, colto e scordato.
Del mondo o del vostro mondo? chiede Filippo Scotti
 
E che differenza c’è?



Bambini cresciuti, “troppo vecchi per crescere”, ad avviso del padre, Carlobianchi fa la “bella vita”. Ma non è vero; la loro è una vita di merda, tutto il film ci grava addosso col peso del rimpianto, della vita scialacquata, con l’esosa vecchiezza che si approssima, preparazione di una lotta impari, epica senza epos, senza armi se non l’arma della resa fatalistica.
Filippo Scotti dice della tomba di Brion che il marmo rimanda alla pesantezza della morte e che gli spazi vuoti sono invece “leggerezza quasi eterea”.
Le città di pianura è ciò che Parigi era per Walter Benjamin: fantasmagoria allegorica di qualcos’altro. Sossai riesce in primis nell’impresa seguente: fa sì che tutto quello che viene mostrato rimandi ad altro. Vediamo l’inane ma, tramite codici che sono quelli del cinema (ora una sentenza spiazzante e spesso paradossale, sempre ironica; ora la chitarra acustica, così malinconica, che ci fa provare nostalgia per vite neppure nostre), abbiamo la sensazione che il vero oggetto del film si trovi nel metafisico, diciamo nel logos. Che insomma Le città di pianura sia l’incarnazione di quel segreto che Doriano e Carlobianchi hanno scordato, e che affiora negli eventi e negli agiti e in ciò che subiscono. E nei ricordi.
Film della e sulla provincia, che è allegoria del diroccamento del mondo, Le città di pianura è permeato da malinconia disillusa e fatalismo. Epicurei, i due amici, ma alla rovescia, perch nella sfrenatezza con cui si procurano piacere, sanno invero che quel piacere è passatempo per non pensare (imperativo. Imperativo: non pensare) alla morte che avanza e al rimpianto che li segue.
Cosa rimane se non un riso strano, quando si sa che si è sprecata la vita?
Forse una parola che redime, udita, intesa, poi dimenticata.



È il tramonto di una generazione, Carlobianchi e Doriano sono emblemi del tramonto che non vogliono, questa la missione, che Filippo Scotti faccia i loro stessi errori.
Il quotidiano come epica, la birra, il locale, il dialetto, la provincia. Inanità, forse, credo sola apparente inanità, quella della trama, uno show che è pretesto di un tell che, appunto, non si riesce a dire: perché l’elicottero sovrasta col suo rumore; perché il treno in cui Filippo Scotti è entrato ha ormai chiuso le porte o perché, così il finale, i titoli di coda, con il loro silenzio, interrompono la conversazione proprio quando il segreto, quel segreto, viene ricordato.
La risposta c’è, forse; ma a che domanda? Esiste la domanda?
Si possono (Wittgenstein) dire proposizioni di senso? O quel segreto pertiene al “ciò di cui non si può parlare”? E poi Godel: “Non fossi qui, non mi chiederei perché sono qui”.
Intelligente, Sossai: differire (all’infinito, in un certo senso) il senso. La domanda sta al ricettore.
Un’idea ce la si può fare.



Carlo Sini parla dell’essere generalizzato, il “si” che dice nonostante gli esseri parlanti. La lingua è tessuto autonomo che parla tramite i soggetti, ma il “si” generalizzato dice la comunanza, e l’unica comunanza è l’evento che, appunto, unisce, lungi dall’essere, come voleva Heidegger, l’accadere più privato, e questo dire comune è sempre, dice Sini, la morte, con allegata la (sola) legge del Non dare la morte.
Che Le città di pianura parli di morte, ossia che la morte sia il segreto scoperto, l’unico scopribile da un certo punto di vista, è possibile e irrilevante. Possibile per via di quel che dice Scotti sulla tomba di Brion (marmo, morte; leggerezza eterea, dissolutezza di Doriano e Carlobianchi) ed è possibile per il discorso sul Veneto come regione fantasma che presto, per via dei danni ambientali, sarà un’infrastruttura, dove le città di pianura (che sono sole, balenanti, barcollanti), scemeranno.
Ma è parere di chi scrive che un film mai sia rebus. Se fa scaturire domande, ha vinto. Le città di pianura è un motore, un grande motore di domande che sopravvive ai titoli di coda.

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