ULIVI E LIBERTÀ
di Giuseppe Cinà
Hanno paura degli ulivi
Questa
foto, scattata a Susya in Cisgiordania alcune settimane fa da Elena Castellani,
attivista di Assopace Palestina, si presta ad alcune considerazioni.
Essa appare come un ritratto composto
da due ritratti sovrapposti, quello di due uomini della Settlers Security (che
potrebbero essere militari, coloni o mercenari) in servizio di vigilanza e quello
di un paesaggio che rappresenta il territorio oggetto della loro attenzione. I due
uomini sono armati fino ai denti, esprimono forza e potenza, ma sono lungi dal
somigliare ai due bronzi di Riace, non sprizzano certezze. Ambedue guardano di
lato, ciascuno sorvegliando le spalle dell’altro, forse hanno visto il
fotografo e non vogliono essere fotografati, oppure non sanno di essere
fotografati e stanno semplicemente facendo il loro lavoro: assicurarsi che
nessun pericolo si annidi nel territorio affidato. Ma quale territorio? Quello
del secondo ritratto, il desolato paesaggio che comprende 1) il poggio su cui
si ergono i nostri eroi, coperto da terriccio compattato presumibilmente per la
sistemazione di un’area di sosta e avvistamento, in prossimità di un’area
appena occupata dai coloni, con due dimesse costruzioni subito sotto, ultima
propaggine di un abitato palestinese che su quel poggio si concludeva; 2) la
arida piana che appare non essere più coltivata; 3) gli spelacchiati resti
della macchia in una timpa denudata probabilmente per il pascolo intensivo.
Questa timpa è attraversata da un ampio e serpeggiante stradone a cavalcapoggio
con connesse stradelle poderali ma le case sparse che dovettero abitarla non ci
sono più. L’area risulta dunque ‘bonificata’. Dei pericoli connessi a un
territorio che potrebbe ospitare terroristi sotto ogni pianta di lentisco non
c’è più l’ombra.

Chi pianta un ulivo salva la vita
Noi non vediamo i volti dei due uomini,
peraltro nascosti da un cappuccio a maschera, e dunque non sappiamo se loro, non
potendo ignorare che sotto i loro occhi si muovono ormai solo lucertole e poco
altro, siano per questo rilassati. Sono in servizio chissà da quando e potrebbero
essere stremati, annoiati e pensare solo all’ora di fine servizio. O potrebbero
essere ben reattivi e nutrire un vivo sentimento per quello che vedono. Uno di
loro potrebbe guardare a quelle smunte colline come a un sito ideale per
costruirvi un ennesimo insediamento illegale di coloni, già alla sua nascita
ripulito da ogni scoria di sapore palestinese e in grado di far diventare quel
luogo un rigoglioso giardino mediterraneo; potrebbe pensare dai, siamo a buon
punto, facciamola finita. L’altro, ci
auguriamo, potrebbe invece pensare di sentirsi prigioniero del fucile che
imbraccia, pensare che mai avrebbe voluto partecipare a questa guerra, pensare
che difficilmente il suo paese potrà riportare a una vita normale quel deserto
che ha sotto gli occhi e quell’inferno che ha visto quando ha servito
all’interno delle città bombardate; potrebbe pensare che Israele è in guerra da
settantasette anni, che a ogni stagione di crisi ne esce rafforzato con
l’annessione di nuovi territori, ma che alla fine resta sempre allo stesso
punto. I due sono immobili e forse,
svuotati dalle tensioni cui sono continuamente sottoposti, si sono abbandonati
per alcuni minuti al lusso di non pensare a niente. Sono immobili, guardano
lontano per tenere tutto sotto controllo entro il loro sguardo, ma non vedono quello
che hanno accanto a sé che poi è, per dirla con Roland Barthes, il punctum
della foto. Un ulivo, un piccolo innocuo ulivo di due-tre anni, piantato sul
limitare del poggio. È una pianta che sembra comprata
da un vivaio, innestata con modalità standard su un porta-innesti selvatico, piantata
su una terra pietrosa che sembra aver sofferto poco l’aridità, se no non
avrebbe tanti rametti, ma che appare da poco abbandonata. Risulta infatti non
potata nella parte alta della branca principale, che avrebbe dovuto essere
cimata nello scorso inverno per consentire alla pianta di accrescersi anche in
larghezza. Perché sarebbe stata abbandonata, se l’uomo che l’ha piantata lo avrà
fatto con grande amore pur nelle condizioni più drammatiche, nell’incertezza
totale del futuro? Non lo sappiamo, sappiamo solo che l’ulivo sta lì, anche se
i palestinesi giorno dopo giorno ne sono allontanati. Sta lì in Palestina da
6000 anni o più, a sentire la Bibbia ben prima che essa fosse abitata dagli
ebrei (Deuteronomio 6,11: «abiterai presso vigneti ed oliveti che non hai
piantato»; e Giosuè 24,13: «vi ho concesso un paese che non avete coltivato,
eppure mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti che non avete piantato») e
da allora non se ne è andato più, propagandosi anche per tutto il bacino
Mediterraneo. È stato e rimane lì non solo
nella sostanza biologica, nella doppia forma di Olea europaea sativa
(coltivata) e sylvestris (selvatica), ma anche a testimonianza dei
significati che esso ha assunto sotto molteplici profili culturali presso tutti
i popoli mediterranei dall’antichità ai tempi nostri. E, caso notevole, dal
Mediterraneo si è propagato nel resto del mondo nonostante la progressiva
laicizzazione delle società occidentali ne abbia di molto disconosciuto le valenze
culturali. Tutte tranne una: quella alimentare che anzi, marginale fin
dall’antichità, è cresciuta esponenzialmente solo dal XIX secolo a oggi
riaccendendo il nostro interesse nei suoi riguardi. Ma in Palestina, anche a motivo della
sua particolare vicenda storica, le tradizionali valenze culturali dell’ulivo
sono per molti aspetti sopravvissute ed esso rimane esposto al cielo come la
bandiera nazionale, simbolo del radicamento dei palestinesi alla propria terra
e della loro straordinaria capacità di resistenza. Anche per questo i
palestinesi non smettono mai di piantarne e per i coloni che vogliono scacciarli
dalla loro terra estirpare un ulivo equivale ad abbattere un indomabile
combattente, distruggere un uliveto equivale a disperdere la popolazione di un
intero villaggio.




