UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

mercoledì 24 dicembre 2025

IL FANATISMO PUÒ ESSERE UN CANCRO 
di Michael Cohen
 

Testimonianza dello scrittore australiano Michael Cohen.
 
Scrivo da ebreo formato da due eredità. Da parte di mia madre, sono figlio di un sopravvissuto all’Olocausto polacco. Da parte di mio padre, sono un ebreo di Sydney di sesta generazione, cresciuto nei pressi di Bondi. Il mio trisavolo, Maurice Abraham Cohen, venne in Australia e contribuì a fondare l’Hevra Kadisha, l’istituzione responsabile della sepoltura dei morti ebrei di Sydney. Non è una nota storica a pie’ di pagina. È un tempo presente. La stessa istituzione che il mio antenato contribuì a fondare è ora responsabile della sepoltura delle vittime del massacro di domenica scorsa. 



La vita ebraica qui non è mai stata astratta o simbolica. È stata costruita, organizzata, discussa e sostenuta da persone che concepivano l’ebraismo come una cultura viva, non come uno slogan o un test. Sono cresciuto in una comunità ebraica moderata, plurale e intellettualmente vivace. Gli ebrei discutevano. Erano in disaccordo su Dio, la politica, Israele, l’etica, la cultura. L’istruzione era importante. Il pensiero indipendente era importante. L’ebraismo non era obbedienza; era partecipazione a una civiltà in continua evoluzione. Questo non era casuale. Era il fulcro della sopravvivenza ebraica. Poi è arrivata la setta ultraortodossa Chabad-Lubavitch, e la comunità si è sionistizzata.
Negli ultimi 40-50 anni, Chabad-Lubavitch ha costantemente ampliato la sua influenza all'interno delle istituzioni ebraiche di Sydney. Ciò non è avvenuto all'improvviso. È avvenuto gradualmente - sinagoga dopo sinagoga, comitato dopo comitato - fino a quando gran parte della vita comunitaria non si è concentrata attorno a un unico quadro ideologico.
Questa espansione non è stata semplicemente organica. È stata strategica.
Chabad ha riconosciuto che molti ebrei si erano alienati dalla propria eredità culturale e intellettuale - dalla storia, dalla filosofia, dall’etica, dalla lingua e dal dibattito ebraico. Questa alienazione ha creato vulnerabilità. In questa lacuna si è insinuato un movimento che ha offerto certezza al posto della conoscenza, autorità al posto dell'istruzione e obbedienza al posto dell’impegno. Ciò che ne è seguito non è stata una libera competizione di idee, ma il dominio attraverso il controllo istituzionale. Gli spazi comunitari sono stati monopolizzati. Le voci alternative sono state emarginate. Finanziamenti, legittimità e accesso sono confluiti sempre più attraverso un’unica porta. Chi dissentiva è stato silenziosamente escluso. Ciò che emerse assomigliava, metaforicamente, a una politica mafiosa - non criminale in senso letterale, ma nei suoi metodi: pressione, intimidazione, monopolizzazione ed eliminazione sistematica dei rivali. Creatività e libero pensiero non furono messi in discussione; furono soffocati.


 

L’espressione indipendente ebraica fu trattata come disordine. Il pluralismo fu inquadrato come una minaccia. Col tempo, il messaggio fu chiaro: allinearsi o scomparire. È così che una cultura viva si appiattisce. Ciò che veniva presentato come continuità ebraica funzionò sempre più come il suo opposto. Ho iniziato a frequentare Chabad. Conosco le dinamiche interne: la certezza, la pressione a conformarsi, la sfiducia nell’istruzione laica, lo scoraggiamento del giudizio indipendente. Agli ebrei viene detto di non pensare con la propria testa, di non porsi troppe domande, di non fidarsi di istinti morali che esulano dal sistema approvato. Allo stesso tempo, dietro questo assolutismo morale, si cela una profonda ipocrisia. Gli abusi sessuali erano presenti e ampiamente noti in quell’ambiente. Non venivano trattati come un’emergenza morale. Venivano trattati come qualcosa da contenere. Le figure autoritarie serravano i ranghi. Il silenzio veniva imposto. L’istituzione si proteggeva. Sono stato esposto a tutto questo direttamente. Non ero la persona giusta per esserlo. Nessuno lo è. Qualunque fossero le dinamiche psicologiche nella mia famiglia, erano fondamentalmente corrette, e quel contrasto non ha fatto che acuire il danno di ciò che ho vissuto. Quell’esposizione mi ha segnato in modo permanente. 



Un movimento che rivendica la superiorità morale, scoraggia l'istruzione, esige obbedienza e non protegge i propri figli ha perso ogni pretesa di autorità etica. Questo non è casuale. È strutturale. L’ideologia che lo rende possibile è importante. Al centro della teologia Chabad c’è la Tanya, che insegna una distinzione fondamentale tra anime ebraiche e non ebraiche. Quando questa idea viene vissuta socialmente, anziché trattata come misticismo astratto, produce un universo morale chiuso, che scoraggia l’empatia, il dissenso e la responsabilità. Questa visione del mondo plasma anche la politica. Per anni, Chabad ha promosso un sostegno acritico agli elementi più estremisti della destra israeliana. I movimenti dei coloni vengono celebrati. La forza viene estetizzata. L’esitazione morale viene inquadrata come tradimento. Durante la guerra di Gaza, ciò che molti ebrei hanno vissuto come dolore o crisi morale è stato pubblicamente accolto con applausi e assolutismo. Credo che questa posizione sia stata disastrosa, eticamente, culturalmente e strategicamente.
 
[Traduzione di Google]

 

GLI AUGURI DI “ODISSEA”



Odissea” formula auguri antifascisti, resistenti e disarmisti, a collaboratrici e collaboratori, a lettrici e lettori, con questo acrilico su tela che il pittore Max Hamlet ha espressamente realizzato per noi

IL COMUNICATO DI ANGELO D’ORSI
E la feccia guerrafondaia che impazza nel Paese e si è infiltrata nella Sinistra.



Il 22 dicembre, l’ANPI di Napoli, Sezione Napoli Orientale “A. Ferrara”, si è svolta la mia prevista conferenza su “Russofilia Russofobia Verità”, quella che era stata boicottata per due volte, in parte ricuperata e Roma all’Istituto di Cultura e Lingua Russa sabato 20, che aveva comunque un titolo diverso. Oltre a me, era invitato Alessandro Di Battista, che ha parlato per primo, con un intervento breve e appassionato. A me toccava disegnare il quadro storico dei due opposti concetti (filia e fobia, in relazione al mondo russo). Alla fine chi coordinava (il presidente della Sezione ANPI, Franco Specchio) ha dato la parola al pubblico. Si alza in piedi urlando a squarciagola un giovane, mentre si toglie la camicia ostentando una maglietta inneggiante all’Ucraina. Contemporaneamente il medesimo gesto compie un manipolo di suoi sodali che occupavano due file di sedie (mentre molte decine di persone erano in piedi, o sdraiate sul pavimento), e si sparpagliano per l’aula cercando di infilare nei vestiti dei presenti una spilletta con coccarda ucraina. Ovviamente il pubblico (quello venuto per ascoltare ed eventualmente interloquire) non l’ha presa bene. Segue parapiglia, il giovane energumeno che aveva dato inizio alle ostilità si precipita verso la cattedra e vi sale sopra cercando di strapparmi il microfono dalle mani, fino a romperlo, mentre suoi amici si avventano verso di me e il presidente Specchio, cercando ripetutamente di infilare le loro spillette nelle nostre camicie, un gesto violento e arrogante che noi respingiamo. Il clima si surriscalda e un paio di amici cercano di farmi uscire, ma veniamo inseguiti da colui che appare manifestamente il capo della banda, che correndomi dietro, cerca di provocarmi con domande alla Calenda o alla Picierno (cosa ci faceva in Russia? Et similia…). Non aspetta risposte, manifestamente, perché se le dà da solo accusandomi di essere “complice” di non so quali nefandezze. L’inseguimento dura un paio di minuti, finché i simpatici ragazzi vengono fermati da un improvvisato servizio d’ordine, il che mi consente, guidato da un paio di amici, di guadagnare attraverso un percorso alternativo, un’uscita secondaria, perché gli ammiratori di Zelensky (mi si riferisce) mi aspettano all’ingresso principale della Federico II. Aggiungo che l’impianto microfonico, che era stato opportunamente testato qualche ora prima, stranamente non funzionava e dopo infruttuosi tentativi, si è dovuto provvedere a un nuovo microfono e a un altoparlante alternativo. Grazie a tutto lo scompiglio, il sottoscritto non è riuscito a raggiungere in tempo utile la stazione di Piazza Garibaldi dove avrebbe dovuto salire su in treno per Roma. Ed è stato costretto a fare un altro biglietto per un diverso treno. È il caso di ricordar che negli scorsi giorni Carlo Calenda aveva lanciato una ridicola petizione contro la conferenza, di concerto con una aspirante assegnista dell’ateneo napoletano, con il medesimo obiettivo. E il giorno prima a Napoli l’onorevole Pina Picierno si è esibita mentre accendeva il candelabro ebraico, e alla piccola festicciola sembra fossero presenti alcuni degli stessi giovani energumeni che hanno interrotto con violenza il dibattito. E che a distanza di pochi minuti hanno inviato un comunicato ripreso dall’ANSA nel quale ribaltano i ruoli, spacciandosi per vittime. I firmatari sono i soliti, ben noti provocatori della politica nazionale: Azione, Europa, Radicali, e altra cianfrusaglia. Mentre uscivo inseguito e accusato di “rifiutare il confronto”, la mia risposta è stata semplicemente: “Non parlo con i fascisti”. Già, perché a Napoli abbiamo subìto un agguato organizzato, che nulla ha a che fare con il “dialogo”, con il rispetto di un luogo “sacro” come l’Università, e con quello che si deve, o si dovrebbe, a chi ha passato la vita a studiare, insegnare, pubblicare, e che si cerca di intimidire con azioni squadriste. Conclusione: il clima politico-mediatico in Italia sta diventando irrespirabile. E io mi sento costretto ad annunciare che annullo tutte le conferenze programmate e non ne accetto altre, se gli organizzatori non sono in grado di:
a) Assicurare spazi capienti a sufficienza con posti a sedere sulla base di una ragionevole previsione delle presenze
b) Adeguati impianti di amplificazione, verificati prima di ogni conferenza
c) Servizio d’ordine interno
d) Informativa alla Digos e alle forze dell’ordine, per evitare di esporre i relatori, nella fattispecie il sottoscritto, alla mercé di ucronazi locali e dei loro supporters.



Prego perciò tutti coloro che mi abbiano rivolto inviti, o intendano farlo di inviare (alla mail ormai nota) una comunicazione precisa in relazione ai quattro punti sopraelencati. Altrimenti considero appunto annullati tutti gli impegni. Grazie.

SISTEMA POLITICO
di Franco Astengo


 
IXXVIII Rapporto “Gli Italiani e lo Stato” 2025, realizzato da Demos & Pi, ha analizzato le percezioni degli italiani su istituzioni e politica, evidenziando trend preoccupanti come la scomparsa della classe media (solo il 45% si sente tale) e un crescente consenso verso soluzioni autoritarie, con il 30% che non escluderebbe il fascismo. Tutto questo secondo i dati di fine 2025. 
In Sintesi Il XXVIII Rapporto “Gli Italiani e lo Stato” 2025 dipinge un quadro di crescente fragilità sociale ed economica, con una polarizzazione delle opinioni che spinge una minoranza significativa verso soluzioni antidemocratiche, segnando una profonda crisi di fiducia nelle istituzioni e nella democrazia liberale. Si confermano così le analisi che stiamo cercando di portare avanti da tempo con al centro la modifica del sistema dei partiti e la crescita esponenziale dell’astensionismo nelle diverse tornate elettorali astensionismo sul cui fenomeno non ci soffermiamo avendone dedicato all’analisi analitica molti interventi). La difficoltà italiana è difficoltà sistemica nel suo complesso (tra le istituzioni e i soggetti politici; tra gli stessi soggetti politici; tra i soggetti politici e i corpi sociali intermedi; nella formazione e nell’aggregazione del consenso). Si aggiunge il presentarsi concreto (dopo diverse avvisaglie) della modifica della forma di governo, una modifica evidentemente ben inoltrata dentro il tema del presidenzialismo, che ha assunto la forma del “premierato”. Deve comunque essere ricordato che la stessa presidenza Conte (in entrambe le versioni giallo-verde e giallo-rosso), approfittando anche dell’emergenza sanitaria, si era sicuramente addentrata sul terreno del cambiamento profondo dell’origine parlamentare della presidenza. Del resto la governabilità per decreto ha avuto origine, nel sistema politico italiano, molto lontane nel tempo, fin dai primi anni ’80 del secolo scorso. Serve allora sviluppare alcune considerazioni sullo stato delle cose in atto nel sistema politico italiano. Da molti anni, in settori minoritari della sinistra, si sta cercando di insistere sulla necessità di un’analisi riguardante l’estrema fragilità del sistema politico italiano.


 
Un sistema fragile segnato profondamente dal trasformismo.
Questa affermazione rimane, a mio giudizio, più che mai valida in questa fase di movimento e di affermazione della figura del “Lord (o Lady) protettore /protettrice”.
È necessario uno sforzo di riflessione e l’elaborazione di una proposta politica partendo da un interrogativo: come si sposterà allora, se si sposterà, il confronto centro destra versus centro-sinistra (che si sta cercando di forzare in bipartitismo personalizzato ad uso “cerchi magici” per evitare l fastidio di organismi dirigenti ormai ridotti a clan seguaci del “capo/a”) e nel centro-sinistra troverà posto il M5S (al riguardo del quale è utile mantenere un giudizi di ambiguità), oppure lo spostamento d’asse in corso sul piano del riferimento europeo rimescolerà completamente il quadro? La risposta a questo interrogativo risulterà determinante anche perché c’è da tener conto che il vuoto in politica non esiste e che il quadro dei riferimenti internazionali appare molto complesso mentre spirano i venti di guerra e il vecchio schema dell’atlantismo è stato denunciato da Trump alla ricerca, nel quadro di una strenua competizione con la Cina, di definire i termini di un nuovo bipolarismo. È il caso allora di andare a fondo sul tema della fragilità del sistema attraverso un’elaborazione autonoma non riferita alla stretta quotidianità del gioco politico. La responsabilità maggiore di questa fragilità spetta, invece, alla leggerezza con la quale, all’interno del sistema, è stato permesso al M5S di raccogliere una messe di consensi ottenuti sulla base di opzioni meramente demagogiche e distruttive senza che si verificasse un contrasto reale di progetto alternativo. L’effimero sfondamento attuato dal M5S con le elezioni del 2018 sta pesando enormemente sullo spostamento d’asse in corso: la debolezza strutturale che ne è derivata ha aperto la strada a questa strisciante modifica costituzionale e ha sicuramente aperto la strada all’estrema destra che oggi governa pur in un quadro di fibrillazione al cui riguardo il centro-sinistra non pare capace di inserirsi. Questo elemento, della resa verso i 5Stelle nel periodo 2013-2018, è risultato esiziale perché ha consentito che si inoculassero nel sistema forti dosi di demagogia a livello di riscontro di massa, cui aveva già concorso il PD nella fase della segreteria (e presidenza del consiglio) Renzi. Il risultato concreto di questa fase è stato quella della perdita di circa 5.000.000 di voti validi tra le elezioni politiche 2018 e quelle 2022. Un mix micidiale: governabilità e personalizzazione in un quadro trasformista che ha fatto perdere fiducia a milioni di elettrici ed elettori.


 
Il risultato dell’intreccio tra governabilità intesa come mero esercizio del potere e personalizzazione della politica a tutti i livelli è stato quello dell’emergere del fenomeno della demagogia trasformistica. Una demagogia trasformistica che si è accompagnata alla crescita delle diseguaglianze e alla sparizione della middle-class: un quadro di impoverimento generale che ha causato il formarsi di una sorta di alleanza tra il “ventre molle” della borghesia e l’individualismo competitivo, che alla fine, ha assunto la veste di una domanda di tipo assistenzialistico-corporativo, con la perdita di ruolo nell’insieme dei corpi intermedi di mediazione sociale e politica (come emerge con chiarezza dalle manovre in corso sulla legge finanziaria). L’attuale governo della destra ha enfatizzato questa demagogia trasformistica tentando addirittura di “ideologizzarla” (riportando in auge il “Dio, patria e famiglia” e la simbologia para-fascista): una operazione ambigua perché rivolta a una società frastagliata, separata e fondata sul consumismo individualista di tipo “competitivo” raccolta soltanto attorno ai nuovi feticci della comunicazione social. Così non siamo lontani da una antica rievocazione dell’autobiografia della nazione. Qui risiedono le difficoltà della sinistra, in ritardo nel riconoscere le contraddizioni reali sulla base delle quali stava trasformandosi la società italiana e ancora incerta tra vecchi slogan e ricerche intorno a soggettività ormai definitivamente tramontate. Il solo contrasto possibile alla crescita ulteriore di questa demagogia trasformistica che non sia quella della riduzione dei margini della democrazia repubblicana può arrivare:
1) da una ripresa di ruolo della Sinistra, da realizzarsi in forme nuove ma solidamente ancorata alle parti più alte della propria tradizione;
2) dal rilancio Costituzionale della democrazia repubblicana fondata sulla centralità del Parlamento, la separazione dei poteri (prestando anche particolare attenzione al referendum costituzionale sulla magistratura, e sulle limitazioni imposte alla magistratura di controllo contabile) e il sistema elettorale proporzionale (proponendo una inversione di tendenza al riguardo del leaderismo anche attraverso una nuova dimensione dei partiti ad integrazione di massa che sarebbero chiamati a svolgere regolari congressi e non consultazioni di tipo plebiscitario attorno ad una errato concetto di “accettazione del leader” come invece ha sostenuto  la nuova sindaca di Genova astro nascente dell’accentuazione personalistica di una funzione leaderistica posta “sopra” al sistema);
3) la programmazione economica, lo sviluppo industriale posto all’altezza della sfida dell’innovazione tecnologica e delle transizioni digitale e ambientale;
4) la prospettiva di un’Europa alternativa nella quale far valere l’autonomia politica in funzione della pace;
5) la solidarietà sociale con una idea di moderno welfare;
6) una funzione pedagogica capace di riportare in discussione il concetto di egemonia rifiutando la separatezza tra cultura e politica.



In conclusione mi azzardo a sostenere che su questi 6 punti (e molto altri) forze sparse della sinistra, eredi della sua grande tradizione storica anche  novecentesca, avrebbero ancora molto da elaborare e da proporre.

 

martedì 23 dicembre 2025

BELGRADO, UNA LETTERA ALLA CITTÀ
di Gianmarco Pisa



La notizia della proclamazione, da parte della European Film Commissions Network (EUFCN), la Rete delle Commissioni Cinematografiche d’Europa, delle cinque migliori “destinazioni cinematografiche” del continente, vale a dire i cinque migliori scenari di cinema, trascende l’ambito ristretto degli addetti ai lavori e dice qualcosa di più sulle città stesse, le loro caratteristiche e i loro paesaggi, ciò che può rendere queste stesse città suggestive o affascinanti. Al di là del merito della proclamazione, infatti, essa sollecita una riflessione più ampia sullo “spazio della città”, come contesto complesso di relazioni e funzioni, in cui si svolgono rilevanti attività sociali e culturali. 
Ebbene, la giuria del premio ha designato cinque finaliste: La Palma (Spagna), Figuera de Foz (Portogallo), Inari (Finlandia), Zangerhausen (Germania). E Belgrado, capitale della Serbia, storica capitale del “Paese che non c’è più”, la Jugoslavia. Delle città nominate è l’unica capitale e, insieme con le altre, una città la varietà dei cui scenari e la ricchezza della cui storia sarebbe perfino superfluo ribadire. Ciò che pare interessante evidenziare non è tanto l’iter della designazione (alla fine, la città vincitrice, quella che sarà proclamata migliore destinazione cinematografica, sarà annunciata nel mese di febbraio 2026 durante una cerimonia in occasione della Berlinale), quanto piuttosto le sue motivazioni, le ragioni che rendono Belgrado una “capitale del cinema”.



La motivazione occasionale è nota. Belgrado è stata candidata dalla Serbian Film Association (l’Associazione cinematografica serba) per le riprese della serie “The Librarians: The Next Chapter”, realizzata in Serbia dalla casa di produzione “Balkanic Media”. Si tratta di una serie fantasy di successo, ambientata a Belgrado nel 1847. Un Bibliotecario, custode di un deposito magico contenente i più potenti artefatti soprannaturali, viaggia dal passato al presente, rimanendo intrappolato nel “nostro” tempo. Quando torna al suo castello, ora trasformato in museo, inavvertitamente libera la magia in tutto il continente. Gli viene allora assegnata una nuova squadra di bibliotecari che lo aiutino a risistemare le cose. Ovviamente, è questo solo l’asse della trama, che si dipana tra eventi magici e avventure fantastiche, sorprese, e viaggi nel tempo e nello spazio.  Qui entra in gioco Belgrado. Molte location della serie sono infatti luoghi di Belgrado: il Kalemegdan, il Teatro nazionale, l’Osservatorio astronomico, l’area di Knez Mihailova. Quest’ultima è la passeggiata pedonale del centro storico di Belgrado. 



Qui nulla è come sembra e, al di là dei progetti speculativi che vorrebbero farne (e in parte già ne stanno facendo) luogo di consumo urbano e spesa compulsiva, la strada ospita un patrimonio storico e culturale che spesso sfugge alla vista degli osservatori distratti. Dalla via principale (Kolarčeva), prima di giungere in Piazza della Repubblica, immettendosi su Knez Mihailova, è un susseguirsi di sorprese: il Kulturni Centar (Centro culturale), luogo di incontri e conferenze, la fontana Delijska, lo straordinario edificio della Accademia serba delle arti e delle scienze, con l’annessa Galleria d’arte, la cui collezione comprende circa tremila opere, di ben 270 artisti nazionali e non pochi artisti stranieri. E poi ancora, la Galleriadell’Associazione degli artisti di belle arti, il Palazzo Zepter, con annesso Museo di arte moderna e contemporanea, e infine, a pochi passi dal Kalemegdan, la Biblioteca Civica, con un patrimonio di 1.8 milioni di contenuti.  
I creatori della serie, la società “Electric Entertainment”, hanno raccontato che Belgrado è per loro (non solo per loro) una vera e propria fonte di ispirazione soprattutto per il confronto tra il mondo magico dei bibliotecari e l'ambiente moderno della città contemporanea. Hanno cioè sostanzialmente confermato che, pur senza scomodare indebiti paragoni con altre celebrate capitali, Belgrado è ciò che sappiamo: una città magica, capace di mettere a confronto, spesso stridente, il mondo magico e la realtà contemporanea. Ma quali sono gli altri scenari associati a questi luoghi? Eravamo alle soglie del Kalemegdan, uno dei simboli di Belgrado. Come hanno scritto, nella loro monografia dedicata alla capitale, Tomislav Rakičević e Srečko Nikolić, “Nel corso dello sviluppo della città, si sono venuti creando differenti complessi ambientali, ognuno con i suoi monumenti caratteristici, cosa che conferisce alla città un colorito speciale. [...]



La fortezza del Kalemegdan e il suo omonimo parco costituiscono un complesso unico che, meglio di altri, parla della storia di questa città. Il suo nome è di derivazione turca (Kale, “fortezza” e Mejdan, “campo”) e indica tanto le mura dell’antica Singidunum quanto uno dei più bei parchi belgradesi. Il Kalemegdan è, senz’altro, il simbolo di Belgrado. [...] In una zona di questo parco, chiamata “Veliki Kalemegdan”, si trovano numerosi monumenti eretti a ricordo di letterati, artisti, politici e altri personaggi insigni della storia serba”.
Si tratta di un sacrario della memoria, un vero e proprio Pantheon della città e del Paese. Vi si trovano la Fontana con la statua simbolica della Lotta, di Simeon Roksandić, il Monumento memoriale sul luogo in cui i Turchi per la prima volta consegnarono le chiavi della fortezza al principe Mihailo, il “Monumento di gratitudine alla Francia”, simbolo dell’amicizia tra i due Paesi e delle battaglie combattute nella guerra del 1914-1918, i capolavori di Ivan Meštrović e il Mausoleo degli Eroi del Popolo, dove sono sepolti gli eroi della lotta di liberazione antifascista, Ivo “Lola” Ribar, Ivan Milutinović, Djuro Djaković, Moša Pijade.



Non meno importanti sono gli altri luoghi. Uno di questi è il Teatro Nazionale. È anche questo un simbolo di Belgrado e della Serbia. Si trova in Piazza della Repubblica, sul versante opposto a quello ove sorge lo straordinario Museo Nazionale. Per la sua costruzione, nel 1868, fu scelto lo spazio dell’attuale piazza, intanto bonificata; qui fu costruito il teatro, che non nasconde influenze classiche e si ispira, per alcune caratteristiche, al modello della Scala di Milano. Vi fu rappresentata, secondo alcuni come prima messa in scena operistica del teatro, la “Madama Butterfly” di Puccini nel 1919. Qui hanno poi diretto grandi direttori d’orchestra, da Lovro von Matačić a Muhai Tang. Come ha ricordato Milica Božanić dell’Associazione cinematografica serba, questo genere di partenariato è fondamentale per sostenere le produzioni cinematografiche, creando così un ambiente favorevole all’ulteriore sviluppo del cinema, incluso il turismo culturale e cinematografico a Belgrado. Belgrado è un naturale punto di incrocio e di ripartenze, di viaggi e di ritorni, in cui le storie e le memorie si stratificano e si condensano, insieme con un patrimonio storico e culturale di rilevanza assoluta, in modo singolare ed indiscutibile. Si possono riconoscere, in questa filigrana, tutti i volti di Belgrado e della Jugoslavia, antichi e moderni, storici e attuali, di volta in volta memoriali o negletti. D’altronde, parliamo di una città orgogliosa, per la sua storia e la sua memoria, come si racconta, “quaranta volte distrutta e quaranta volte ricostruita”. “È caratteristico - scriveva il Giusti - che idee di fratellanza e solidarietà si siano sviluppate specialmente presso le nazioni slave più piccole, che sentivano incerte le proprie frontiere e minacciose le forze che premevano dal di fuori: [...] questi piccoli popoli, attraverso l’idea della solidarietà slava, si sentivano partecipi di un mondo più vasto ... che popolava immense distese dell’Europa e dell’Asia” (W. Giusti, Il panslavismo, Bonacci, Roma, 1941, n. e. 1993).



Pensiamo, ad esempio, a un altro luogo cruciale, e dimenticato, di Belgrado: l’Obelisco dei Non Allineati, uno dei simboli della Belgrado della Fratellanza e Unità, opera, insieme con altri, di Svetislav Ličina. Fu eretto per lo storico Vertice di Belgrado del 1961; sebbene negletto, l’obelisco è rimasto con tutta la sua potenza, anzi, secondo l’architetto Milorad Jevtić (cui si deve l’attribuzione dell’opera a Ličina), resta una delle più significative testimonianze dello «spazio bianco» che caratterizza Belgrado (il cui nome significa, appunto, “Città bianca”). Dal canto loro, i Paesi non allineati non sono scomparsi dalla scena.
Nella loro più recente risoluzione, la Dichiarazione di Kampala del 15-16 ottobre scorsi, sottolineano che “la solidarietà internazionale, massima espressione di rispetto, amicizia e pace tra gli Stati, è un concetto ampio che comprende la sostenibilità delle relazioni internazionali, la coesistenza pacifica e gli obiettivi di equità e di emancipazione dei Paesi in via di sviluppo, il cui obiettivo finale è il raggiungimento del pieno sviluppo economico e sociale dei loro popoli”. Nel caos drammatico del tempo presente, ancora una volta dal Sud globale, trovano spazio per affacciarsi messaggi di pace, di solidarietà e di speranza.



Riferimenti:
Beograd jedna od pet najboljih filmskih destinacija na svetu, Nova, link
Dichiarazione di Kampala del Movimento dei Non Allineati, 2025, link
Tourist Organization of Belgrade, Official Site, link

PROPRIETÀ INTELLETTUALE
di Olindo Cervi
 

L’economista Olindo Cervi a proposito dell’articolo di Francesca Mezzadri apparso su “Odissea” martedì 16 dicembre scorso dal titolo “Il treno dei bambini” https://libertariam.blogspot.com/2025/12/il-treno-dei-bambini-di-francesca.html ci ha fatto pervenire questo scritto.
 
Noi economisti siamo fortemente disprezzati causa le teorie neoliberiste che hanno distrutto completamente due continenti, ma le assicuro che tanti di noi sono ancora persone umane che pensano al bene comune e non al ladrocinio e alla propaganda tanto di moda al giorno d’oggi. Da economista, oltre ad apprezzare il valore storico-culturale del suo articolo, vorrei complimentarmi per aver involontariamente (o forse no) messo in luce un caso di studio esemplare di fallimento del mercato delle idee e di inefficienza nell’allocazione dei diritti di proprietà intellettuale. La sua analisi, infatti, può essere letta come un brillante report sull’asimmetria informativa e sull’esternalità negativa in un settore cruciale: quello della produzione e distribuzione della memoria collettiva. Le fornisco una mia lettura:
1.- Fallimento del Mercato e Asimmetrie di Potere
Il suo articolo documenta un classico caso di “market for lemons” (articolo scritto da George Akerlof premio Nobel per l’economia), adattato al mercato editoriale.
Asimmetria Informativa
Il lettore (consumatore) non può facilmente distinguere, nel prodotto finale (il romanzo di successo), la “qualità” derivante dal lavoro di ricerca originale (di Rinaldi, Cappiello, Piva) da quella della rielaborazione narrativa. L’informazione sulla provenienza delle fonti è nascosta o opaca.
Spiazzamento del Bene di Qualità
Il prodotto “low-cost” in termini di investimento in ricerca (il romanzo che si appropria di narrazioni già elaborate) cattura la maggior parte del profitto e dell’attenzione, rischiando di spiazzare dal mercato i produttori del bene originale (la ricerca storica di prima mano), che ha costi più alti e rendimenti economici più bassi. Questo crea un incentivo perverso a investire in promozione più che in ricerca.


2.- Diritti di Proprietà Intellettuale e Beni Pubblici
La memoria storica documentata è un bene pubblico nel senso economico: è non-rivale (molti possono usarla contemporaneamente) e, in questo caso, non-escludibile (non si può impedire a un autore di fiction di attingervi). Non si tratta della sovra-utilizzazione tipica dei beni comuni, ma del problema opposto: la sotto-ricompensa per i creatori originari. I ricercatori investono risorse (tempo, denaro, capitale umano) per creare un bene (la narrazione documentata) che poi diventa un input a costo quasi zero per un altro agente (l’autore di fiction) che ne cattura la maggior parte del valore di mercato. Questo disallinea incentivi e può portare a una sotto-produzione futura di ricerca storica originale.
3.- Esternalità Negative e Fallimento della Coordinazione
Esternalità Negativa sulla Ricerca: L’atto di non citare le fonti genera una esternalità negativa diretta sui ricercatori: il loro lavoro viene svalutato economicamente e simbolicamente, e il loro capitale reputazionale non viene “capitalizzato”. Il mercato, da solo, non internalizza questo costo. Per i singoli ricercatori, il costo di far valere i propri diritti morali (attribuzione) e di negoziare un compenso (se dovuto) è proibitivo rispetto ai benefici attesi. Questo rende inefficiente la soluzione privata e giustifica la necessità di una norma sociale forte (l’etica della citazione) che il suo articolo contribuisce a rafforzare.



4.- Investimento in Capitale Sociale e Sovranità della Memoria
Il suo lavoro tocca un punto cruciale di economia politica: chi controlla e monetizza la narrazione della memoria collettiva? Il “lavoro di ricerca povero” descritto è un investimento in capitale sociale e culturale che produce un bene fondamentale per la coesione sociale: una memoria condivisa e affidabile. Consentire che questo bene venga privatizzato e rivenduto senza un riconoscimento adeguato crea una distorsione nel mercato delle idee e una perdita di sovranità sulla nostra stessa storia. La sua analisi è un potente argomento per la trasparenza come regolamentazione necessaria per correggere questa distorsione.



Conclusione da povero economista:
Il suo articolo non è solo un contributo etico o storiografico. È un contributo a un principio caro agli economisti con un’anima: l’efficienza del mercato culturale. Promuovendo trasparenza, attribuzione chiara e riconoscimento del lavoro altrui, lei propone un meccanismo per:
a) Ridurre l’asimmetria informativa tra produttori e consumatori di cultura.
b) Allineare gli incentivi, in modo che investire in ricerca originale torni ad essere premiato, anche simbolicamente.
c) Correggere l’esternalità negativa sull’ecosistema della ricerca indipendente.
d) Proteggere la diversità produttiva nel mercato delle idee, evitando il monopolio narrativo di pochi grandi attori.
In sostanza, ha scritto un articolo chiaro, accessibile e fondamentale per la salute del nostro mercato culturale.  

NON SOLO MUSICA
di Francesca Mezzadri


 
Il giorno in cui il rock fece beneficenza senza sapere come si fa.
 
Non era Natale. Ma come spesso accade con le cose importanti, tutti si comportarono come se fosse un Natale senza istruzioni. Nel 1971 il Bangladesh stava vivendo una guerra di liberazione, una carestia, le conseguenze di un ciclone devastante e l’indifferenza quasi totale del resto del pianeta. Milioni di profughi attraversavano confini che nessuno aveva voglia di guardare troppo da vicino. I giornali occidentali ne parlavano poco e male, quando ne parlavano. Ravi Shankar, che invece guardava eccome, fece una cosa molto poco rock: chiese aiuto. George Harrison ascoltò. E fece una cosa ancora meno rock: si mise al lavoro. Un’idea semplice, che infatti sembrava impossibile. L’idea era elementare, quasi ingenua: fare un concerto per raccogliere fondi e attenzione per il Bangladesh. Niente slogan complicati. Niente effetti speciali.
Solo musica, nomi importanti e una causa che non si poteva ignorare una volta pronunciata ad alta voce. Il 1° agosto 1971, al Madison Square Garden, si tennero due concerti nello stesso giorno. Perché quando sei in ritardo con la coscienza, raddoppi. Il pubblico applaude. Era presto. Molto presto. Lo spettacolo iniziò con la musica classica indiana. Ravi Shankar, Ali AkbarKhan, Alla Rakha, Kamala Chakravarty salirono sul palco con strumenti antichi e pazienza infinita. Shankar spiegò che il brano sarebbe stato breve. Il pubblico applaudì subito. Non per entusiasmo. Per educazione. E anche perché non aveva capito che la musica non era ancora iniziata. Shankar sorrise. Aveva visto di peggio. Poi arrivò il Natale rock. Dopo l’introduzione indiana, il palco cambiò faccia. E anche l’aria. Salirono: George Harrison, con la calma di chi sa di avere una responsabilità, Ringo Starr, che non si tirava mai indietro, Bob Dylan, che non saliva su un palco importante da anni e sembrava esserselo ricordato all’ultimo, Eric Clapton, Billy Preston, Leon Russell, Badfinger. Nessuno venne per soldi. Le canzoni non cambiarono il mondo, ma gli ricordarono che esisteva il Bangladesh.



I regali dopo la festa
Dal concerto uscirono: un album dal vivo (triplo LP), pubblicato nel dicembre 1971, un film documentario, distribuito nel 1972. L’album vinse il Grammy per Album dell’Anno nel 1973, probabilmente uno dei pochi premi musicali assegnati a qualcosa che aveva davvero provato a fare del bene. I fondi raccolti - biglietti, dischi, film - finirono all’UNICEF. Non subito. Non senza avvocati. Non senza problemi fiscali. Ma finirono lì. E questo, a volte, è già un lieto fine.



Il Bangladesh, finalmente in prima pagina
Prima del concerto, il Bangladesh era un posto lontano. Dopo, era un nome che la gente aveva sentito pronunciare da Bob Dylan - e questo, negli anni Settanta, contava. George Harrison pubblicò anche “Bangla Desh”, una canzone che non cercava metafore complicate: diceva le cose come stavano, cosa piuttosto rivoluzionaria per l’epoca. Il Concert for Bangladesh fu il primo grande concerto benefico del rock. Non sapeva di esserlo. Non aveva un manuale. Fece errori, inciampi, confusioni contabili. Ma aprì una porta.
Dopo di lui, nessuno poté più fingere che musica e mondo reale fossero due stanze separate. E forse è questo il vero spirito natalizio della storia: non la perfezione, non il miracolo, ma qualcuno che decide di fare qualcosa - anche senza sapere esattamente come.

LA POESIA
di Vitia D’Eva



 
 
Nefast’amoreeeee eee ee e
 
È imperscrutabile vero?
come un sentimento d’amore
possa ritorcersi contro
 
come a una carezza
o a sussurri di piacere
possano sovrapporsi dinamismi
nefasti d’inqueti urti
carichi di contraccolpi gesti
di lesiva ferocia
 
marchio d’espressione
d’appassita passione
che stride nell’acuto e brutale dolore
d’un corpo aggredito
 
atti di decadenza
che incidono sulle lenzuola
una linea nera
acuta
di liquefatto stridore
 
e non è l’acuto
d’un semplice gesto di gesso
quando lo si vuole stridere sulla
bianca lavagna. 

domenica 21 dicembre 2025

VERSO L’INVERNO
di Zaccaria Gallo


Monet
                                                                                         
Now is the Winter of our discontent”: sono le parole con cui, Riccardo III Gloucester, di William Shakespeare presenta sé stesso, all’inizio dell’omonima tragedia. “L’inverno del nostro scontento”, dunque, quello che è alle porte. È così anche per noi?  Per molti di noi? Per tutti quelli che ancora si trovano nel terrore di guerre e bombardamenti, perdita di persone care, bambini, mogli, mariti, padri e madri, fidanzati, case, averi, ricordi? È così per chi soffrirà la fame, per chi è in miseria, senza un lavoro, o è ricoverato in un ospedale, o in un ospizio per vecchi, o è nella cella di un carcere, o è semplicemente solo? Proprio per non dimenticarci di nessuno di loro, facciamo questo viaggio verso l’inverno, con nel cuore, nella mente, nell’anima, la speranza che, proprio dagli incontri che faremo, possa nascere una fiammella che unisca e ridia a tutti il senso della sacralità racchiusa in questa stagione. Ed ecco il nostro incontro. È preceduto dalle note del Lied di Wilhem Muller, musicato da Schubert nel 1827, un anno prima della morte, il “Winterreise” o “Viaggio d’inverno” (ciclo di canzoni, che racconta di un viaggiatore, o meglio del viandante, respinto da un amore, il cui percorso si trasforma in un viaggio notturno di solitudine, disperazione e introspezione, attraverso una natura invernale con nel cuore il dolore, la perdita e l’abbandono). Nel Lied, il nostro viandante incontrerà un sonatore di ghironda, il suo doppio spirituale, il suo destino. Invece noi abbiamo quest’altro incontro: viene verso di noi uno stranissimo personaggio, che molti di voi, che amate l’arte, avrete già certamente incontrato sulle pareti di un Museo).   

Arcinboldo

Un vecchio, fatto di tronchi e grovigli di rami stecchiti, disordinati, a far capelli, assieme a piccole foglie di verde edera (non coprono interamente la sua testa spoglia), e un’ispida, incolta, barba; e per bocca due funghi (di quelli che spuntano dalla corteccia degli alberi) e il collo e il torace fatto di attorcigliati tronchi, avvolti in una stuoia, da cui spunta un’arancia e un limone, entrambi protesi verso di noi. Lo riconoscete? È “l’Inverno” di Arcimboldo. Ora, a ben guardare, ci sovviene l’idea che il vecchio ci stia dicendo alcune cose, che vanno oltre il suo aspetto pauroso. Vero, farà freddo, ma, con tanta legna, puoi scaldare la casa. E poi, se osserviamo bene i due frutti, intuiamo che altre cose il vecchio vuole ricordarci. Quell’arancia nel mito greco, era il dono di nozze di Giunone e Giove e, dunque, simbolo di fertilità ed amore. E il limone? Simbolo di salvezza, purezza e fedeltà amorosa (vive infatti e cresce sotto al sole, di cui prende la luce e il vivo colore, in tutto l’anno, anche d’inverno). Gli faccio segno, proprio al limone, che ha sul davanti, con una interrogazione muta, come a chieder spiegazione del perché lui lo esibisce e lui mi guarda, lo guarda, sorride con la sua bocca spugnosa e improvvisamente mi recita, roco e grave, come vento di tramontana, i versi di Eugenio Montale (simbolo dell’oasi di una natura incontaminata, in contrapposizione all’inquietudine e all’illusione della città). 


Gagnon
 
Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. / Meglio se le gazzarre degli uccelli / si spengono inghiottite dall’azzurro:/ più chiaro si ascolta il sussurro / dei rami amici nell'aria che quasi non si muove, / e i sensi di quest’odore / che non sa staccarsi da terra / e piove in petto una dolcezza inquieta. / Qui delle divertite passioni / per miracolo tace la guerra, / qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni. / Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga / quando il giorno più languisce. / Sono i silenzi in cui si vede / in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata Divinità. / Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. / La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta / il tedio dell’inverno sulle case, / la luce si fa avara - amara l’anima. / Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità.  


Chagal

Non è, allora, davvero l’inverno, completamente, la stagione del nostro scontento. Guardando quel vecchio, che si allontana con la sua arancia e il suo limone, tanti ricordi nascono dalle letture fatte, affiorano e sono immagini quasi tutte di luce e speranza. Per gli antichi Egizi era la stagione del Peret, quella che seguiva l’inondazione del Nilo, stagione di felice attesa per il ritorno del Sole e dell’inizio del raccolto. Per gli ebrei, l’inverno è legato principalmente alle festività di Hanukkah, la festa delle luci e, nell’antica Grecia, era stagione di preparazione e cambiamenti del quotidiano. Eventi come le Dionisiache rustiche e le Elenee, offrivano una via di fuga dalla routine invernale e dalla solitudine delle dimore. Nell’antica Roma, si celebravano i Saturnali, festa di sette giorni in onore di Saturno, durante la quale venivano sciolti i legami sociali e si organizzavano banchetti e scambi di doni. Durante quei giorni si invertivano i ruoli sociali: gli schiavi erano serviti dai padroni ed era anche la festa del Sol Invictus (25 dicembre) il“compleanno del Sole Invitto”, poi passata al Natale cristiano. L’inverno, per gli Aztechi, era un periodo importante, soprattutto legato al solstizio d’inverno, in cui si celebrava la nascita del loro Dio del sole. Luce e luci, come in Danimarca o in Inghilterra, con la celebrazione del solstizio d’inverno a Stonehenge: druidi e folle osservano, all’alba, il sorgere del sole illuminare il cerchio di pietre. Un magico momento che simboleggia il rinnovamento e il ritorno della luce. Ecco mi allontano ora, più sereno, e mi accompagnano le note dell’Inverno di Vivaldi, tratto dal “Concerto per le quattro stagioni”. Se, nel primo movimento, Vivaldi descrive la lenta caduta dei fiocchi di neve e poi l’arrivo, con un rapido violino, del Dio dei venti, nel secondo movimento è evidente la presenza di un uomo felicemente vicino al calore del suo focolare, mentre osserva e ascolta il classico suono energico prodotto dalle gocce della pioggia tipicamente invernale. Con un’atmosfera estremamente dolce, trasmette un senso di grande pace, che poi si interrompe, però, alla fine, con i suoni che provengono dalla strada, dove c’è la gioia di scivolare, danzare sul ghiaccio. Sì, si cade, ma poi ci si rialza, gioiosi. Vivaldi, così descrive quel contrasto di emozioni che l’inverno può provocare: essere duro e difficile, ma la sua grande forza e bellezza termina sempre con un finale esaltante.
 

  

Privacy Policy