Trattato sulla imbecillità: abbozzo di una
scaletta.
di Paolo Maria Di
Stefano
Sillogismo: premessa maggiore, sia a Napoli che a Genova si è avuta
la prova che l’uomo è intriso di imbecillità; premessa minore, Napoli e Genova
sono unite dal mare; conclusione: dunque, il mare è veicolo di imbecillità. Corollario:
aboliamo il mare.
Nonostante le dimensioni, a
Genova quantitativamente maggiori che a Napoli, la dimostrazione dell’imbecillità
di noi uomini è scoppiata nella capitale della Campania con virulenza e gravità
a mio parere senza paragoni, quanto a gravità, con quanto non si sia
riscontrato in quella della Liguria.
A Napoli. Un ragazzino è stato
“punito” perché troppo grasso da tre uomini che hanno tentato di gonfiarlo
ancora utilizzando un compressore. Gesto idiota e criminale, forse più idiota
che criminale, commesso da criminali idioti.
Che non ostante tutto non è la
cosa peggiore.
Un intero popolo di antica e
colta civiltà – quello napoletano – è stato insultato dai parenti dell’idiota i
quali lo giustificano con convinzione: ha scherzato. E, secondo loro, non c’è
nessuna legge che punisca uno scherzo, per quanto idiota esso sia, e uno
scherzo non può essere qualificato come un tentativo di omicidio. Così dicono,
loro, i parenti degli imbecilli. I quali parenti, forse, dovrebbero essere
incriminati per questo tipo di atteggiamento. E puniti.
Ripeto: un’intera popolazione,
quella napoletana, vede la propria immagine, già compromessa dalla diffusa
tendenza a far corpo unico quando si tratti di difendere teppistelli da
strapazzo (e non solo) dall’intervento delle forze dell’ordine, peggiorare alla
grande. Perché non si ribella? Che si
sia veramente perso il senso dell’umanità, dell’etica, e delle responsabilità
degli educatori?
A Genova. Quattro torrenti si
sono accordati per rivendicare il diritto a scorrere liberamente verso quel
mare che li aspetta da sempre e che da sempre sopporta lo scarico di tutto ciò
che le acque trascinano, quasi a premiare lo sforzo di superare le costrizioni
di argini non naturali e le privazioni d’aria e di luce che l’interramento
comporta.
Qualcuno sostiene che la natura
non pensa, e quindi non è in grado di apprezzare la libertà. E tanto meno di
concordare azioni coerenti con la sua affermazione.
Sarà anche vero, ma è certo che
la natura offesa e imprigionata presto o tardi si libera e si vendica.
E per farlo sceglie l’occasione
propizia e usa tutta la forza di cui è capace.
La storia, e la cronaca – che
della storia è un seme – lo hanno ampiamente dimostrato.
Così confermando, qualora ce ne
fosse bisogno, oltre un egoismo degli uomini che non ha confini, l’incapacità
di apprendimento e i processi assolutamente illogici di troppi dei nostri
ragionamenti, portati ad affermazioni di principio –in genere indimostrate- ed
alla ricerca di colpevoli “altri da noi”. E non è forse vero che, almeno nell’accezione
comune, imbecille è chi non è capace di ragionamenti logici?
Così, quella astrazione chiamata
burocrazia è caricata di responsabilità che, invece, sono in capo a ciascuno ed
a tutti noi. A cominciare proprio dalla burocrazia stessa in quanto “organizzazione
di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo
criteri di razionalità, imparzialità e impersonalità”, divenuta “sinonimo di
corruttela, arbitrio, intrallazzo, cospirazione, financo omicidio: ben lontani
dunque dall’idealizzazione impersonale di rettitudine elaborata molti secoli
più tardi”. Così, Wikipedia alla voce burocrazia, anche citando Tacito che, nei
suoi Annales, parla dei proto-burocrati Pallante, Narciso e Callisto, i liberti
cui l’imperatore Claudio aveva affidato i diversi uffici, come di persone che
“esercitavano poteri regali con animo di schiavi”.
Il bello è che non sembra esserci
alcun bisogno di scomodare l’antica Roma, patria del nostro diritto e della
nostra cultura e civiltà, cose peraltro tutte ormai passate al dimenticatoio:
basta ricordare che “la burocrazia” impersona l’organizzazione dello Stato ed è
“disegnata” in ogni suo aspetto dalle leggi che sono il frutto dell’attività
illuminata, professionale e finalizzata del nostro Parlamento.
Che significa: se la burocrazia
riesce a mettere in cima agli obbiettivi la propria sopravvivenza e la
sicurezza dei propri organi, è perché le leggi che la strutturano e la
governano hanno più di una pecca. Ed è quindi quanto meno improbabile che si
riesca a correggere i guasti provocati (anche) dalla burocrazia senza mettere
mano alla sua struttura, alle sue competenze, alle sue garanzie.
Che significa mettere mano alla
(ri) organizzazione dello Stato. Che non è, la riorganizzazione, un problema di
interventi spot più o meno coerenti: occorre ridisegnare la persona “Stato”,
costruire un modello al quale ispirarsi per la gestione di tutti gli scambi di
cui lo Stato è soggetto attivo e dunque per le attività legislative, quelle
giudiziarie e quelle “economiche”.
E, naturalmente, occorre
“ridisegnare” il progetto formativo e culturale, perché soltanto in forza del
“sentire” di ogni individuo, e della cultura di ciascuno di noi, si può sperare
che il legislatore sia in grado di produrre buone leggi, che l’interpretazione
delle quali sia univoca e certa; che la prevalenza dei comportamenti sia
vestito di etica e di senso della comunità.
E via di seguito, quasi
all’infinito.
Quanto all’oggi – che, si dice,
non può attendere più che tanto – che fare?
E’ certa l’esistenza di problemi
che vanno risolti nell’immediato, e i due che sono stati occasione di questa
nota sono tra questi.
Bene: occorre, forse coraggio e
freddezza.
Per i fatti di Napoli (ma,
attenzione: non è la sola città in cui accadono cose simili o assimilabili a
questa) intanto da un lato i giudici devono applicare le leggi che esistono per
punire in modo esemplare sia gli autori materiali dello “scherzo” sia i loro
sostenitori. A mio parere, “le leggi son ed anche è chi pon mano ad esse” (o
almeno dovrebbe farlo): si tratta forse solo di renderle più chiare e certe e
di rapida applicazione.
Per i fatti di Genova… Io non
credo che si possa intervenire validamente se non abbattendo tutte le barriere
che, dalla sorgente alla foce, impediscono “la naturale libertà di flusso”.
Che, tanto per essere chiari,
significa anche, se necessario, ridisegnare la città, almeno nelle parti più a
rischio. E provvedere all’eventuale trasferimento in altre aree e in diversa
abitazione, che si spera siano migliori di quelle attuali, le persone
danneggiate dalle alluvioni.