“Odissea” darà
indicazioni appena possibile sui funerali e il ricordo funebre che Paola e
Loredana stanno organizzando, mentre il nostro giornale ospiterà ricordi e
testimonianze di vari amici poeti a cui li abbiamo sollecitati, man mano che ci
giungeranno.
fa le isole finte, e sprofonda.
(Questa poesia scelta da Loredana Bocchio che con Gilberto
ha condiviso un lungo tratto di vita standogli vicino fino alla fine, è tratta
dall’ultimo splendido libro di Finzi “Diario
del giorno prima”, Nomos Edizioni)
di un poeta vecchio e senza voce.
a dire nell’infelice mondo che ci circonda.
che non dà più luce.
di vittoria.
per la bellissima recensione al mio Diario. Tanto più che un
libro così, di editore esordiente o quasi, di note critiche ne ha avute poche
(5 o
6) anche se di spessore e inventive come quella di Zaccuri su “Avvenire”.
Anche per questo tengo cara la tua ampia nota, e le citazioni ivi contenute.
Non so che altro dirti: posso solo autocitarmi. Con tutto quel che accade nella
schifosa vecchiaia e purtroppo nella nostra miserevole politica userò un
distico finale di una poesia ironica cha amo:
“Comprerò coi mocassini / Manitù dai
pellerossa”.
*
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Corriere della Sera 27 dicembre 2014 pagina della Cultura, testo di Franco Manzoni |
*
NEL SEGNO PROFONDO DI UN’AMICIZIA
Anita Sanesi è stata
sicuramente la persona che negli ultimi anni, per lo meno a partire dalla
scomparsa del marito, il poeta, critico e traduttore Roberto Sanesi, è stata
più vicina a Gilberto Finzi. Finzi aveva per Anita affetto e stima e ne era
ricambiato. La casa con giardino di via Machiavelli al numero 10, fra le poche
case aperte di questa città sempre più affettuosamente avara, è stata sempre
aperta a Gilberto, Loredana e ai loro comuni amici, ed era l’unico luogo dove
il poeta mantovano andava volentieri. Una casa piena di disegni di Roberto, dei
suoi tanti libri, delle sue impronte, dei quadri e sculture di amici artisti,
accumulati nei lunghi anni del suo lavoro di critico, e che a noi che
continuiamo a frequentarla ci pare pregna e carica dello spirito del suo proprietario,
a Finzi doveva apparire molto di più di un luogo familiare. La lunga
frequentazione dei due poeti, come segnala Anita in questo emozionante ricordo
che ha voluto dedicare a tutti noi; la condivisione di uno stile; la comune
passione per la poesia e per la scrittura; la comunanza di vedute sul piano del
rigore etico-civile, le tante serate piene di conversazioni e di progetti,
hanno nel tempo sedimentata un’amicizia profonda che si è anche tramutata in una
sincera fedeltà alla memoria. Di questa fedeltà di Finzi verso lo scomparso
amico Sanesi, abbiamo avuto diretta testimonianza, e ora che anche Finzi se n’è
andato da questa vita, Anita gli restituisce pubblicamente, con questo ricordo,
il segno vero di quell’antica amicizia. (A.G.)
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Gilberto Finzi fotografato da Dino Ignani |
Il tempo scivola
grazioso sulle nostre spalle. Gilberto lo ha accolto con sottile
"bonario" sarcasmo… I due
amici erano lì, insieme. Belli, giovani, inquieti pensosi,
fantasiosi e insofferenti dei formalismi borghesi,
dell'astiosa compiaciuta ignoranza dei potenti, delle inarrestabili ingiustizie
sociali...
In quel tempo di allora,
quando l'anarchico Pinelli veniva suicidato. Riunioni serali, davanti a un
risotto di Anna, in contemplazione di una grande utopia morale che, com'è nelle cose della
vita, non si è mai avverata.
Un combattente infastidito del combattimento, a cui però con ferma
ostinazione non rinunciava.
Un serio infaticabile studioso infastidito dagli
ignoranti ai quali rispondeva con pungente destrezza verbale. Ironicamente insofferente
dei rimandi, dei dinieghi, del
come se, non
saprei, forse, chissà, vedremo, è difficile, non si capisce… Eppure.
Uso della
parola nuda senza veli, e senza inutili decorative aggiunte.
Uomo di stile in cui la forma è espressione del suo pensiero e del suo
comportamento
… li attraverso senza
urtare il grosso della folla
Di fronte al mito del viaggio, di un viaggio in cui il
fisico viene spostato altrove e di cui molti si inebriano, spesso senza capire le
differenze che pur immobilizzano i loro occhi, Gilberto ne rovescia il senso e con disprezzo per il movimento che non penetra la diversità, indaga dentro
di sé, ricostruisce, immagina, giudica, legge.
… seguo un'idea lontana/ come un luogo
un'isola un sasso/fermi e solidi nel loro limbo inerti
Ha sorretto il suo spirito il grande amore per Loredana
e per
la figlia Paola.
A me,
Gilberto ha donato una bella amicizia fatta di attenzione, conoscenza, rispetto:
una presenza
consolatoria nella solitudine.
Un'Amicizia
che ho dolorosamente perduto.
Anita Sanesi
*
Una
testimonianza di Vincenzo Guarracino
“Noi
non siamo vecchi ma solo / diversamente giovani”, dice proprio così uno degli
ultimi versi dell’ultimo testo della sua ultima raccolta di Gilberto Finzi Diario del giorno prima, edito da Nomos
nel 2012. “Diversamente giovani” oggi, all’indomani della sua morte, avvenuta a
Milano in una gelida mattina di Natale del 2014, da aggiornare come
“diversamente vivi”. Non è retorica: Gilberto, per chi lo ha conosciuto e
apprezzato (amato?) in vita, continua a pronunciare attraverso la sua vasta e
complessa opera una fede nella vita («Questa è la vita! L’ebete vita che
c’innamora…»), nonostante tutto e comunque essa sia, col suo modo sarcastico di
amarla, col suo modo di attraversare i casi della vita, della storia, senza
illusioni ma non senza miti. Perché
un mito, sì, Finzi lo aveva e ce lo lascia in preziosa eredità: quello
dell’intelligenza, acuta, ironica, determinata a sconfiggere ipocrisie.
Un
“angelo ironico con la spada sguainata”, lo si definirebbe con le parole con
cui Walter Benjamin aveva definito Leopardi: chiuso nella sua corazza
(“un’armatura in cui si rispecchia il mondo”) Gilberto con la sua intelligenza
ha sempre riguardato tutto, presente e passato, con l’occhio dell’”uomo che
giudica” e che “nel centro del futuro” vede solo “il senso oscuro”, una
“profonda notte” (non la sua, quella esistenziale, beninteso, ma quella
collettiva della perdita del senso), consegnandoci l’idea che ciò che conta
sono “i piccoli spazi tra le cose”, la determinazione a giocare le proprie
uniche risorse di infinito nel qui-e-ora col proprio “vulcano in cuore”,
incuranti dello “scadimento” di valori, del “fango” che progressivamente
minaccia. Con lo spirito del Leopardi di Amore
e morte, “erta la fronte, armato / e renitente al fato”.
*
Una testimonianza di Daniela e Lidia Riviello
rispettivamente moglie e figlia del poeta lucano
Roma. Gilberto
Finzi scriveva che la prosa di Vito Riviello era come attraversata da una
prepotenza poetica e fisica tanto da contrastare limiti e trappole di un neo
realismo incalzante, come di un orfismo di maniera. Gilberto si occupò del
saggio introduttivo alla prima opera di Vito, "Premaman" edito nei primi anni Cinquanta, parlando di
'immemorialità' e di quella magia che nasce dalla memoria.
Lo scorso anno rilasciò al fotografo Dino Ignani una
testimonianza audiovisiva su Riviello, per arricchire i materiali del poeta che
sono entrati a far parte dell'Archivio del Novecento, presso l'Università La
Sapienza di Roma e dove è raccolto un cospicuo numero di lettere inviategli nel
corso di parecchi anni. Quel giorno avemmo modo di rivederlo.
Poi leggemmo il bellissimo "Diario del giorno prima", ci scrivemmo nuovamente in seguito
alla lettura e ci sentimmo per telefono. Ricordiamo molto spesso quell'incontro
così speciale.
Daniela Rampa
Riviello e Lidia Riviello
*
Un pensiero di
Franco Manzoni
Il poeta Franco Manzoni che di Finzi è stato amico
(Gilberto ha fatto anche un’introduzione ad un suo libro), ci ha fatto
pervenire questo pensiero che volentieri pubblichiamo.
Questa mattina, alle 8.30, è scomparso il poeta e critico
Gilberto Finzi. Che la terra, a cui ritorni, ti accolga con amore nel suo
grembo.
*
Un ricordo
fotografico di Dino Ignani
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G. Finzi in una foto di Dino Ignani |
Roma, 25 dicembre 2014
Caro Angelo, una gran brutta notizia.
Tra l’altro nella notte è mancato anche Julio Monteiro
Martins.
Ti allego tre fotografie di Gilberto Finzi, scegli tu
quella che ti sembra più
rappresentativa.
Il mio ricordo sarà l’immagine che sceglierai. Lo
fotografai con trasporto perché è
stato moto gentile e disponibile nelle due ore in cui ci
siamo conosciuti.
ciao Dino
*
Un messaggio di Gio Ferri
Caro Gaccione,
in questi giorni fra le mie reiterate malattie che non
vogliono lasciarmi in pace e la morte di Gilberto non sono riuscito a combinare
nulla di serio. Scusami. Non so se sai che l'omaggio di una cerimonia laica si terrà
al,Cimitero Di Lambrate martedì prossimo alle ore 15,30. Verrà cremato e le
ceneri trasferite subito a Mantova.
Il nostro programma è quello di dare breve notizia in
TESTUALE 54 ora alla stampa
preannunciando il n. 56 a lui dedicato. Scusami se in questi giorni abbastanza
tristi e agitati non ti ho risposto subito: ma so che hai dato immediata
notizia in ODISSEA
Grazie e un abbraccio.
Gio Ferri
*
Claudia Azzola
Certo, Angelo, prendo nota. L'annuncio mi è arrivato
anche da altre parti. Non voglio fare panegirici, perché conosciamo il valore
dell'uomo, ma questa è proprio una grossa perdita.
Ciao, Claudia
***
Mirna Miglioranzi
Da poche ore Gilberto Finzi non è più insieme a noi; a
noi è rimasto il grande patrimonio dei suoi pensieri poetici. Le poesie degli
ultimi anni, quelle di una età non accettata, piene di presagi, la morte è
vicina a lui e lui la sente. Vive la contemporaneità con dolorosa chiarezza la
vita lo tormenta, gli accadimenti lo fanno soffrire. Scrive il patimento.
"Sul mio nome già comincia
ad accumularsi il nero
del Tempo - chiamo senza
risposta,
affermo o nego vanamente -
sono un antenato senza gloria,
un sopravvissuto perlomeno,
che non ringrazia il cielo per
questo
tenerlo sulla corda tesa della
vita."
Sento profondamente questa assenza questa umana voce di
uomo ricco di ingegno che aiuta tutti noi che lo abbiamo conosciuto a pensare
alla vita con il suo straordinario sguardo.
Grazie di tutto questo con infinita tristezza e grande
ammirazione.
***
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VERTIGINI
DI VITA NELLA LUNA NERA (*) |
Lettura de L’oscura verdità del nero (e di Altro) di Gilberto Finzi
di Adam Vaccaro
Il verso che dà l’avvio al
libro (Garzanti, 1987) tende a una sintesi tematica e stilistica dello
svolgimento successivo: “tutto marcisce
per un’altra vita” (p.11). Tempo presente del verbo, paratassi scabra,
descrittività vestita di obiettività che appare indiscutibile, parascientifica.
Lo sguardo e l’occhio sono, in tutta e prima evidenza, quelli delle modalità di
linguaggio dell’Io (Mod-Io). Con alone, quindi, di ideologia della verità. Ma è
bene procedere con cautela. Perché già il titolo della (prima) sezione – Arcani –
contraddice col suo richiamo a bordi irrazionali e imperscrutabili. Il
ritmo, con ripetuti doppi spazi bianchi che intervallano due o più versi,
procede infatti in ansimi che qualificano un tessuto testuale pieno di buchi:
la serenità non abita qui, tanto meno la gioia. A strattoni esplode la rabbia,
e in tinte disperate. Proseguiamo per prime verifiche nella lettura del
componimento di p. 11 di cui abbiamo citato l’incipit; che subito seguito da
una striscia di bianco, primo significante dell’altro (rispetto al verso), così
prosegue:
la rigorosa
perdita del pensiero coinvolge
il morbido
sfiorire del cuore e del sesso
vivrò per
vedere altri morire
altri amare
altri sfiorire?
Il rigore descrittivo e il tempo presente scivolano
con movimento franoso dal loro ipotetico trono di freddo pensiero; il quale,
costretto a denunciare la graduale perdita di sé, cerca appigli in parallele
sfioriture affettive e fisiche. Da notare come rigorosa perdita e morbido
sfiorire funzionano da reciproci contraltari che si contraddicono (rigorosa/morbido), si specchiano (perdita/sfiorire) e si consolano. In questo intreccio, il richiamo allitterante
delle erre di rigorosa perdita può
suggerire un sapore di resistenza e fatica che trova riposo, ma anche strazio
disperato, in morbido sfiorire.
Insomma, il rigore analitico produce, a cominciare dall’area dell’Io, panico
che si dilata e cerca (può cercare) consolazioni e morbidezze (solo) ai piani
più bassi; anche qui, però, trova solo conferme che tendono a chiudere, anziché
ad aprire, il cerchio disperante.
Il movimento rimane ad ogni modo dall’alto al basso,
tendente a una sorta di invito a danzare in nero rivolto all’area mentale e
alle corrispondenti modalità di linguaggio (Mod-Es) dominate da corporalità e
affettività. Tuttavia le Mod-Es operano ancora sotto la superficie del testo:
si manifestano in segni di ritorno di rimosso formale, esibito ad es. dalle
rinunce a titolazione, maiuscole e punteggiatura. Perciò le Mod-Io resistono e,
anzi, rilanciano tentando di coinvolgere le modalità di linguaggio dell’area
mentale etica (Mod-Superìo). Infatti, il secondo distico, che segue un altro spazio
di lingua tagliata, passa dal tempo presente al futuro. Ma la forma
interrogativa segna e conferma ansia montante, che funziona da pneuma (o
vuoto/pausa) che attira le Mod-Es.
Quindi, da questo primo assaggio, il piano
descrittivo è solo una pedana d’abbrivo; che consente di far risaltare ancor
più i crescenti successivi sprofondi d’angoscia, nei quali si evidenzia al
centro il rapporto con la Morte o, meglio, il complesso intreccio vita/morte.
Dopo altri due distici di conferma e ulteriore
accumulo dei sensi e dei ritmi precedenti, il crescendo angoscioso esplode e
raggiunge il climax con i primi due
versi dell’ultima strofe, un endecasillabo spezzato in senario e quinario più
adeguati a vestire il respiro affannoso e la lacerazione irrisolta:
foglia foglia
foglia
merda del
tempo
È il primo grumo di indissolubilità vita/morte, in
cui le Mod-Es emergono con forza, attraverso la ripetizione e la funzione
metonimica del ritmo trocaico, martellante. Il tono di rabbiosa e impotente
invettiva esprime però anche una ricerca di qualche forma di uscita da
quell’abbraccio; di cui i due versi compongono anche un’immagine spaziale: la
vita (del primo) che decade verso l’irreparabile conclusione del secondo.
Il furioso accesso non può frenare la discesa agli
inferi, ma subito dopo conferma l’implicita ricerca. Questa trova la sua forma con il terz’ultimo e penultimo
verso, dove ricompone ritmi più distesi con persino una qualche cantabilità, da
endecasillabo a minore (primo
emistichio quinario):
barrica il
vento melodiosa magione
verza che
spunti verminoso fiore
su terre
spente della rovina
E nel sintagma melodiosa magione, cioè la poesia, la
spiegazione. È come un recupero di atmosfere familiari cui attingere un minimo
di consolazione: lampo di vita che non si arrende, (se è) capace di inventare e
diventare luogo di metamorfosi, fiore
che rinasce dove tutto marcisce, anche nella terra più spenta della rovina. La
tendenza è dunque al tocco del “rovescio
del plenilunio“ (p.12), al disegno di un panorama desolato, anzi di una
esplicita (con inclusa citazione eliotiana) “terra desolata dal sole e dal nord“ (p.13). Ma qui troviamo il
luogo dei luoghi, della complessità e degli, appunto, illuminanti
rovesciamenti.
Non a caso la descrizione si riferisce alla “città del lilio“ (ibidem), Mantova, “Manto indovina” (ibidem) che è “l’Acquaferma” (ibidem) della propria
origine. E’ in tale metafora di immobile primopunto
della propria nascita e del proprio panorama mentale – punto più prossimo e
insieme irraggiungibile – che vita e morte trovano il più indissolubile
incrocio. Quel punto, dove risiede l’accecante nerità del nostro mistero, è
l’arcano di tutti gli arcani: costituisce per ognuno “la città della vertigine” (ibidem),
sempre presente e sempre passata: è il punto di massima malia, verso cui
cerchiamo di ritornare, sempre e quanto più ci avviciniamo alla Fine, o cresce
in noi la coscienza di non poterlo (più) fare.
È questo il luogo, per tutti, del potere più oscuro
e abbagliante, cui abbiamo bisogno di rivolgerci per illuminare e indovinare il
futuro; perché esso possiede in effetti tutti i segreti del nostro successivo
cammino, ma mai li svelerà completamente: li lascerà sempre (in parte) coperti
come un “un desiderio dentro un’ombra”
(ibidem). E qui subentrano snodi cruciali con impliciti inviti al movimento
opposto a quello disegnato all’inizio di questa lettura: dal basso verso
l’alto. Con successive domande: da dove viene la luce, e dov’è invece l’ombra?
La lettura in profondità del
testo tende in effetti a un rovesciamento delle consuete categorie dell’io
occidentale. Sono proprio le aree mentali dell’Io (e del Superìo) che diventano
fonti di nero; mentre questo può rivoltarsi in luce nei luoghi più tipici del
suo regno: corpo e sogni, desideri senza fine e terrori della fine,
inarrivabili archetipi di vita e di morte. La conoscenza, insomma, non può
venire (solo) da un rigore analitico, ma (di nuovo) da un incrocio col suo
contrario: con tutte quelle che appaiono oscurità insuperabili e che non lo
sono, se non cadiamo nella presunzione di una soggettività monodeterminata, di
dominarle dall’alto.
Il senso emergente dal testo è dunque esattamente
contrario a quello apparente. È questo senso che ci porta all’immagine del
luogo (di luce) capace di un possibile presagio: “Manto indovina”. Ma la luminazione è problematica e profetica al
tempo stesso, perché è da cercare nella sottoimmagine di Acquaferma: metafora non più, solo, del più profondo sé, ma di
tutto il mondo contemporaneo.
È solo con questo collegamento che possiamo capire
le rabbiose e coatte oscillazioni di fiera in gabbia de “la disordinata dòmina dell’io”(p.34), che dal suo “nero di nera luna”(p.24) vede una “Terra – strafertile morte”(p.23) dove
trionfa “il coito nero col Niente”(p.14);
è dalla denuncia (che coinvolge quindi l’area mentale del Superìo) di lugubri
pratiche e massacri di sogni, che esplode il noi e la profezia disperante: “(non vedremo nessun futuro da qui)”
(p.34).
È questo il punto di collegamento di profondità e
superficie, di lontano passato e impossibile futuro, coagulato ne “l’oscura verdità del nero”(p.21) di
un’acquaferma, da cui è sempre più difficile far partire navi di canto. Da qui
prendono infatti forma le sezioni Stanze
nere (mentali e poetiche), cui seguono gli squarci con colpi di sbeffeggianti
sforbiciate di Misteri o cronache e
di Comportamenti, che evidenziano
ancor più il corpo a corpo tra questo io e questo Mondo di tempo chiuso: un
tempo che rende sempre più difficile “fare
bello e caro il non veduto”(p.15), per cui una minima pietas è dovuta (a
quell’io): “o mio di me non farti più / lo sciocco io del tempo”(p.80).
Ulteriore segno della tensione alla ricerca (dentro e fuori di sé) dell’Altro.
Conferma di tutto questo – se
pure ce ne fosse bisogno – la troviamo nella nota introduttiva stilata dallo
stesso Finzi per la selezione di (19+2) poesie scritte fra il 1953 e 1959, (ri)pubblicate nel 1997 da Vanni Scheiwiller
(All’insegna del pesce d’oro) e raccolte sotto il titolo di POESIE LAGHISTE. Ebbene in tale nota
Finzi confessa di non essere riuscito a rinunciare a queste poesie perché erano
quelle che, rispetto ad altre, incartavano e incarnavano di più “una suggestione quasi ossessiva dell’acqua
ferma e di chi, pesce, uccello, o uomo, ci viveva. “Poesie laghiste”, dunque,
scritte fra le grandi estati e gli autunni rossi e gialli del triplice lago
formato dal Mincio a Mantova…quando la provincia era un’isola, con i suoi
pescatori, le lavandaie e i “poveri” degli Anni Cinquanta”.
La presa pressoché in diretta di questa nota con le
nervature costitutive del Soggetto Storicoreale (SSR) fornisce il sentore di
tutta la complessità che un territorio ha per la costruzione di una mappa
mentale. I testi di questa raccolta sono poi preziosi, perché danno conto di
tutti i termini – etici, razionali e affettivi – intrecciati in quel primopunto, rimasto e ritrovato poi nei testi del libro che stiamo cercando di
penetrare.
Nell’acqua
ferma delle Poesie laghiste
(ri)troviamo ben di più della metafora di un luogo; ritroviamo la metafora del
mondo e di tutto il suo inestricabile intreccio vita/morte: acqua amniotica e
marcescenze, fango e sangue, folaghe e cacciatori, partigiani e aguzzini,
guerra e pace, amori e campi di concentramento. Tuttavia, inevitabilmente, i
colori restituiscono la maggiore levità (non solo per la minore età di chi ne
scrive) di quegli anni: anni di minore disponibilità di cose e maggiori
speranze. Anni da cui traspare il panorama mentale di un Soggetto Scrivente
(SS) che sente “qui ancora a guardia del
futuro / lo stento il sonno e il sogno.” (p.47); che annota “Come una vecchia madre” che “la terra trema e si sfoglia” (p.69) e
vede già “come corre la sera dietro al
sole” (p.64) o come “lungo il corso /
del Mincio anche la gloria / ha fermato il suo volo”. Si evidenziano perciò
robuste aree dell’Io e del Superìo, che analizzano il presente, lo valutano e
guardano al futuro, ma accusano già ventate di disincanto, prendono nota di
erosioni e caducità, per cui quell’Acquaferma
diventa l’immagine dell’archetipo della Grande
madre, di una terra consolante e, insieme, ammorbante. Una doppietà senza
uscita, di delizie e fascinata tensione al nero, che rimarrà per sempre
l’immagine, non da capire semplicemente da accogliere,
di quella che alcuni (come lo psicologo americano James Hillman) chiamano
anima.
Anima quindi priva di spiritualismi religiosi, o di
sensi animistici da new age e simili;
anima che potrebbe trovare corrispondenze in tutt’altri termini e versanti di
indagini, quale è quello della metodologia operativa (leggi Scuola Operativa
Italiana di Silvio Ceccato e altri), che ha definito il (nucleo) costitutivo di
un’identità, rispetto allo sviluppo (o inviluppo) consecutivo successivo. In ogni caso, è in tali luoghi che
risiedono le fonti della creatività e dunque della poesia; ritroviamo così,
riguardo a quest’ultima, la radice fondante della definizione e dell’invito di
Zanzotto: nient’altro che accogliere.
È in tali luoghi che la categorizzazione razionale
incontra l’altro da sé, e scopre che il Sé non è una costruzione stabile, ma un
campo di circolazione energetica, di cui possiamo fruire solo se lo concepiamo
in termini di massima provvisorietà, continuamente morto e rinato, sempre
uguale e sempre diverso, da disfare ricostituire e rifare, come il letto, ogni
mattina.
Solo nell’accoglimento di tale circolazione, attiva
e passiva a un tempo, possiamo trovare attimi di pacificazione e di gioia, di
recupero vitale oltre che di ricongiungimento della nostra (piccola) vicenda
nella storia più grande e generale. E riusciamo persino a cogliere qualche
presagio illuminante, qualche divinazione dalla Manto indovina di ognuno.
I lampi delle possibilità vitali non sono da cercare
perciò (solo) tra le elucubrazioni e i razionalismi dell’io: da sole ci
dividono e distanziano, assicurandoci tutto il dolore dell’alienazione. Esse
risiedono nell’accoglimento e nella fruizione delle apparenti oscurità del
corpo, dove è posto lo scrigno della nostra memoria profonda. Quanto più il SS
riesce ad aprirlo e a coinvolgerlo fa aumentare la qualità dei testi, perché
tocca il segreto del fascino di ciò che da millenni chiamiamo poesia. Che
coincide con un logos fantasticante capace di dare forma alla phisis: il linguaggio diventa così luogo
di vertigine dolorosa-gioiosa e dell’ossimoro (apparente) di una parola
materiale e lirica. È a questo credo si riferisse Leopardi, quando parlava di
poesia corporale materiale e fantastica
(rispetto a quella metafisica ragionevole
e spirituale attribuita ai romantici milanesi), fondata sull’invenzione di
analogie tra le cose le più lontane,
nascoste e insondabili (Zibaldone).
Tornando alle modalità
specifiche della tensione adiacente (tra le lingue
del proprio universo mentale) individuata nei testi di Finzi, se questo azzardo
interpretativo ha minimi fondamenti, esse devono risaltare e risultare – come
per ogni SS – traccia marcante in tutto il percorso di scrittura. Soprattutto
se questo percorso è lungo, tali modalità diventano traccia di stile, codice
genetico della continuità e dei cambiamenti, persino fonte di presagio per il
futuro (del SS). (1)
Abbiamo già fatto qualche
verifica nei testi di più vecchia datazione, ma ulteriori conferme possiamo
trarle anche da un testo lontano per oggetto: Dèmone se vuoi (Book Editore, 1994). Testo di efflorescenze
amorose, dalle intense connotazioni e risonanze fisiche. L’esondazione della
gioia più acuta con esplicite connotazioni sessuali, porta a evidenziare nel SS
che “il tuo-mio / ‘io’ è un dinosauro
dell’età salgariana” (p.35), con l’immagine conseguente di una benefica
riduzione dell’area dell’Io. Eppure questa non demorde: tallona tutti i lampi
di vita. Anche nel caldo di un abbraccio porta il suo raggio freddo e verde: “un caldo di rugiada sui tuoi seni e sùbito /
un verde pallido di luna colorata / traccia sul sole una notte fonda”
(p.34).
Sono le Mod-Io che
enumerano, misurano costruiscono sequenze, in particolare rispetto al Tempo
(per le Mod-Es il tempo come sequenza notoriamente non esiste, essendo sempre
passato e sempre presente); per cui sono esse che rifiutano un termine, una
fine: quell’amore “da rosse arterie
inventato” (p.38) rischia così di vedere che “il nero-neve abbatte un Eros senza più ali, / un essere ferito, offeso
e fatto savio / dal vero battere del Tempo” (p.42); rischia continuamente
di essere azzannato e sopraffatto dal pensiero de “…l’ora ultima / il tempo e la morta stagione – che no non / continua il
gioco, il bacio, il matto chiude, il nero vince, /…/ ‘ultimo’ è una parola /
orribile, ultimo amore mio - / non pronunciamola” (ibidem).
Sono le Mod-Io che esprimono
il terrore della Morte, anche tra le lenzuola: “nel tuo letto: sogni, spettri, misirizzi, /…/ e infando dolore” (a p.81); “la tua nera notte / con l’incubo e il mostro dentro” (p.78); “la Morte è fra noi come un sogno”
(p.83).
È opportuno vedere una
sequenza particolarmente riuscita di questa sorta di tango macabro tra gioia e
io che insegue inseguito dalle sue ossessioni: “svegliandomi da te, con te / al fianco, e chiedendomi dove / dov’è
dov’era il limite certo / fra vita e vita – o piuttosto / fra vita e morte – o
anche (meglio) fra / due specie di morte o due / estraneità di vita, lì, chiuse
le mani / su te – fermo per un attimo (l’attimo / in cui tutto è simile al
simile / ma diverso da chi e da cosa) / avvenne che a scendere fu (incredibile)
/ lo stesso paradiso” (p.28).
È un tessuto testuale di
intensità fisica e lirica dominata dalle Mod-Io, che persistono nonostante la
riduzione (inevitabile) della loro area mentale, che ansimano e si insinuano
nell’Altro: lo testimonia la forma, colma di virgole, incisi e subordinate,
tipica di un processo elucubrante; al polo opposto l’attimo in cui avvenne che a
scendere fu…lo stesso paradiso: proprio incredibile
e bellissima, la vittoria di quell’attimo e della poesia. Da notare che dall’abbrivo
di un gerundio, recante il senso presente delle Mod-Io, l’attimo della
(vittoria della) gioia deve sprofondare
nel passato remoto (tempo delle Mod-Es).
(1) Al fine di fornire almeno
qualche elemento del percorso complessivo citiamo la raccolta Costume e pattume (Armando, Roma 1990),
che sono importanti perché danno conto specificamente della robustezza e della
qualità dell’area del Superìo: densi di passione civile, completano una figura
di scrittore che non vuole assolutamente chiudersi nel letterario, interessata
anzi a “scoprire un punto di passaggio
tra ‘civile’ e ‘letterario’; servendomi da nuovo Calibano, di una certa
violenza intellettuale, trattenendola nella scrittura. Puntando con forza
contro l’azzeramento culturale degli anni ‘80”. È un libro che mostra una
capacità di scrittura a 360 gradi e di un uomo che vuole misurarsi con i mille
orrori, tumori e pustole di un tempo sospeso tra velocità, affollamento e
smemoratezza.
Ma a questo versante
storicosociale occorre aggiungere una estensione altrettanto notevole di
saggistica letteraria, aggrumata in testi e interventi vari, prefazioni e
traduzioni, Antologie curate da solo o in collaborazione con Altri. Da questo
insieme di testi emerge con forza la radicata convinzione che “lo stile è un’identità attraverso il
linguaggio”, da cui discende la necessità, per la scrittura in generale e
per la poesia in particolare, della “elaborazione
di strumenti appositi”, che
implicano la ricerca (per quell’identità e per la poesia) di una “scienza in sé, di sé” (Il
prossimo villaggio, intervento al Convegno Letteratura e scienza, organizzato da Testuale e Il Segnale nel
1993, Atti 1995).
Anche
come segno contro il giulivo effimero di mille simulacri metropolitani che si
affannano a smemorarci e distanziarci dalla nostra vita, segue un elenco
selezionato di opere.
Poesia: La Nuova Arca, Rizzoli 1965; L’alto
Medioevo nel suo più brutale ricorso, ai nostri giorni, “A spese degli
Amici” 1970; Morire di pace
(autobiografia), Shakespeare & Co., 1977 (Riediz. Campanotto 1992; Tre formule del desiderio, pref. di
Giuliano Gramigna, Spirali 1981; L’oscura
verdità del nero, Garzanti 1987; Demone
se vuoi, Book Ed. 1994; Poesie
laghiste (1953-1959), Scheiwiller 1997; Soldatino
d’aria, Marsilio 2000.
In
inglese: lifeline (Traduz. Vanna
Tessier), Snowapple Press, Edmonton (Canada) 1993.
Narrativa: O barare o volare, Garzanti 1977; L'ultimo valzer di Chopin, La Vita Felice 1995 (Traduz. Inglese di
Vanna Tessier, The.Last Waltz of Chopin, Snowapple Press, Edmonton, Canada 1999).
Saggistica: Lo Spirito del '45, Giordano 1967; Invito alla Lettura di Quasimodo, Mursia 1972 (6a ediz. 1995); L'utopia letteraria, Marsilio 1973; “La luna e i falò” di Pavese, Mursia
I976 (5a Ediz.1997); Poesia in Italia –
Montale, Novissimi, PostNovissimi (1959-1978), Mursia 1979; Crepuscolo della Scrittura, Mursia 1991.
Saggistica varia: Costume e pattume, Armando 1990.
Ha curato inoltre l'opera omnia del
Nobel S. Quasimodo: Poesie e Dscorsi
sulla poesia, Meridiani Mondadori 1971; X ediz. riveduta e ampliata, 1996)
e varie opere singole del poeta.
Tra le antologie, da citare i due voll. Novelle italiane -L'Ottocento, Garzanti 1985 e Novelle Italiane -Il Novecento,
Garzanti 1991. Numerosi i lavori sulla Scapigliatura e su autori dell’800 e del
'900, con due traduzioni.
(*)
Cfr A. Vaccaro, Ricerche e forme di
Adiacenza, Asefi, Milano 2001