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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)
Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)
lunedì 24 novembre 2025
ULIVI E FRANTOI
Si adatta ancora oggi, in piantagioni che non si relazionano tanto
alle condizioni naturali, al tipo di terreno e ai diversi modi di sfruttarlo,
ma ai modi di corrispondere alle premialità delle politiche della PAC, alle
nuove forme di coltivazione poste in essere dai nuovi macchinari e in ultimo alla
scomparsa dei contadini.
Fanno altresì la loro comparsa gli italiani che abitano e lavorano all’estero, qualcuno magari accompagnato dalla moglie olandese e la loro bambina anch’essi ormai sedotti dall’uliveto di famiglia.
Oggi, con i supermercati traboccanti di olio sedicente extravergine a prezzi stracciati, nessuno corre rischi e dunque nessuno guarda più con occhi lucidi il fiotto di olio che sbocca sul vassoio di acciaio inossidabile da dove lo spillerà. Eppure tutti stanno sempre a chiedersi quanto ‘butta’ l’oliva quest’anno, cioè quale percentuale di olio produrrà rispetto al suo peso, da dove può dipendere la maggiore o minore resa da un anno all’altro e di una zona rispetto a un’altra.
Un mondo che corre all’impazzata incurante dei pericoli che lo minacciano. Noi vecchi non riusciamo quasi più a parlare di questi pericoli, anzi delle catastrofi che incombono. Forse perché non abbiamo più la forza necessaria per affrontarli e allora perché piangerci addosso, fare le Cassandre e renderci la vita ancora più pesante? Meglio pensare che i giovani sapranno trovare una loro via d’uscita (forse lo fanno già e noi non lo sappiamo) e restare comunque operosi: per dirla con Voltaire “bisogna coltivare il nostro giardino”.
DIPLOMAZIA: APPELLO AL
MOVIMENTO PER LA PACE
di Franco Astengo
È arrivato
il momento in cui il movimento per la pace deve sapersi misurare con lo spinoso
nodo della diplomazia. Il conflitto che si sta svolgendo da quattro anni nel
cuore dell’Europa si trova ad un possibile punto di svolta: su di un crinale
scivoloso. L’intesa tra USA e Russia potrebbe sortire, infatti, un esito di
vera e propria trasformazione dell’insieme delle relazioni internazionali in
ispecie sul piano europeo. È necessario ed urgentissimo che il movimento per la
pace (che pure ha dato in questi ultimi anni alcune prove di capacità
transnazionale) si rivolga alle forze politiche della sinistra perché si giunga
ad una proposta che consenta una presenza al tavolo che non consista
semplicisticamente all’idea della prosecuzione del conflitto e del processo di
riarmo dei singoli Paesi (“in primis” della Germania). Dovrebbe essere
considerata la possibilità di proporre una conferenza di pace sul suolo europeo
nella quale si riesca a discutere dell'assetto complessivo del Continente. Il tema della pace può essere declinato soltanto
intervenendo attivamente sulla politica estera compiendo scelte di programma
anche difficili e rovesciando anche alcune impostazioni “storiche”. La presidenza
Trump ha spostato diversi punti di riferimento mandando in crisi il sistema di
relazioni sovranazionali NATO inclusa: un sistema di relazioni cui la destra si
è prontamente acconciata. Per la sinistra è rimasto scoperto un campo d’intervento
decisivo: quello europeo. È necessario riflettere appunto sullo spazio politico
europeo. Senza farla lunga limitiamoci all’analisi del concetto teorico di
“neutralità” che potrebbe essere collegato alla definizione di uno spazio
politico europeo e alla presenza di una sinistra sovranazionale. In senso
stretto neutralità è la situazione giuridica regolata dal diritto
internazionale di estraneità e di equidistanza di uno Stato in presenza di un
conflitto armato, tra gli stati. L’istituto ha una lunga storia di convenzioni
e norme. Il concetto, invece, pone una serie di problemi, provocati dalla
pluralità dei significati di neutralità e dei termini giuridici e politici da
esso derivanti (neutralizzazione, neutralismo) ma soprattutto dalla relazione
di neutralità con concetti come guerra, terzo, amicizia. Oggi l’idea di
“neutralità” potrebbe essere collegata a una ripresa del discorso su di una
“terza via” riferita non semplicemente alla ricerca di un equilibrio tra
sistemi politici ma all’elaborazione di una strategia globale posta sul piano
delle relazioni internazionali riportando al centro l’idea fondamentale del
rapporto Nord/Sud in un quadro di recupero degli organismi sovranazionali nel
senso di un re-orientamento nell’utilizzo delle risorse e di complessiva smilitarizzazione.
Questo potrebbe essere il tema della proposta di conferenza di pace. Potrebbe
essere possibile allora avanzare una proposta di struttura politica europea
fondata sulla ripresa di alcune concezioni di carattere costituzionale e di
ruolo degli organismi elettivi in un disegno di raccordo tra il lavoro dei
Parlamenti Nazionali e di quello Europeo. La sinistra potrebbe tentare di
muoversi per costituzionalizzare la neutralità in parallelo con la nascita di
uno spazio politico europeo nel quale agire in una dimensione di potestà
sovranazionale. Una sovranazionalità che ritorni ad individuare un nesso con il
concetto di neutralità codificato in passato, tra gli altri, da Grozio, Wolff,
Vattel e poi ripreso da più parti nel cuore della “guerra fredda”
(smilitarizzazione e neutralità: pensiamo al Piano Rapacki). Una sinistra
sovranazionale che recuperi la centralità del diritto pubblico europeo come
proprio fondamento nel determinare l’indirizzo della propria politica e ritrovi
autonomia nella complicata, difficilissima contesa internazionale.
LA FAMIGLIA NEL
BOSCO
di Laura Margherita Volante
I bambini nel
bosco tolti alla famiglia.
La famiglia
nel bosco, così chiamata, una coppia di genitori dalla visione educativa
pressoché rousseauiana, rappresenta una minaccia ad un sistema sociale, che si
regge su regole e su convenzioni spesso contraddittorie, la cui rigida
applicazione per fare giustizia può commettere gravi ingiustizie.
La società è
attraversata da fenomeni sociali inquietanti per incapacità a gestirle, da
parte di chi presiede a tale compito, non investendo in percorsi di formazione.
educativi e culturali. Propagande consumistiche, illusorie di benessere,
modelli mediatici irrealistici sono il veleno per molti bambini alla ricerca
della propria identità. Infatti, il conseguente malessere generale si declina
fra violenze in aumento, omicidi/suicidi, e devianze soprattutto fra gli
adolescenti, ribelli senza causa, fra dipendenze e coltelli, come
simboli di forza e di potere. Rousseau basa la sua teoria pedagogica sul
principio educativo, fuori dalla società che corrompe e non educa. Emilio, il
bambino protagonista del suo romanzo dal titolo stesso, viene allontanato
dalla società per vivere in campagna, affinché cresca libero e felice,
educato secondo le leggi della natura.
Strappare i bambini dalla famiglia nel
bosco, sopra citata, per affidarli ad una comunità educativa è un atto che
avrà conseguenze traumatiche sui bambini stessi, mentre altri sono abbandonati
al loro destino fra degrado ambientale, violenze, omicidi di nuclei familiari
allo sbando. Quanta malafede e incapacità di identificare i problemi e relative
soluzioni umane. I due genitori del bosco, come scelta di vita, sono persone
che hanno deciso di educare i loro tre bambini secondo una visione ecologica,
non condizionata dalla società, che non garantisce autonomia indipendenza
libertà ed equilibrio psicosomatico, offrendo loro istruzione, vita sana, capacità
motorie e creatività, oltre all’amore in un clima familiare sereno.
Il coraggio
di vivere fuori da schemi imposti da una società malata che brancola nel buio è
lo scandalo dei tempi nostri, in mano a guerrafondai, con l’uccisione di
migliaia di bambini nell’orrore di guerre e distruzioni in più luoghi del
pianeta. Il problema dunque è la famiglia nel bosco?
domenica 23 novembre 2025
TARDO AUTUNNO
di Zaccaria Gallo
“Profumo d’autunno / il cuore strugge” (Basho)
“(…) cresce
nel vento d’autunno una pallida / primavera tanto a lungo negata” (Mario
Luzi)
“Tityre, tu patulae, recubans sub tegmine fagi,
/ silvestrem tenui musam meditaris avena; / nos patriae fine et dulcia
linquimus arva; nos patriam fugimus: / tu,
Tityre, lentus in umbra / formosam resonare doces Amaryllida silvas”. (“Titiro, tu, che stai sdraiato sotto il
riparo di un faggio, /componi un canto silvestre con il flauto modesto;/ io
lascio la patria e i suoi dolci campi, fuggiamo via: / tu, Titiro, sereno
nell’ombra / fa risonare i boschi del nome della bella Amarillide”) (Virgilio -
Bucolica I)
Andare
verso l’alta Murgia, seguendo il richiamo della Terra del silenzio, che scorre
tra le foglie, con l’ansia trattenuta dell’innamorato. Lungo la strada, piccoli
e grandi gruppi di automezzi da lavoro, di trattori, aggrappati alle strade di
campagna, sono già in cammino da prima dell’alba. Come un tempo sostituiscono i
“traini” tirati, allora, da muli e cavalli; da sempre vanno e vengono nei campi
per la raccolta delle olive e trasportarle alla molitura. Abbiamo lasciato la
città con il profumo dell’olio nuovo che, dai trappeti, s’insinua nelle strade
e attraversa le finestre e ci raggiunge fin dal primo mattino. Anche adesso che
stiamo uscendo di casa. È la ricchezza di questa terra che ha anche altra terra, ai
suoi confini: quella verso la quale, nel tardo autunno, si deve andare,
lasciando che Poseidone riposi in riva al mare, dopo la sua affaticosa estate. Terra
e colline, pietre ed erbe che chiamano, salgono o scendono, abbracciano le
rocce, si fanno sfiorare da un vento radente, freddo d'inverno (da steppa) o da
un sole accecante, incombente di caldofornace, d'estate; terra che si adatta
continuamente allo sguardo, e lo sguardo che alla terra sempre ritorna; terra che
ha il dono del silenzio per ascoltarsi eascoltare. “Ha messo chiome / il bosco
d’autunno. / Vi dominano buio, sogno e quiete. / Né scoiattoli, / né civette o
picchi / lo destano dal sogno…” (B. Pasternak). Una terra che ha l'orgoglio di
un giardino. Eccola la pineta, nel cuore dell’alta Murgia, e andarci è come
entrare nel mistero per far visita a quegli alberi che, come grandi uomini
solitari, parlano tra loro con lingua che loro conoscono e pochi di noi
capiscono. Città dei Pini, dì alberi che invecchiano piano piano, mentre
attraverso i loro rami, il sole, di giorno, filtra i suoi raggi e li riflette
sul soffice tappeto d’aghi caduti
durante la notte, per il soffio d’un vento di luna. Ingresso regale è quello della
grande pineta: sui sentieri, danno il benvenuto erbe verdissime, coperte qua e
là dai fiori d’erbastella, bianchissimi, che non hanno profumo, ma umile
bellezza e che si confondono col bianco delle pietre calcaree e galleggiano,
come ninfee mosse dal vento, ai piedi d’un faggio rosso. Il faggio dalla chioma
rossa! Ci saluta, agitando sui rami le sue manifoglie. Anche con quelle cadute
sul terreno attorno, e che si possono raccogliere come cose ancora vive.
E si deve guardar bene quel
faggio: c’è una grande pietra sul bordo del sentiero. Ci si può sedere e accarezzare
la sua ruvida traforata pelle, mentre con l’albero si fa dolce conoscenza. Con
la sua eterna maestosa compagna che ha poco lontano, la quercia, il faggio è
albero portatore, per antiche credenze del bene, protetto e amico inseparabile
delle Driadi, ninfe della saggezza e della memoria conservata nei boschi. Luciano
di Samosata riferisce che l’oracolo di Dodona non si manifestava soltanto
usando le foglie di quercia, ma anche quelle di faggio. Nell IV sec. Macrobio
riporta, nei suoi scritti, che esso era ritenuto uno degli arbores felices e che le coppe utilizzate per i sacrifici nei
templi erano scolpite nel legno di faggio. Ma per me, e per noi, riveste anche un
altro valore grandissimo: il nome tedesco del faggio, Buche, ha la stessa
etimologia di Buch che vuol dire libro.
Per questo si dice che il faggio è un albero legato alla sapienza, alla saggezza e alla tradizione, e quindi al conservare e tramandare la memoria, al “non dimenticare”. Sì per non dimenticare, ad esempio che “Johannes Gutemberg avrebbe inventato il torchio tipografico dopo aver intagliato un carattere da un blocco di legno di faggio e averlo avvolto in un foglio di carta. Dopo averlo estratto dall’involucro, si era accorto che il carattere aveva lasciato un’impronta sulla carta. Questa scoperta avrebbe portato all’invenzione della stampa” (Bettina Lemke). Entrare in quella pineta, dà la sensazione di esser fuori del mondo in cui abitualmente si vive: gli occhi degli alberi, la loro voce, che è voce di silenziose presenze, raccolte nei loro nidi altissimi, ci avvolge, con lo stupore di un mistero che attende sempre di essere svelato. Ed è improvviso questo stupore, sempre diverso, perché un profumo ci accoglie fin dai primi passi.
L’aria sa di
resine ed essenze, ma anche di qualcosa d’altro, che proprio e solo nel tardo
autunno sappiamo che si può sentire. Inciampiamo quasi in quel profumo: da
sotto al tappeto di aghi, spunta un cappello, anzi due, no, tre, cinque, dieci,
tanti: eccoli! Gli gnomi si sono trasformati in funghi ed è l’incanto, con il
loro incontro profumato, che ci sa parlare della eterna fiaba che lega l’acqua
alla terra, la terra alla luna, la luna a questo luogo incantato. Città dei
pini, sei immortale e io so perché. Tu sai come dare i sogni e come far
diventare, misteri e magie, alta poesia.
IL LUNGO ITINERARIO DI UN
POETA
di Cataldo Russo
Il testo che qui riproduciamo è apparso
venerdì 7 novembre 2025 sul quotidiano “Il Crotonese” che “Odissea” ringrazia
per l’autorizzazione.
Nell’incipit alla raccolta Una
gioiosa fatica. 1964-2022 (La Scuola di Pitagora Editrice
2025, pagine 160 euro 16) il poeta Angelo Gaccione pone in risalto il legame
forte, quasi da simbiosi, che ha sempre avuto con la poesia, sebbene nella sua
vita abbia frequentato e praticato i generi letterari più diversi: la
narrativa, dove ha lasciato segni indelebili con i suoi romanzi e racconti, la
saggistica, il teatro con le sue commedie e drammi, l’aforisma, la critica
letteraria, il giornalismo, ecc.
Se nella raccolta poetica di Cesare
Pavese, Lavorare Stanca, il poeta estende il concetto di stanchezza non
solo a quello fisico ma soprattutto a quello intellettuale e alla difficoltà di
integrarsi in una società sempre più alienante, nella raccolta di Gaccione il
lavoro, il travaglio, diventa gioioso quando si ha la consapevolezza di aver
fatto il proprio meglio, rispettando i propri principi e i propri valori
morali. Allora sì, dopo aver salito il Colle di dantesca memoria, che il
cammino diventa gioioso.
Un legame quello di Gaccione con la
poesia che si è manifestato quando ancora era adolescente come ci è testimoniato
da due brevissime poesie di questa raccolta, sopravvissute alla falcidia del
tempo e dell’incuria e che fanno parte della prima sezione ‘Le Ritrovate’. La
prima, datata 1964, quando l’autore aveva solo tredici anni, evidenzia una
notevole sensibilità come dicono questi versi: Quando la notte / uccide la
luce / tutti gli uccelli più gai / vanno a morire.
Sempre nell’incipit il poeta ci tiene a
dirci che ha scritto quando la materia “urgeva”, quando la pulsione si faceva
prepotente, segno che siamo di fronte a una poesia che nasce dalle viscere,
intrisa di sudore e sangue e non come puro esercizio intellettuale.
La sezione successiva, ‘Le Illuminate’,
composta da 13 poesie pone in evidenza l’insofferenza verso il potere, le
sovrastrutture e le convenzioni: Sotto i tacchi dei signori / la carne
gridava alle ferite / il sangue colava di nascosto per timidezza. / Si
prendevano le mogli i vigliacchi. Al di là di una certa veemenza la
posizione del ventiseienne poeta sembra non indietreggiare di fronte alla virulenza
del potere e ai tacchi dei dominatori.
La sezione compresa sotto la dicitura, ‘Le
Straniere’, raggruppa 8 poesie ispirate da viaggi reali o immaginari compiuti
dal poeta intorno agli anni ’80. La maggior parte sono dedicate a Parigi, un
paio a Monaco di Baviera e una al Brasile, la più recente, del 2019, dove la
nostalgia diventa un denominatore comune di tutti gli esseri. Non stancarti
di bussare alla mia porta, / prima o poi sarò io a venire da te, scrive a
proposito di questo sentimento.
Nella
sezione quattro troviamo le poesie dedicate a Milano, ‘Le Milanesi’, città che
il poeta dimostra si conoscere in maniera profonda e meticolosa, soprattutto
dal punto di vista culturale e artistico. Nella lirica ‘Città mia’ l’amore di
Gaccione verso Milano è totale, pari solo a quello che per la sua Acri. Ci
fosse un’altra vita dopo questa / io tornerei da te / a mescolare la mia terra
con la tua / a impastare vita con la vita / a farti caldo il cuore. /Ti
abbraccerei per implorarti e dirti…
Nella sezione cinque, ‘Le Disperse’,
troviamo tre poesie soltanto: ‘Dio com’ è rara l’amicizia’, ‘Notte,
notte di stelle’, ‘I gabbiani’. Il denominatore comune di questi tre
componimenti, scritti tra il 1987 e il 1989, è un certo, oserei dire, ottimismo
che il poeta vorrebbe infondere ai propri simili per portarli fuori dalla gora
dell’assuefazione alle ingiustizie, alla rassegnazione e alle prevaricazioni.
Nella sezione sette, ‘Le Sacre’, spicca la poesia ‘La Classe morta’ dove
l’urlo di condanna del poeta per una strage di bambini tanto cruenta quanto
inutile diventa una sentenza senza appello. Quel limpido luminoso settembre
/ alla Scuola Numero Uno / non è apparso nessun dio benigno / ad annunziarvi la
lieta novella. È venuto invece l’uomo nero e ha gridato: / “Io sono il
pane della morte… mangiate!”.
Le
sezioni sei e otto, ‘Le arrabbiate’ e ‘Le Dolenti’, seppure si
differenzino dal punto di vista delle tematiche trattate, hanno in comune la
forte tensione ideale. In esse il travaglio del poeta si fa grido, denuncia per
un mondo che ha dimenticato la solidarietà, i valori alti, e si sta
incamminando verso la catastrofe che rischia di distruggere la vita sul nostro
Pianeta.
‘Le
Liete’ nascono per lo più da un sentimento di pacato ottimismo, dove la natura
tempera in qualche modo gli eccessi e le brutture dell’uomo. Nella prima di
questa mezza dozzina di componimenti il poeta sembra riconciliarsi con la vira:
“Il loro canto festoso si accorda / con la nave di nuvole gonfie di vele /
che salpa nel soffice azzurromare del cielo. / E per una volta il dolore del
mondo scompare / e col mondo si riconcilia il mio cuore.
‘Le Diverse’ rivelano un poeta
più portato alla meditazione e con il pensiero rivolto all’ineluttabilità
della morte. Nella lirica’ Testamento’ il poeta esprime il suo desiderio
di essere sepolto fra i libri, tutti, senza distinzione, che ha tanto amato. Poiché ho vissuto / tutta la vita di libri /
custodite le mie ceneri /– siano ben in vista /– accanto ai libri- /– sul
ripiano – /di una Biblioteca. / Un ripiano a caso.
Nelle
penultime tre sezioni, della quale fanno parte ‘Le Incivili’, Gaccione ritorna
alla poesia di impegno civile. Se il mondo diventa sempre più barbaro e
incivile il poeta deve uscire dall’immobilismo del fair play e agire, come ci
dice nel componimento ‘Da una parte sola’: Io sono un uomo di parte, / e sto
da una parte sola: / non è la vostra parte, / questo dev’essere chiaro. / Me ne
assumo ogni rischio / e ho messo in conto tutti i pericoli.
Una
raccolta ricca che ha accompagnato il poeta per oltre mezzo secolo; ben
congegnata, ma soprattutto che vibra di intensità poetica, senza mai cedere
all’autocompiacimento o al semplice esercizio letterario.
Angelo
Gaccione
Una
gioiosa fatica. 1964-2022
La
Scuola di Pitagora Editrice, 2025
Pagg.
160 € 16
POETI
di
Anna Rutigliano

Nelly Sachs
Non
avremmo testimonianza della creatività poetica della scrittrice Nelly Sachs e del
suo realismo lirico impregnato di mistica ebraica, se una grande prova di
coraggio e di profonda e sincera amicizia non avesse salvato lei e sua madre
anziana dalle persecuzioni naziste degli anni ‘39-’40, trovando riparo a
Stoccolma : la prima donna ad aver ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura
in assoluto, nel 1909, la scrittrice svedese Selma Lagerlöf, sarà successivamente
ricordata con immensa gratitudine dalla Sachs , nel 1966 , in occasione del suo
discorso durante la cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Letteratura,
non avendo avuto la possibilità di ringraziarla personalmente: un sentimento, quello
di gratitudine, che, quando solido, resiste ai “burrascosi vortici dell’eternità”,
verso a cui ci richiama la poetessa stessa nel suo componimento Se i profeti
irrompessero (Wenn die Propheten einbrächen), tratto dalla raccolta di
poesie Le stelle si oscurano (Sternverdunkelung.
Gedichte , 1944-’46).
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| Nelly Sachs |
Se i profeti irrompessero
Se i profeti con irruenza,
entrassero
per le porte della notte,
nello zodiaco dei demoni
al capo cinti
d’orrida corona di fiori,
ponderando con le spalle i segreti
dei cieli in caduta e in
ascesa
per chi da tempo è dipartito dall’orrore –
Se i profeti irrompessero
per le porte della notte,
illuminando di luce dorata
le vie di stelle tracciate nei loro palmi
per chi da tempo nel sonno è sprofondato
Se i profeti penetrassero
per le porte della notte,
infliggendo nei campi dell’abitudine,
ferite di parole,
recuperando quanto di più remoto ci sia
per il bracciante
che da tempo non ha più attese a sera
Se i profeti si intrufolassero
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria
Orecchio degli uomini
d’ortica inzuppato,
saresti in ascolto?
Se la voce dei profeti
soffiasse
nei flauti-ossa dei bambini assassinati,
se espirasse
l’aria bruciata dalle urla di martirio
se costruisse un ponte
con i sospiri dei vecchi ormai morti
tu, Orecchio degli uomini
intento solo ad origliare,
saresti in ascolto?
Se i profeti con irruenza
entrassero
nei burrascosi vortici dell’eternità,
se lacerassero il tuo udito con codeste parole:
chi di voi vuol fare guerra a un mistero,
chi vuol creare delle stelle la morte?
Se i profeti si levassero
nella notte degli uomini
come amanti in cerca dei reciproci cuori,
oh Notte degli uomini
doneresti il tuo cuore?
SCAFFALI
di Francesca Mezzadri
Questa
lunga anteprima appare come un vero e proprio manifesto poetico sul rapporto
tra vita, memoria e scrittura. Non è un semplice preambolo: è un’autobiografia
che si nega mentre si offre, un autoritratto in filigrana, continuamente
spostato, contraddetto, ritratto e rilanciato. La riflessione iniziale su
Vermeer non è un ornamento erudito, ma una chiave d’accesso: la donna intenta a
leggere, sorpresa nell’intimità, diventa lo specchio del gesto segreto dello
scrittore che fruga nella propria memoria come la madre ipotetica fruga nei
cassetti del figlio. È qui che l’immagine si fa narrazione, e la narrazione
teoria: l’atto di leggere - e dunque di vivere, ricordare, scrivere - è sempre
un’intrusione, un furto d’identità, un rischio di scoperta.
L’autore sviluppa la propria
poetica attraverso una serie di confessioni che non concedono mai realmente la
confessione. Il diario, gli appunti sparsi, le fotografie fuori fuoco: tutto
concorre a una memoria che vuole essere precisa ma si riconosce frammentaria. I
suoi strumenti sono concreti ma il risultato sfugge: la vita vissuta e quella
raccontata divergono, e nel loro divario nasce la letteratura. L’insistenza sul
diario come archivio privato e destinato alla distruzione mette in scena un
paradosso: ciò che è più autentico non è per i lettori; ciò che è pubblicato è
inevitabilmente un inganno. Ma è un inganno che salva.
Molto affascinante è la tensione
tra racconto e romanzo, tra brevità e pretesa delle grandi forme. L’autore
rifiuta il romanzo come se gli venisse imposto dall’esterno, come se per
scriverlo servisse una verità che nessuno possiede - o peggio, che sarebbe un
tradimento. Il rapporto con la madre, evocato come rovello e come impossibilità
narrativa, incarna il nodo centrale: ci sono figure e dolori che non stanno in
trenta pagine, ma che nemmeno il romanzo può contenere. La notte, evocata come
possibile luogo di una futura scrittura materna, non è un tempo ma uno stato
dell’anima: il tempo in cui il “soldato nella notte”, figura dylaniana e
insieme epica, avanza alla cieca sapendo soltanto che la paura è anche
protezione.
La parte che più mi ha colpito
dell’anteprima del testo è forse quella in cui lo scrittore dichiara, con
limpida sincerità, che “scrivendo di me, scrivo sempre di un altro e scrivendo
di altri, scrivo sempre di me”. Qui l’autobiografia si dissolve nella
bioautografia: non un racconto di sé, ma un raccontarsi attraverso i fantasmi
degli altri, attraverso i personaggi amati, rubati, reinventati. Il riferimento
a Cyrano, Casanova, Baudelaire, Hemingway non è citazione colta: è
dichiarazione di appartenenza a una linea di scrittori inattuali, infedeli, refrattari
alle mode. È una rivendicazione preziosa in un tempo che chiede continue
semplificazioni.
Colpisce anche il tono sommesso e
ironico, la volontà di non prendersi troppo sul serio pur parlando di temi
gravissimi: l’identità, il linguaggio, la memoria che cola via come acqua
attraverso un elmo bucato. La metafora finale è splendida: chi cerca nella
scrittura dell’autore una biografia ordinata “morirà di sete”, perché il vero
non è trattenibile. Non per mancanza di sincerità, ma per necessità strutturale:
la vita è acqua corrente, la scrittura il suo riflesso tremolante. Questa
anteprima è un saggio-narrazione che prepara il lettore non solo a un “viaggio
con la madre”, ma a una poetica della soglia. Ogni pagina sembra dire che si
può scrivere solo ciò che sfugge, ciò che non coincide, ciò che non torna: i
ricordi indistinti, le ombre che svaniscono, le parole che non bastano e
tuttavia insistono. Ed è proprio in questa oscillazione - tra verità e
invenzione, tra io e altro, tra intimità e maschera - che il testo trova la sua
forza più alta.
È una dichiarazione d’amore alla
scrittura, ma anche un avvertimento: nessuna autobiografia dice davvero “io”.
La vera voce, quella che rimane, è quella che riesce a diventare “tu” e “noi”
Massimo Del Pizzo
In viaggio con la madre
Arsenio
Edizioni, 2025
Pagg.
48, 10 euro
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