Expo
(e tutt’altro)
di Giovanni Bianchi
Giovanni Bianchi |
Andare per eventi
Andare
per eventi e interpretarli da dentro, in presa diretta, era il consiglio del
grande domenicano francese Marie-Dominique Chenu. Un consiglio da seguire anche
nella stagione in cui gli eventi sono stati perlopiù sottratti alla realtà e
dati, con onnivora ostinazione, nelle mani della confezione mediatica. Non mi
stanco di ripetere che tra il mondo e la sua rappresentazione quel che resta e
dilaga è la rappresentazione. Anche qui funziona il mantra marxiano: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria.
Come non considerare allora l’Expo e la sua apertura come un'occasione
privilegiata e ghiotta per l'analisi della fase?
Dell'apertura
in diretta ovviamente televisiva – al netto della retorica vincente e avvincente
abituale nel Premier (il miglior piazzista sulla piazza politica, lo dico con
Agnes Heller) – due cose restano nella memoria: il solito e solitamente
efficace intervento di papa Francesco in collegamento dal Vaticano, e l'inno
nazionale cantato a due cori dagli alpini della Sat di Trento e da un corretto
di ragazzine che si è concluso con una innovazione meno funebre e più
all'altezza con lo spirito del tempo: "Siam
pronti alla vita"! Finalmente un'innovazione che farà discutere. Mi
sono invece sorbito, sempre davanti al televisore e in compagnia del mio antico
compagno di banco al liceo Zucchi di Monza, il concerto della vigilia in una
piazza Duomo opportunamente trasformata in una dependance della Scala. Quel che
non si vedeva era la Madonnina, ma per una volta ci sta che Milano sbandi dalla
parte del proprio storico illuminismo. Qui il format mi ha lasciato molto
perplesso: indovinato dal punto di vista del business mondiale, patetico dal
punto di vista di un Paese che dice in giro nei suoi vertici un giorno sì e
l'altro pure di voler cambiare verso. L'Italia era quella del teatro lirico
sempiterno, dove il melodramma dice più cose di noi e della nostra storia di
quanto riesca nasconderne. Starguest il tenore Andrea Bocelli. I presentatori
non potevano essere più leggeri, in particolare quella Antonella Clerici che ha
abbracciato da gran tempo sui teleschermi a reti unificate la dilagante moda
culinaria, non tanto per andare incontro alla fame e agli affamati del mondo (un miliardo per la
statistica), quanto piuttosto per fornire alibi e ragioni quotidiane alla
obesità intrattenibile della casalinga di Voghera.
Mancava
solo la verve di Rita Pavone in "Viva
la pappa col pomodoro" – certamente in tema – e il revival di un
popolo di frenetici sedentari sarebbe risultato perfetto.
Tanto
a globalizzare la solidarietà e a ricordarci che i volti hanno ancora fame nel
paradosso dell'abbondanza, citando i suoi predecessori, ci pensa il solito
Francesco vescovo di Roma. Il quale ha pure ammonito che sarebbe ora di
smettere di abusare del giardino che Dio ci ha affidato e non si è potuto
trattenere dall'esortare che nessuno sia privato della dignità e che nessuno
prenda un pane indegno del lavoro dell'uomo. Della serie: noi pensiamo agli
affari diventati affarucci o qualche volta augurabilmente affaroni, pensiamo
anche a consolarci con il grande melodramma e le piccole canzonette, mentre
alla manutenzione delle coscienze continui a pensare il successore di Pietro.
Domanda: quanto potrà durare questo verso continuo con i politici che fanno
pubblicità e il papa che si sforza di fare politica?
Andare per soggetti
Andare
per soggetti e meno per spettacoli ed ologrammi non sarebbe invece fuor di
luogo. Anche di fronte agli eventi che interessano la nazione dentro le reti
inevitabili della globalizzazione galoppante. Nella globalizzazione infatti i
popoli entrano con una loro identità, costruita e in costruzione, non con il
business dei pochi che continuano ad arricchirsi.
Non
è neppure necessario avere letto il tomo ponderoso e puntuale di Thomas Piketty,
che rifà il verso al Capitale di
Marx. Basta l'antica nasometria di un
dimenticato giovane primo ministro italiano, Giovanni Goria, a dare il senso e
la posizione.
Se
ne è avuta un'occasione recente, che fortunatamente non è andata sprecata, con
il settantesimo anniversario del 25 Aprile. Abbiamo fatto memoria di donne e
uomini che non lottarono soltanto per il pane e tantomeno per la carriera:
erano consapevoli, opponendosi alla dittatura, di giocare la vita. Perché? Dove
hanno trovato il coraggio?
Ha
lasciato scritto un resistente di Milano: "Viene un momento nel quale la
coscienza ti pone un imperativo al quale non ti puoi sottrarre senza perdere la
stima di te stesso". Una frase nella quale è raccolta la dignità di una
intera città e della nazione italiana.
Di
Milano è stato detto recentemente che seppe essere la capitale della
Resistenza. Una Milano tuttavia carica di contraddizioni, al punto che Giorgio
Bocca arriverà a definirla "ambigua".
Ma
Milano è la città più bombardata d'Italia. Una città distrutta e affamata della
quale lo storico Alberto De Bernardi ha recentemente ricordato che la media era
di 2000 calorie per poi scendere a 1700 alla fine della guerra; con i picchi in
discesa che la statistica si incarica di smussare e amalgamare soltanto sulla
pagina.
Per
tutte queste ragioni, dopo settant’anni, questo 25 Aprile ha rappresentato un
punto di arrivo e un punto di partenza. Di arrivo, perché conclude quella
dolorosa vicenda, iniziata all'indomani della fine della prima guerra mondiale,
che avrebbe lasciato un Paese profondamente cambiato e inserito in un contesto
globale radicalmente nuovo.
Di
partenza, perché nel momento stesso in cui quella dolorosa parentesi si
chiudeva, subito se ne apriva un'altra, quella della ricostruzione civile e
istituzionale dell'Italia.
E’
dalla nostra quotidianità che ripartono le domande nei confronti della
Resistenza, in particolare gli interrogativi delle nuove generazioni, che al
patrimonio di questa storia non possono rinunciare, interrogandola il più delle
volte al di fuori degli schemi del passato recente.
La
memoria infatti non è archeologia. Fare memoria è ritornare sui passi per
ritrovare le tracce di nuove vie verso un futuro possibile. La memoria conserva
perciò inevitabilmente i semi della speranza e del progetto. Per questo non
deve essere né ignorata né sprecata. Perché il fare memoria è un procedimento
essenzialmente creativo, talvolta
inconsapevole, a dispetto delle proprie intenzioni.
Siamo
in tal modo nuovamente rimandati al rapporto centrale tra le lotte in montagna
e la crescita di coscienza della popolazione: quel che fa della Resistenza una
autentica "lotta di popolo". Fondamentale la memoria degli scioperi
del marzo 1943 e 1944 nelle grandi fabbriche del Nord, di Torino, di Milano e
di Sesto San Giovanni.
Di
esse scrisse in prima pagina il New York
Times del 9 marzo 1944: "Non è mai avvenuto nulla di simile
nell'Europa occupata che possa somigliare alla rivolta degli operai italiani. È
una prova impressionante che gli italiani, disarmati come sono, sanno
combattere con coraggio ed audacia quando hanno una causa per cui
combattere".
Lo sciame delle
interpretazioni
Resistenza
significa anzitutto evidenziare le ragioni che l'hanno evocata. Ma non solo.
Significa ricostruire lo sciame della memoria e delle sue discordanti
interpretazioni. Ciò equivale a riproporre dopo settant'anni il rapporto tra la
Lotta di Liberazione e la storia della Repubblica. Ricordando che se una parte
degli italiani non amava parlare della Resistenza, sul fronte ideologico
opposto si discuteva della "Resistenza tradita". Anche per questo,
dopo settant'anni, la lotta di liberazione chiede di essere rivisitata.
Una
Resistenza di lunga durata alla quale faceva riferimento Pietro Calamandrei,
quando nel febbraio del 1954 al Teatro Lirico ricordava: "Non si combatteva più sulle piazze, dove gli squadristi avevano
ormai bruciato ogni simbolo di libertà, ma si resisteva in segreto, nelle
tipografie clandestine dalle quali fino dal 1925 cominciarono ad uscire i primi
foglietti alla macchia, nelle guardine della polizia, nell'aula del Tribunale
speciale, nelle prigioni, tra i confinati, tra i reclusi, tra i fuorusciti. E
ogni tanto in quella lotta sorda c'era un caduto, il cui nome risuonava in
quella silenziosa oppressione come una voce fraterna, che nel dire addio
rincuorava i superstiti a continuare: Matteotti, Amendola, don Minzoni,
Gobetti, Rosselli, Gramsci, Trentin. Venti anni di resistenza sorda. Ma era
resistenza anche quella: e forse la più difficile, la più dura è la più
sconsolata".
D'altra
parte la complessità della Resistenza è in grado di dar conto della complessità della sua memoria. Avendo
chiaro che nel processo di lenta liberazione degli italiani non è solo presente
il rifiuto del fascismo, la ribellione quotidiana ai suoi riti e all'invasione
della sfera privata, ma anche un'idea di rinascita nazionale. Tutto questo ha
consentito a Pietro Scoppola di affermare che la lotta di liberazione degli
italiani fu anzitutto una "resistenza
civile".
Una
visione della Resistenza che non ne restringa il perimetro per l'incapacità a
coglierne la vera dimensione collettiva e popolare, le dinamiche che
attraversano gli eventi e i territori, i tempi diversi e i luoghi, e le classi
sociali.
È
in questo quadro che le tre dimensioni interpretative che fanno capo alla lotta
insurrezionale e di liberazione dal fascismo si ricompongono in maniera
asimmetrica nel quadro complessivo di un Paese che cambia non soltanto il
regime, ma che per farlo ha ancora una volta bisogno di rifare i conti con una
storia di particolarismi in una penisola troppo lunga e con le culture che ne
discendono.
Un
modo per riprendere le misure a un popolo che non si presenta come un dato
biopolitico, ma come una faticosa costruzione politica all'interno di un
processo non privo di contraddizioni.
Una
ricostruzione che ritroviamo nel recente intervento del presidente Giorgio
Napolitano quando propone: "il recupero e la valorizzazione di dimensioni
a lungo gravemente trascurate del processo di mobilitazione delle energie del
Pese che si dispiegò per difendere l'onore e riconquistare la libertà e
l'indipendenza dell'Italia: la dimensione cioè del contributo dei militari, sia
delle forze armate coinvolte nella guerra fascista e poi schieratisi
eroicamente (basti fare il nome di Cefalonia) contro l'ex alleato nazista, sia
delle nuove forze armate ricostituitesi nell'Italia liberata (che ebbero a
Mignano Montelungo il loro battesimo di fuoco). L'immagine della Resistenza si
è così ricomposta nella pluralità delle sue componenti: quella partigiana,
quella militare, quella popolare".
Certamente
si tratta della sintesi più rapida e più compiuta della complessità della Lotta
di Liberazione.
Le facce della crisi
Siamo
oggi di fronte alle molte facce di una crisi economica e sociale e alla fase
finale di una transizione infinita sul piano delle istituzioni. Abbiamo
assistito alla dissoluzione delle regole e alla conseguente caduta dell'etica
pubblica. Al venir meno della fiducia nel futuro, per cui sembra rincuorare e
spronare tutti, credenti e non credenti, l'invito di papa Francesco a non
lasciarci rubare la speranza. Il dovere dell'ora è dunque ritrovare un senso
comune al nostro vivere repubblicano. Recuperare insieme un idem sentire senza il quale un traguardo
comune non è raggiungibile né può esistere.
A
ricostruire il Paese furono allora le stesse forze politiche che erano state
forgiate dalla comune esperienza della Resistenza ed esaltate dalla
Liberazione, e lo fecero a partire dalla sua Carta fondamentale: la scrittura
della Costituzione della Repubblica vide infatti realizzarsi, in una sinergia
di straordinaria importanza, una collaborazione storica tra due blocchi che,
seppur profondamente divisi, seppero unire le loro migliori energie ed
intelligenze intorno a una comune idea non solo di Stato, di società e di cittadino, ma anche e
soprattutto di uomo.
Il ruolo tuttora centrale
del lavoro
E’
il lavoro il grande ordinatore delle nostre società, prima e più della legge,
oggi come allora. Allora la difesa delle fabbriche e delle macchine significò
la volontà di ricostruire il Paese nella libertà, nella giustizia,
nell'uguaglianza, perché il superamento delle distanze sociali continua ad
essere la spinta ineliminabile di una vera democrazia.
Sandro
Pertini, grande capo partigiano e non dimenticato presidente della Repubblica,
non a caso aveva l'abitudine di ripetere: "Non ci può essere vera libertà
senza giustizia sociale. Non ci può essere giustizia sociale senza vera libertà".
Fu
lungo questa linea interpretativa che i costituenti si convinsero che fosse
possibile rintracciare "una ideologia comune" e non di parte sulla
quale fondare il nuovo edificio costituzionale. Una concezione caratterizzata
cioè dalla centralità dei diritti della persona, dei suoi diritti fondamentali
"riconosciuti" e non creati e dettati dalla Repubblica.
Vengono
così posti nel terreno della Nazione i semi di un duraturo personalismo
costituzionale. Il vero idem sentire
del Paese.
Sono
626 le donne partigiane fucilate. E del resto la loro partecipazione all'epopea
in montagna è stata fin dagli inizi sottovalutata. Al punto che in più di
un'occasione venne loro sconsigliata la partecipazione ai cortei e alle
manifestazioni di giubilo successive alla vittoria del 25 aprile, come non
confacente alla riservatezza e alla dignità femminile.
È
dunque un grande merito di Antonio Pizzinato l'avere recentemente ricostruito
il ruolo determinante e addirittura "scatenante" della presenza
femminile negli scioperi del marzo del 1943. Scioperi lentamente iniziati a
Torino e poi dilagati alla periferia nord di Milano, a Sesto San Giovanni, a
partire dalla bulloneria dove su 480 operai ben 400 erano donne.
Sono
loro che prendono a calci con i pesanti zoccoli che il lavoro richiede i
fascisti inviati in fabbrica per ricondurle al lavoro. Sono sempre queste donne
a denunciare e respingere le condizioni di vita assolutamente insufficienti,
rappresentate nella mensa aziendale da un primo scarso e da un mezzo uovo.
Ovviamente
non omettono di chiedere la parità di trattamento. E vale la pena ricordare che
uno dei primi provvedimenti del governo Badoglio sarà chiudere i sindacati
fascisti.
Osservazioni
e dati che dicono come a settant'anni il gusto di riscoprire le radici e le
modalità della Lotta di Liberazione siano tanta parte dell'insegnamento che
dalla Resistenza interroga le nostre vite quotidiane, e quelle delle nuove
generazioni in prima battuta.
Idee laterali
Idee
laterali possono talvolta condurre al centro del problema, anche riprendendo
discorsi non nuovissimi. (Osservazione che mi obbliga a rifare l’elogio della
rapsodia.)
Si
sostiene ad esempio che il nostro Paese non sia più competitivo. Una molla
mancante che si nasconde nel credit
crunch e quindi tra i consumi. Una delle ragioni per le quali il mondo
delle imprese e delle professioni era restio a votare PD prima di Matteo Renzi.
Al punto che senza la rielezione di Napolitano al Quirinale avremmo avuto il
caos istituzionale (Macaluso). Domanda: qual è allora il riformismo del PD?
Enrico
Morando propose mesi fa, in una tranquilla località montana prossima alla
Valtellina, il modello Schroeder. Come a dire che si dovessero consegnare le
cose a un grande partito del lavoro, come fece appunto Schroeder in Germania
vent'anni fa. Quel modello Schroeder di cui si avvale perfino la Merkel. E
infatti le emergenze non si risolvono con un rattoppo. Ci vuole respiro e ci
vuole immaginazione strategica.
Lo
stesso problema che sta di fronte a Miliband per il Labour Party.
Tutto
ciò chiede evidentemente di mettere in sicurezza la legge elettorale, anche se
la legge elettorale poteva essere molto meglio confezionata di quella scelta. E
qui un'altra presenza si affaccia proponendo problemi tanto laterali quanto
irrisolti.
I
democratici hanno fatto in Italia un sacco di primarie, e tuttavia il partito
non è ancora nato, anzi in brevissimi anni siamo riusciti a sputtanare un
metodo collaudato e indispensabile oltreoceano. Così – come affermava il
miglior Segatti – il ceto politico con le primarie si è mangiato il partito…
Come a dire, ancora una volta: a un eccesso di tecnica corrisponde una mancanza
di politica. Anzi, un eccesso di galli da combattimento di serie B in tutte le
periferie di una troppo lunga penisola.
Il problema infatti non è
che la competizione sia vera, ma intorno a che cosa la competizione si svolge.
Ancora
una volta bisognerebbe riuscire a riflettere sul fatto che più grande
generosità è pensare per gli altri, e non al posto degli altri. Personalmente
sono perfino disponibile a stare in un partito che non mi piace, purché sia
partito... E invece si moltiplicano ovunque i vetoplayer: i molti e troppi attori con un elevato potere di veto.
Resta
vero che il Paese ha bisogno di un radicale cambiamento. A mio modesto avviso
più da realizzarsi che da proclamare. In questo sono rimasto
veterodegasperiano, dal momento che lo statista trentino amava ripetere che il
buon politico deve sempre promettere un po' meno di quanto è sicuro di
mantenere.
Le
nostre cifre infatti da tempo non sono esilaranti. Il prodotto pro capite
italiano rispetto alla Germania si è ridotto di otto punti, e di quattro
rispetto alla Francia. Abbondano anche da noi le multinazionali tascabili, ma
il panorama resta inquietante e non funziona.
Secondo
il bollettino della Banca d'Italia di otto mesi fa il 10% delle famiglie più dotate
possiede nel nostro Paese il 46% del reddito; nel 2008 il 10% di queste
famiglie possedeva il 44,3%; nel 1990 il 10% di queste medesime famiglie
possedeva il 39% del reddito nazionale.
Né
le cose mutano se si guarda al patrimonio immobiliare. Resta sempre vero che lo
Stato ha, non soltanto da noi, tuttora un enorme peso in economia.
Domanda:
è possibile cambiare con un altro strumento rispetto allo Stato? Si può agire
soltanto con la politica?
La
prima risposta è che sono necessari una quantità enorme di altri attori,
all'interno ovviamente del giusto assetto istituzionale.
C'è
chi insiste nel dire che ci vorrebbe in Italia un programma, una Schroeder Agenda 2020, così come
Schroeder disse Agenda 2010.
Un'agenda nel caso tedesco elaborata dal dottor Hartz, che esce da Volkswagen e
cambia la Germania…
Per
fare tutto ciò – si diceva sempre otto mesi fa – ci vuole un leader, perché non
c'è progetto senza leader nella democrazia competitiva.
Adesso
il leader ce l'abbiamo, ma, al di là della adesione alla famiglia socialista
europea, non pare roso dall'attenzione per le ricette socialdemocratiche.
La casta infinita
Crescono
intanto indisturbati, o meglio continuano a crescere i membri della casta che
decide le finanziarie e le scrive con il solito gruppo di funzionari. Alle
parole del cambiamento non sempre conseguono fatti mutati, non dico
radicalmente.
In
questo scenario giocano le loro partite le sfide della democrazia, non solo
quelle elettorali. I partiti sono fin dall'inizio considerati dagli italiani un
elemento negativo. Perché? Perché i partiti organizzano il conflitto, e il
conflitto dà fastidio a tutti. Può parere paradossale, ma si preferisce la polemica
reiterata e violenta al conflitto reale.
In
regioni fortemente corrotte il voto viene in tal modo polarizzato dai leaders,
perché anche lì i leaders appaiono meno corrotti dei partiti. La bussola
infatti non è il partito in sé, ma la competizione tra partiti. E allora come
non osservare per la milionesima volta che il problema dell'Italia è la
debolezza dei partiti, dal momento che il ceto politico se li è mangiati?
I
partiti sono scomparsi. I partiti caratterizzano una classe dirigente, non gli
elettori. Così da noi il voto è risultato a lungo prevalentemente retrospettico
piuttosto che prospettico. E se si viaggia verso presidenzialismi plurimi
(anche con la riforma scolastica) è perché nelle situazioni presidenziali
l'effetto della leadership viene palesemente esaltato.
Sempre
più difficile appare la convivenza tra le forze politiche, dal momento che le
esperienze di coabitazione importano uno stress cognitivo e oscurano la
propensione a polarizzare il voto. Cos'è diventato lo spazio elettorale in
Italia?
L'incertezza
intorno alla definizione e la confusione intorno alla realtà dichiarano per i
più la fine della destra e della sinistra politiche. Può risolvere il problema
il delirio del nuovismo?
Nuovo
e discontinuità sono i mantra più ripetuti e più alla portata di mano, con il
dubbio che si adattino più alla rappresentazione che alla realtà.
Varrebbe
forse la pena ricordare che Gramsci metteva alla berlina le condizioni nelle
quali il presente è privo di storicità, considerando questo modo di pensare
come il vezzo con il quale si presume di essere qualcosa solo perché si è nati
nel tempo presente.
Così
l'essere “contemporaneo” è un titolo buono (sempre Gramsci) solo per le
barzellette.
Ma
chi cita più Gramsci? Chi si dà la pena di risfogliare i Quaderni del carcere?
Tantissimi
i rischi che stiamo correndo. Uno dei più grandi è di far credere
l'incredibile, e che cioè il malaffare venga alimentato dalla democrazia
stessa, dal pluralismo e dagli elettori.
Ma
dove si va e dove andremo senza partiti? C'è del nostro futuro una specie di
democrazia elvetica tutta referendaria? La nostra quotidianità sarà scandita da
labili liste elettorali?
Così
pare si sia imboccata la via per i diritti cartolari, privi di consistenza
reale.
Il quadro europeo
Torniamo
allora, non fiaccati dalla disperazione, a riflettere sul quadro europeo.
Il
Pse è nato il 9 novembre 1992, e tra i firmatari dell'atto di fondazione
troviamo Achille Occhetto. Ci sarà pure un rapporto tra Tony Blair che
costruisce il mitico New Labour e Schroeder
che costruisce la Neue Mitte e le
scelte dell'uno per un incarico milionario alla Banca Morgan, e dell'altro per
un incarico, sempre milionario, a Gazprom?
Pruderie
moralistica? O forse il problema etico odierno è come essere avidi senza
sentirsi in colpa, perché il mercato lo vuole?
Fin
dagli inizi il mercato è un messaggio ambiguo che la destra declina come il
riconoscimento per chi si arricchisce e fa carriera. Siamo forse rimasti
irrimediabilmente indietro?
Fa
pure parte del pensiero unico un'idea di passato come blocco indistinto dal
quale prendere le distanze e rinascere, che equivale a un rifiuto di pensare
alla storia.
Del
resto il giovanilismo nasce e rinasce ovunque così, e dovunque ha avuto fin qui
l'abitudine di indirizzarsi a sbocchi autoritari. A caratterizzarlo è l'assenza
di una reale dialettica dei processi storici. Ritorna fuori l'antico Gramsci:
l'essere "contemporaneo" è un titolo buono solo per le barzellette...
A meno che la storicità non significhi soltanto caducità.
Riecco
Niklas Luhmann: nessun soggetto è in grado di interpretare questo mondo
complesso, e tantomeno di cambiarlo. A questo punto è dato capire perché si
assiste alla generalizzazione globale di una tendenza al dominio anziché verso
la libertà, a dispetto della crescita in generale e dello sviluppo delle tecnologie
in particolare.
Non
v'è dubbio che l'antistatalismo esasperato sia stato rimesso a nuovo grazie
all'avanzata strepitosa del monetarismo. Un'avanzata anche strepitosamente
ideologica.
In
tal modo la Costituzione ci appare grazie a Dio non solo come un documento, ma
un fatto formale fondamentale e fondante, da analizzare fino in fondo.
Il ritorno di Amartya
Non
è un eterno ritorno nietzschiano, ma insistente sì, come per continuare un discorso
appena lasciato interrotto, con la semplicità accattivante dell'ultimo maestro.
Sto parlando dell'opuscolo di Amartya Sen, La
libertà individuale come impegno sociale, edizione gratuita di Laterza, che
l'ultimo libraio militante di Milano, il Guido Duiella di via Tadino, mi ha
offerto insieme agli ultimi testi che avevo ordinato sul tema del 25 Aprile.
Sen
prende questa volta le mosse da Isaiah Berlin e dalla sua distinzione fra
concezioni "negative" e "positive" della libertà. Dove per
libertà in senso positivo (la libertà di)
si intende ciò che, "tenuto conto di tutto, una persona può o meno
conseguire"(p.11).
Viceversa,
la concezione negativa della libertà (la
libertà da) "si concentrerà precisamente sull'assenza di una serie di
limitazioni che una persona può imporre a un'altra" (p.12).
Dopo
avere osservato che si è andata affermando la tendenza a prestare attenzione
prevalente alla concezione "negativa" della libertà, Sen sostiene –
coerentemente con tutta una lunga serie di saggi da lui pubblicati – che è la
libertà positiva che ci interessa, dal momento che riteniamo di grande
importanza l'essere "liberi di scegliere" (p. 13). È qui, al netto di
tutte le distinzioni, che Amartya Sen riprende quello che mi pare il fulcro di
tutte le sue recenti prese di posizione. Quel che positivamente sorprende il
lettore sono gli esempi che anche questa volta Amartya Sen ha scelto per
esplicitare il proprio ragionamento, tanto più intriganti perché questi sono
anche i primi giorni di apertura dell'Expo milanese 2015, il cui mantra suona: "Nutrire il Pianeta".
Il
tema proposto alla riflessione e gli esempi addotti riguardano il rapporto tra
carestie e libertà. Dopo avere osservato che la carestia del Bengala del 1943
ebbe luogo senza che la disponibilità di cibo fosse eccezionalmente bassa, Sen
non si trattiene dall'osservare che alcune carestie sono avvenute quando la
disponibilità di cibo era al suo livello massimo. E adduce il caso della
carestia del Bangladesh del 1974 (p. 18).
Sostiene
inoltre Sen che nello spiegare le carestie non si deve guardare tanto alla
disponibilità totale di cibo, ma al possesso di "titoli" da parte dei
gruppi vulnerabili, "ovvero ai diritti di proprietà sul cibo che tali
gruppi sono in grado di farsi riconoscere" (p.18).
Ne
consegue che non deve sorprendere la circostanza che una politica di
integrazione dei redditi (ad esempio offrendo impiego pubblico o pagando un
salario alle persone indigenti in cerca di lavoro) "possa costituire uno
dei modi più efficaci di prevenire le carestie" (p.19). Mai l'economia è
risultata così palesemente economia politica, e va pure osservato che l'analisi
e la prospettiva di Sen indicano la centralità basilare del rapporto
solidarietà-democrazia, fino ad indicare la stessa democrazia come un "bene
comune" della stagione politica in questa fase storica. L'affermazione
risulta a questo punto perentoria: "Questo è in effetti il modo in cui le
carestie sono state sistematicamente prevenute in India dopo
l'indipendenza"(p. 19). Perché l'eliminazione delle carestie in India è
stata in massima parte il risultato di sistematici interventi pubblici. E a
fondamento della propria posizione Sen aggiunge che "ciò che ha
determinato il cambiamento della situazione è stata la natura pluralistica e
democratica dell'India dopo l'indipendenza"(p. 20).
Il
fatto che le carestie abbiano potuto dilagare in molti paesi dell'Africa
sub-sahariana discende dalla circostanza che i governi di quei paesi non si devono
preoccupare troppo della minaccia dei partiti all’opposizione, proprio a
seguito di una carenza di controllo e di solidità delle rispettive democrazie.
I
territori, i campi, le foreste sono sempre più nelle mani di un sistema
economico le cui decisioni mutano senso ed efficacia a seconda del tasso di
democrazia che li governa. Secondo Sen, "nella terribile storia delle
carestie mondiali è difficile trovare un caso in cui si sia verificata una
carestia in un paese con una stampa libera e un'opposizione attiva entro un quadro
istituzionale democratico"(p. 22).
È
tempo di criticare allora una diffusa tradizione utilitarista, la quale
sottolinea non tanto "la libertà di raggiungere risultati, quanto
piuttosto i risultati conseguiti" (p.23).
Va
da sé che "la libertà come tale non costituisce un valore nel calcolo utilitaristico"(pp.
24-25). Bisogna spingere lo sguardo nelle pieghe del tessuto sociale,
nell'apparato dei media, nell'educazione di massa. Fino a osservare che
l'intensità della privazione del lavoratore precario, del disoccupato cronico e
della moglie completamente succube hanno condotto costoro a imparare "a
tenere sotto controllo i propri desideri e a trarre il massimo piacere da
gratificazioni minime"(p.26). Verrebbe da dire: ridotti nel desiderio ed
educati alla parsimonia dalla miseria. Infatti è bene ribadire che è la
politica che educa i popoli, che non esistono come entità naturali all'interno
di un orizzonte biopolitico, ma sono realtà politiche educate storicamente ad
acquisire identità.
Osserva
ancora Sen: "Sfruttamento e disuguaglianza persistenti spesso prosperano
creandosi alleati passivi proprio in coloro che vengono bistrattati e
sfruttati" (p.29). Da segnare sul taccuino degli appunti il termine
"alleati passivi".
Il paradosso delle
disuguaglianze
Qui
il discorso accenna al paradosso delle disuguaglianze e osserva che a partire
dall'indipendenza del 1947 "l'India ha compiuto notevoli progressi
nell'istruzione superiore, ma pochissimi in quella elementare" (p. 29).
È
il caso di rammentare un passo dell'esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium, dove si sconfessa il
mito liberista della "ricaduta favorevole", mai storicamente provata,
che traduce l'espressione inglese di Stiglitz, là dove il premio Nobel parla
dell'inesistenza del trickle-down.
Riaffermata
con Rawls l'importanza politica ed etica della libertà individuale, Sen
focalizza l'attenzione sugli effetti e i tipi di vita che le persone possono
scegliere di condurre e che concernono diversi aspetti del "funzionamento
umano" (p. 34). Secondo Sen, "la libertà di condurre diversi tipi di
vita si riflette nell'insieme delle combinazioni alternative di functionings tra le quali una persona
può scegliere"(p.35). Questa può essere definita la "capacità"
di una persona.
Dunque,
"aumentare le capacità umane deve rappresentare una parte importante della
promozione della libertà individuale"(p. 36).
L'ultima
parte della riflessione di Amartya Sen riguarda quella che potremmo definire la
condizione materiale delle diverse democrazie. Sen osserva le discrepanze di
reddito e l'handicap che in termini non soltanto finanziari può costituire
l'essere malato in maniera tale da dover richiedere cure continue di dialisi
renale. "La necessità di tener conto di differenze nella abilità di
trasformare redditi e beni primari in capacità e libertà è veramente centrale
nello studio dei livelli di vita in generale, e della povertà in
particolare"(p. 38).
Non
omette di notare che le strutture sociali per l'assistenza sanitaria negli
Stati Uniti sono più deficitarie di quelle di altri paesi molto più poveri, al
punto che all’incirca la metà dell'eccesso di mortalità dei neri americani può
essere spiegato sulla base di differenze di reddito. "Gli uomini hanno
meno probabilità di raggiungere i quarant’anni nei sobborghi neri di Harlem a
New York che nell'affamato Bangladesh"(p. 40).
Secondo
Sen, "il mercato può effettivamente essere un grande alleato della libertà
individuale in molti campi, ma la libertà di vivere a lungo senza soccombere a
una malattia che può essere prevenuta richiede una gamma più ampia di strumenti
sociali"(p. 41). Come a dire che non si dà democrazia senza welfare.
E
dunque "l'attribuzione di priorità alla libertà individuale, nel senso più
ampio del termine, si fonda sul rifiuto dell'affermazione esclusiva dell'importanza dell'utile, della ricchezza, della sola
libertà positiva, sebbene queste variabili ricevano anch’esse attenzione, fra
le altre, nella ricerca della libertà"(p. 45).
Si
tratta di proporre e realizzare un approccio all'etica sociale che ponga
l'accento sulla libertà individuale come impegno sociale, condizione che non
esclude la necessità di affrontare problemi di conflittualità fra gruppi e fra
individui. E infatti "i principi distributivi affrontano tali conflitti, piuttosto che eliminarli"(pp. 48-49).
La
questione più urgente "resta però l'esigenza di riesaminare i problemi
dell'efficienza sociale e dell'equità spostando l'attenzione sulle libertà
individuali"(p. 52).
Il
passo è tale che obbliga tutti a ripensare l'economia dal punto di vista delle
politiche democratiche. Dire che la democrazia è diventata oramai un diritto
non cartolare e un bene comune non è raccontare una barzelletta solidale e
neppure una giaculatoria illuministica.
Ecco
comunque – secondo Amartya Sen – il menù della dieta democratica per nutrire il
pianeta globalizzato.