MANIPOLATORI
di Franco Toscani
Thomas
Mann e gli incantatori del popolo. Note su letteratura e politica.
Nel 1930,
mentre nello scritto Un appello
alla ragione cerca di mettere in guardia la borghesia tedesca dal pericolo
nazista e la invita ad appoggiare il partito socialdemocratico, Thomas Mann
pubblica la novella Mario und der
Zauberer. Ein tragisches Reiseerlebnis (Mario
e il mago. Una tragica esperienza di viaggio). Il racconto, scritto nel
1929 e pubblicato nel 1930, è il resoconto sostanzialmente fedele - salvo l’esito
letale del finale, frutto di pura invenzione - delle vacanze italiane passate
da Mann, da sua moglie Katia e dai loro due figli minori Elisabeth e Michael, a
Forte dei Marmi, in Versilia, nell’agosto-settembre 1926.
Registrando alcuni contrattempi e
disagi della vacanza, Mann menziona “il rozzo abuso di forza, ingiustizia,
corruzione strisciante”, avverte umori sgradevoli e indefinibili, nota un certo
clima pesante e oscuro gravante sulla vacanza. È un’atmosfera strana, tesa,
sgradevole, malsana e opprimente. Nemmeno il sole splendente e la morbida
spiaggia sono sufficienti a rasserenare lo scrittore; anzi, essi lasciano
inappagati “i bisogni profondi, meno elementari dell’anima nordica”, circondata
com’è “senza scampo da mediocrità umana e da marmaglia borghese”.
È infatti l’elemento
umano e politico qui in questione, uomini e donne che ostentano dignità,
coltivano un forte sentimento del proprio onore e del proprio ego, manifestano
in ogni ambito della vita gravità e altezzosità: “Perché mai? Presto capimmo
trattarsi di politica, essere in gioco l’idea di nazione. E in realtà la
spiaggia brulicava di bimbi patrioti, fenomeno innaturale e avvilente”. Siamo
negli anni dell’Italia fascista, dove abbondano il braccio e la mano tesi nel
saluto romano; anche in spiaggia si odono discorsi sulla grandezza e dignità
della Nazione, sulla “patria risorta”, sull’esigenza di saper di volta in volta
ubbidire e comandare, come avviene tra popolo e duce. Nel racconto di Mann si
palesano con evidenza tutto l’orrore, la stupidità, il conformismo, la violenza
verbale gratuita - sempre pronta a sfociare in violenza fisica - del
nazionalismo fascista.
Verso la fine della vacanza, fa
la sua comparsa “l'orrendo Cipolla”, “il funesto Cipolla”, nome il cui modello
dal vero per Mann fu il mago Cesare Gabrielli (1881-1943), famoso ai suoi tempi
per l’abilità negli esperimenti ipnotici.

Thomas Mann

Nel racconto, il cavalier
Cipolla-Gabrielli si qualifica come “forzatore, illusionista e prestidigitatore”;
lo scrittore lo definisce “un virtuoso ambulante, un artista del divertimento”;
nella realtà, durante i suoi spettacoli, Gabrielli chiamava ad esempio sul
palcoscenico alcuni spettatori e li ipnotizzava dicendo loro di guardarlo,
facendosi passare per una bella donna pronta a spogliarsi.
Il cavalier Cipolla del racconto
è dunque un prestigiatore che tiene il suo spettacolo, a cui assistono anche i
coniugi Mann, coi loro due figli minori, particolarmente incuriositi ed
eccitati. Deforme, con uno scudiscio in mano, Cipolla-Gabrielli si presenta al
pubblico in frac, con rigida serietà e con aria di superiorità, senza nulla di
scherzoso, umoristico e clownesco, dandosi importanza, mostrandosi con orgoglio
severo e arroganza, molto sicuro di sé, evidentemente a imitazione del suo
duce. Egli è abile nel suggestionare i suoi succubi e nel leggere nel pensiero
degli spettatori.
Gran simulatore, anche quando interloquisce col pubblico e fa
complimenti, Cipolla è pieno di sé, mostra sempre un atteggiamento di
superiorità, dall’alto in basso, ironico, sarcastico e degradante nei confronti
degli altri, andando sul sicuro con le sue battute ispirate al patriottismo e
all’orgoglio nazionalistico. Così, pur non risultando simpatico e, anzi,
suscitando qualche ostilità e perplessità, l’inflessibile sicurezza esibita
produceva impressione, anche grazie allo scudiscio che portava con sé, avente
il manico a foggia di artiglio.
Nel finale del racconto, risalta
il Cipolla non solo prestigiatore, ma soprattutto incantatore, seduttore e
ipnotizzatore, dedito tenacemente a esperimenti di imposizione e privazione
della volontà. Il pubblico era in balìa della sua personalità estremamente
sicura di sé, rinforzata dai numerosi bicchierini di cognac che beveva durante
lo spettacolo.
Cipolla manipolava abilmente le
persone e le privava dell’autodeterminazione, della libera volontà, ma l’esito
letale (la morte del mago per mano di Mario), palesemente inventato dall’autore
rispetto allo svolgimento reale dei fatti accaduti durante la vacanza, appare a
Mann un finale di terrore, catastrofico e, nel contempo, liberatorio. È la
liberazione dalla tirannia dell’incantatore e seduttore, del manipolatore e
dominatore, dell’illusionista che gode nel sottomettere la volontà altrui alla
propria.
In che cosa consiste allora il
fascino di Mario e il mago? Forse -
oltre che nella straordinaria abilità narrativa dell’autore, ça va sans dire - anche nella eccezionale
capacità di introdurre, partendo da un semplice resoconto (per quanto
arricchito e reinventato) di una vacanza estiva italiana, un’atmosfera
intrigante di suggestione e di premonizione.
Prendendo spunto da un piccolo
fatto privato, Mann ci rende partecipi della tragicità di tutta un’epoca e un
periodo storico (quello cupo e oscuro dell’ascesa dei fascismi e dell’incubazione
della Seconda guerra mondiale), restituendoci lo spessore delle esperienze e
vite individuali intessute e inserite nel grande, tragico palcoscenico della
storia umana e di ciò che Hegel chiamò lo “spirito oggettivo”. I dittatori e
gli incantatori delle masse fanno ovunque disastri e sta allora ai popoli
cercare di sottrarsi alla manipolazione e al dominio cui sono costantemente
sottoposti.





