Linguistica: anima del terzo millennio
di Paolo Maria Di
Stefano
C’era un volta il diario scolastico. Era la maggior fonte di
conoscenza, il massimo forziere di quelle pillole di saggezza le quali, checché
se ne dica, tanta parte avevano nella formazione culturale delle giovani
generazioni. E costituivano anche una riserva non trascurabile di “citazioni
citabili” nelle conversazioni salottiere.
Talvolta costituivano spunti di
ricerche ed approfondimenti; sempre, informavano.
Magari in modo indiretto, ma
informavano.
E’certo che nessuno dei diari
scolastici dell’anno appena iniziato ha riportato quel“da professoressa do sei meno all’inglese
di Renzi” che il ministro della Pubblica Istruzione ha pensato bene di
affermare e che La Repubblica ha diligentemente citato il 19 settembre a pagina
8, nel “breviario” di Gianluca Luzi: non hanno fatto in tempo. Per il 19
settembre, i diari dovevano essere stati non solo già stampati e distribuiti
alle librerie, ma anche acquistati.
Peccato.
Gli studenti -e non solo- avrebbero
potuto iniziare ad avere la prova provata che veramente la scuola è una delle
priorità assolute del Governo e, ovviamente, del Ministro alla Pubblica
Istruzione. E, con essa, la conferma che l’innovazione e la creatività -non disgiunte
da una professionalità esemplare- sono vive e vitali in una Politica che,
finalmente, si ammanta di modestia e discrezione.
La strategia del Ministro è
esemplare. Questa:
I Sacri testi affermano che
1. è buona norma partire da una definizione chiara, condivisibile e
possibilmente condivisa della materia di cui si tratta; che
2. ogni affermazione, soprattutto se innovativa, va esposta
morbidamente, in modo quasi casuale; che
3. è bene aver chiari i punti di forza e di debolezza di ciò che si
vuole dire perché sia accettato e condiviso.
Sono le basi indispensabili
perché il detto dei sacri testi si concreti in sacri principi di comunicazione
che abbiano buone probabilità di raggiungere il destinatario, essere compresi,
e dunque essere condivisi.
Chi meglio di un maestro della
comunicazione può conoscere ed applicare le regole appena sintetizzate? Non
solo, naturalmente, ma almeno queste.
Ed ecco, allora, il Ministro
della Pubblica Istruzione lanciarsi in una sintesi estrema e apparentemente
innocua di quella che resterà nella storia come espressione massima della
creatività e della innovazione della Politica nel mondo della Cultura. (notate
le maiuscole?)
“Da professoressa” esordisce il Ministro. E qui subito una serie di
problemi, sorti anche per la confusione che pare regnare in Italia sulla
qualifica di “professore”, che non è, come molti (troppi) sono portati a
credere in automatico spettante a chi insegna per il solo fatto di insegnare. Sembra
che da noi il titolo spetti di diritto soltanto ai docenti universitari e, se
non vado errato, soltanto ai titolari di cattedra e agli associati.
Più o meno.
Ora, sia pure limitato ai docenti
universitari titolari di cattedra (ordinari) e agli associati, di quale
disciplina occorre essere cultori e insegnanti per potere esprimere giudizi
sulla qualità in senso lato della conoscenza di una lingua e dell’eloquio che
ne consegue?
Domanda di non poco conto, per
rispondere alla quale bisogna forse ricordare che la Ministra è docente
ordinaria di linguistica presso una Università piccola e ormai screditata
quanto si vuole, ma pur sempre Università.
E se un docente di
linguistica sottolinea che “da
professoressa” assegna un voto alla conoscenza di una lingua (nello specifico,
dell’inglese) , si può immaginare che il riferimento sia la linguistica,
appunto. Il che risponde almeno in parte alla domanda. Così: un docente di
linguistica è in grado di valutare la conoscenza di una lingua da parte di chi
ne fa uso.
Con un risvolto immediato,
seppure di rilevanza non assoluta: di quale lingua e di quante? Pare che nel mondo si parlino tra le seimila e
la settemila lingue. Tra queste, in testa ad una possibile classifica dovrebbe
essere il Cinese (un miliardo e duecentotredici milioni di persone) seguito a
distanza dallo Spagnolo e dall’Inglese (circa trecento trenta milioni di
persone per ciascuna), dall’Arabo con circa duecentotrentamilioni di persone),
dall’Hindi e dal Portoghese con più o meno centoottanta milioni di persone, e
via dicendo. Pare che l’italiano sia al diciannovesimo posto, con circa
sessantadue milioni di utilizzatori. Non ho trovato cenni degni di nota per le
lingue morte (latino e greco in testa, almeno per noi) e neppure alla presenza
o meno tra le sei- settemila di quelle lingue che noi chiamiamo dialetti. Ma
forse non è importante più che tanto.
Ma forse lo è il sapere di quali
lingue e di quante di esse un linguista è in grado di valutare la conoscenza da
parte di chi le parla. Voglio dire: se il Presidente del Consiglio si fosse
espresso – magari a puro titolo di cortesia- in arabo o in Hindi, “da
professoressa” il Ministro sarebbe stato in grado di esprimere una valutazione?
Non ho una risposta, ma un dubbio
sì.
E me lo tengo.
Quidam de populo potrebbe forse ignorare cosa la linguistica sia.
Ed è probabile che quel qualcuno si lanci come un sol uomo sul vocabolario
della lingua italiana e legga: Linguistica: “ Lo studio delle lingue nella loro storia, nelle loro strutture e nei
loro rapporti con la storia della cultura e le classi sociali” (Devoto –
Oli, Dizionario della lingua italiana). Tanto per la cronaca: subito sopra c’è
la definizione di Linguista quale “cultore
di studi linguistici” e, subito sotto, di linguistico come “attinente al fenomeno della lingua,
specialmente come oggetto di indagine o classificazione”.
Dal canto suo, il nuovo
Zingarelli definisce la linguistica come “studio
scientifico e sistematico del linguaggio e delle lingue naturali”.
Che è bello ed istruttivo.
Ma che, soprattutto, non
giustifica più che tanto quel “da professoressa do sei meno all’inglese di
Renzi”.
Allora, occorreva dare della
linguistica una definizione diversa da quella canonica, chiaramente
insufficiente, e dichiarare a voce spiegata che la linguistica è la disciplina
che consente di parlare alla perfezione tutte le lingue e dunque anche di
esprimere giudizi sul loro uso da parte dei “non nativi” sarebbe stato non
soltanto non diplomatico, ma forse addirittura offensivo, e avrebbe certamente
provocato reazioni. Ecco, allora, il percorrere una via sufficientemente morbida
per stimolare la curiosità di coloro che in qualche modo hanno interesse
all’approfondimento delle cose. E solo chi è spinto all’approfondimento può
proiettare la propria mente al di là dei confini delle convenzioni, e quindi
non giungere con approssimazione frettolosa alla conclusione che il Ministro,
nell’altra vita, insegna inglese.
E con la diplomatica cortesia e
discrezione che le sono proprie, - anche in modo di poter negare di aver mai
fatta affermazione simile, che è modo proprio della politica e dei politici -,
la ministra lascia intendere che la linguistica è una disciplina che consente
di conoscere a fondo qualsiasi lingua e dunque anche di valutarne il grado di
conoscenza da parte di chi la usa. E senza parere, porta alla ribalta una nuova
e più moderna definizione della linguistica come “strumento di conoscenza di tutte le lingue naturali e di giudizio
della sintassi, della grammatica, della costruzione e della pronunzia e dunque
dell’uso di ciascuna di esse”.
Data la definizione, se ne dovrebbero trarre conclusioni. Una delle
quali sembrerebbe essere questa: la Ministra ha parlato “ in qualità di
professoressa”. Lo ha detto in modo inequivocabile.
Ma certamente la Ministra non
intendeva dire che l’essere “professore” abilita a parlare ogni idioma: farlo è
appannaggio della linguistica, la materia che Ella insegna (o che dovrebbe
insegnare) e che la pone nell’Empireo dei docenti. Dunque, io che sono
abilitato all’insegnamento di materie giuridiche ed economiche (compresa la
statistica) e che ho insegnato marketing in corsi aziendali, in corsi di
perfezionamento e in più di una Università, non per questo sono in grado di
valutare la conoscenza dell’inglese da parte di chicchessia. E infatti non lo
sono.
Lo sarei solo se fossi linguista.
E forse, se disponessi anche
della cadenza propria della periferia della Toscana, simpatica, bella e forse
anche colta Regione, ammalata però di “toscanite acuta”, tara ereditaria che
affligge troppi toscani e che appartiene alla numerosa famiglia dell’autoreferenzialità,
patologia tipica dei docenti universitari e dei politici, non senza invasioni
in settori diversi, segnatamente
nell’imprenditoria e nella managerialità italiche.
Dicevo: insegnante di linguistica
e d’accento toscano, cose che appartengono alla Ministra e ad un ristrettissimo
numero di eletti, e che, per quel poco che ne so, la Ministra conserva
orgogliosamente anche quando si esibisce nell’inglese.
Che ovviamente intride della
propria straripante personalità.
Naturalmente, la nuova definizione
di linguistica consentirebbe conclusioni ulteriori, quelle dalle quali un
qualsiasi politico italiano è solito astenersi, poiché il solo trarre
conclusioni logiche sarebbe negazione
della politica. Un politico non può, non deve, servirsi della logica che, come
ognun sa, alla Politica ed alle politiche è estranea. Almeno, fino alla
formulazione di enunciazioni condivise e dunque accettate dalla maggioranza dei
votanti alle consultazioni di riferimento. E non è detto che logica e
accettazione e condivisione abbiano legami nella e con la Politica.
Se la linguistica è quella
adombrata dalla Ministra, a che serve predisporre insegnamenti e cattedre
dedicati ad ogni specifica lingua (con impegno non trascurabile di risorse
finanziarie e umane) quando basterebbe
sostenere e superare l’esame di
linguistica per discettare su e con ciascuna e su e con tutte?
Laggiù, lontano lontano, ai bordi
dell’orizzonte, si delinea la cancellazione degli insegnamenti di tutte le
lingue, con un notevole risparmio di tempo e di danaro. E si noti bene: di
tutte le lingue in assoluto, e dunque anche della lingua italiana.
Ma pensate al risparmio che si
potrebbe realizzare?
In una futura università che
formi insegnanti di lingua, basterebbero i corsi di linguistica per essere in grado di insegnare lingue morte e
lingue vive e di valutarne la conoscenza da parte di docenti e discenti; i
corsi potrebbero essere di linguistica generale con le specializzazioni in
tutte le lingue e i dialetti parlati al mondo a seconda della richiesta e delle
opportunità. Con, in più, il vantaggio di una materia -la linguistica, appunto-
che sarebbe approfondita costantemente nel corso di tutti gli anni di studio.
E, volendo, oltre.
Con un vantaggio ulteriore: la
linguistica diverrebbe il collante tra i diversi paesi e le diverse regioni del
mondo.
E un mondo linguista non può che
essere unito.
Una cosa, per la verità, con
qualche altra di scarsa importanza, mi stupisce: che la Ministra, pronta come è
sempre stata a cogliere ogni opportunità, nel corso della sua intensa azione di
rinnovamento della scuola non abbia speso una sola parola in favore
dell’insegnamento della linguistica fin dalle primarie. Ma forse lo ha ritenuto
ovvio.
E ancora un vantaggio, al quale è
bene fare un cenno: l’aver superato gli esami di linguistica ai diversi livelli
renderebbe immediatamente abilitante il titolo conseguito alla fine degli studi
universitari. E dunque, ancora un risparmio: quello derivante dalla abolizione
di ogni e qualsiasi concorso a cattedra. Anche perché le valutazioni conseguite
nel corso degli studi riuscirebbero a tracciare una graduatoria di merito
assolutamente affidabile.
Soprattutto se fosse
correttamente valutata la cadenza toscana.