LO SGUARDO CORTO
DEL POTERE
di Fulvio Papi
Da quello che
si riesce a capire da parte di chi non è uno specialista di analisi economiche
pare (nel senso di apparire) che l’economia che domina l’Occidente, cioè quella
americana, passato il peggio della bufera, ricominci ancora dal punto in cui
era cominciata la famosa “crisi”. Le cause per l’intelligenza critica erano ben
note, anche se devo riconoscere che i libri dei grandi economisti americani che
ho letto terminavano sempre con una terapia di natura etico-politica che
concludeva degnamente il lavoro, ma apriva in una direzione antropologica che
era fuori controllo rispetto ai poteri materiali che, senza essere profeti, si
poteva immaginare avrebbero cercato, e anche facilmente, di riprodurre se
stessi. A questo proposito avverrà probabilmente che i più sosterranno che
questo modo di produzione, con tutti i suoi aspetti, finanziari, tecnologici,
di mercato, ecc, appartengono a una inevitabile natura non proprio come tra
Settecento e Ottocento, perché storica.
E altri esperti, probabilmente i meno ricchi, riprenderanno, aggiornate,
le loro analisi critiche. Da un punto molto generale, tenuti presenti gli studi
dei competenti, si può forse dire che le prossime limitate catastrofi potranno
essere medicate facendo pagare i costi a chi càpita càpita, tra le chiacchiere,
spesso volonterose, e per questo non prive di dignità, di chi, in un paese
marginale come il nostro, ormai alle prese con una sua storia disastrosa,
dominata da intraprese errate e da criminalità diffuse, desidera mostrare che
la vita migliorerà. Per quello che resta della nostra vita potremmo procedere
in questa commedia che la televisione mostra come realtà, e Internet fa
risuonare di opinioni che derivano da più che comprensibili lamenti, ma sono
anche utopiche, sconsiderate, paranoiche, quando non addirittura promosse da
animi meschini, menti povere e linguaggi volgari. Tutto questo può durare a
lungo, e addirittura formare un costume. Ma quando, a causa del riscaldamento
dell’atmosfera, l’acqua invaderà inevitabilmente terre abitate, e vi saranno un
miliardo e trecento milioni di profughi?
Per fare una
previsione anche modestissima, bisognerebbe avere una mappa geografica di
questa catastrofe per capire l’insieme di effetti che verranno provocati.
Tuttora temo che esse esistano negli studi degli scienziati specializzati, ma
non sulle scrivanie dei “potenti” del mondo che, in una prospettiva del genere,
mostrano una potenza molto limitata o, addirittura teatrale. Che libri leggono
questi personaggi importanti, quali riviste, quali relazioni, a chi danno
ascolto?
L’impressione è che, per lo più, siano autogeni, creano
il proprio mondo vedendolo riflesso sui
mezzi di comunicazione dove la prospettiva temporale è quella del giorno dopo e
poi dell’oblio, e quindi di un nuovo inizio. Il tempo del resto non è un ente,
appartiene al modi di pensare e al modo di essere. E quindi può essere adattato
facilmente a una solitudine che, per il luogo dove è, e per come è in quel
luogo, si può considerare autosufficiente e un poco divina.
Faccio solo un caso di vicende che credo di conoscere
dalla riforma Gentile in poi in un modo raro tra i “dirigenti” di adesso, e
cioè la questione universitaria. Non sto a discutere vent’anni di errori dovuti
a culture fuori luogo, a incompetenze clamorose, a programmi in realtà
destinati a distruggere l’Università pubblica per favorire enti privati, ecc.
ecc. Mi limito a notare che tempo fa un filosofo italiano, forse il più
illustre, scrisse che le misure relative alla selezione del personale
universitario erano “demenziali”. Ora penso che se qualcuno dicesse dei miei
scritti che sono poco perspicaci, incompleti, deludenti, mi terrei la critica e
ci penserei. Ma se leggessi che sono “demenziali” sarei costretto almeno a
difendere il mio stato di natura mentale. Invece il Palazzo, comunque
frequentato, tace sempre.
E allora è
solitaria presunzione del potere secondo cui tu leggi, studi, scrivi,
pubblichi, ma resti come la natura in Plotino “prope nihil”, oppure si può dire volgarmente, ma non mi va, in un
dialetto della penisola.