TEATRO
Ha debuttato il 5 maggio in prima nazionale al Teatro Menotti
di Milano (Via Ciro Menotti 11) Chi ha paura di Virginia Woolf? di
Edward Albee, traduzione di Ettore Capriolo, regia di Arturo Cirillo, in scena
nel ruolo di George. Con Milvia Marigliano (nel ruolo di Martha), Valentina
Picello (Honey) e Edoardo Ribatto (Nick). Scene Dario Gessati, costumi Gianluca
Falaschi, luci Mario Loprevite, regista collaboratore Roberto Capasso,
assistente alla regia Giorgio Castagna, assistente scenografo Lucia Rho. Produzione
Tieffe Teatro Milano.
Le foto di scena sono di Diego Steccanella
Primo testo in tre atti di
Edward Albee, scritto nel 1962, rappresentato per la prima volta il 13 ottobre
1962 al Billy Rose Theatre di Broadway, con la regia di Alan Schneider, la
commedia ottiene subito un grande successo di pubblico, tanto da venir
replicata per due anni. Dello stesso autore sono degne di nota: A Delicate
Balance (1966), Seascape (1975) e Three Tall Women (1991),
che gli valsero tre premi Pulitzer.
In Italia, Chi ha paura
di Virginia Woolf? è stato messo in scena per la prima volta nel 1963, per
la regia di Franco Zeffirelli; poi da molti registi, tra cui, nel 1977, Franco
Enriquez, nel 1985 da Mario Missiroli, e nel 2005 da Gabriele Lavia (con
Mariangela Melato nel ruolo di Martha e lo stesso Lavia nel ruolo di George). È inoltre da ricordare la riduzione
cinematografica del 1966, per la regia di Mike Nichols, interpretata da
Elizabeth Taylor e Richard Burton.
Il
tragico inno all’amore di Edward Albee
di Chiara
Pasetti
«Mi sono assunto il compito
di scrivere di voi. Si è così compiuto uno dei miei più grandi auspici, dato
che la possibilità di scrivere sulle vostre opere rappresenta per me una
vocazione interiore, una festa e una gioia, oltre che un grande e nobile dovere
a cui volge la mia passione per la vostra arte». Rainer Maria Rilke a Auguste Rodin
Debutto in prima nazionale al Menotti di Chi ha paura di
Virginia Woolf?, che vede Arturo Cirillo alla regia e in scena nel ruolo di
George, Milvia Marigliano nel ruolo di sua moglie Martha, e Edoardo Ribatto e
Valentina Picello nei ruoli di Nick e Honey, l’altra coppia protagonista. Un
gruppo di attori, eccettuata Valentina che si è unita successivamente, che
avevano già lavorato insieme per Lo zoo di vetro di Tennessee Williams,
e l’affiatamento era evidente.
Lo spettacolo si svolge nel
salotto dei coniugi di mezza età Martha e George, che a tarda notte ospitano
una coppia più giovane, Nick e Honey, e danno il via a un lento gioco al
massacro, di se stessi prima ancora che degli altri, incentrato sui loro rimorsi
e rimpianti, le rivendicazioni, le delusioni e le angosce, le paure, reali o
fantasmatizzate. Un flusso di coscienza che ha l’aspetto di una seduta
psicanalitica in cui ognuno si trova allo specchio con se stesso, con un
proprio “doppio”, e con un proprio nemico. Curioso che Albee abbia scelto il
titolo, Chi ha paura di Virginia Woolf?, che gioca sulle parole lupo (wolf)
e il cognome della scrittrice (Woolf), dopo aver letto la frase,
scarabocchiata con il sapone, proprio sullo specchio di un bar. Il titolo,
canticchiato in scena numerose volte, ispirato all’aria «chi ha paura del lupo
cattivo?», fornisce numerose chiavi di lettura. Innanzitutto la paura, tema
ricorrente nel testo. Paura di amare, paura di non essere amati, paura di non
amare, paura di vivere, paura di invecchiare, paura di morire. Martha, la
bravissima Milvia Marigliano, fulcro della storia da cui si dipanano le
situazioni e le emozioni più forti, da lei dolorosamente rappresentate con
grande maestria e realismo, sembra una donna ormai disillusa dalla vita e dal
suo «opprimente» matrimonio. È piena di rancore nei confronti di suo marito,
l’istrionico e talentuoso Cirillo, che qui si costringe in abiti borghesi da
docente universitario, non rinunciando però alla sua vena (presente
effettivamente in George, sebbene non scopertamente) più astratta e onirica.
Gli rinfaccia di tutto, vomitandogli addosso uno «schifo» che alberga prima di
tutto dentro di sé. Ma in realtà le parole che Martha rivolge al marito, urlate
e sprezzanti, ironiche e umilianti, consapevolmente cariche di astio, si
perdono in un’unica lunga sinfonia indistinta, e quelle che restano
maggiormente sono le più disperate, espressione di una profonda lacerazione e
solitudine, che suonano come un tragico e tristissimo inno all’amore. Davanti a
loro, i giovani sposi Nick e Honey, inizialmente disgustati da tanto dolore e
disprezzo, che lentamente tuttavia si lasciano sempre più coinvolgere dai loro
giochi sadici e crudeli, come stregati da un malvagio incantesimo che li tiene
inchiodati al divano per tutta la notte, bevendo alcol e scoprendo moltissime
zone d’ombra di se stessi e del loro, per nulla felice, matrimonio. Davanti a
una luna (di miele-Honey, o di fiele?) che alla fine, dopo l’esplosione
delle coscienze e il collasso (simbolicamente rappresentati sul palco da una
pedana «sismica e sconnessa» che si rompe, si sposta, slitta, modifica gli
assetti iniziali) tramonta, per lasciare posto a un’alba che ricompone,
riavvicina, sistema, facendo tornare tutto come è sempre stato. L’altro tema
contenuto già nel titolo è quello del gioco: è un gioco di parole, come sono
giochi di parole quelli detti e agiti dai personaggi, e il più delle volte sono
giochi lugubri (sopra a tutti, quello che riguarda un immaginario figlio morto
della coppia Martha-George, e di un figlio mai nato della coppia Nick-Honey). E
la mente va al «gioco del rocchetto», celebre «psicodramma» freudiano che si
riporta al fenomeno, perfettamente espresso nel testo di Albee e dai quattro
attori in scena, della coazione a ripetere. Con tale espressione il fondatore
della psicoanalisi ha voluto indicare tutte quelle tendenze inconsce che,
spingendo l’individuo a ripetere comportamenti schematici o modi di pensare
costitutivi di esperienze conflittuali, costringono «a ripetere il
rimosso come esperienza attuale, anziché ricordarlo come un brano del passato».
Questo è ciò che continuano a fare i protagonisti, che come quattro bambini
bisognosi di sublimare esperienze dolorose, si “divertono” a ripetere i loro (terribili,
in questo caso) giochi. E alla fine, come ogni gioco che si rispetti, anche i
loro rivestono una funzione essenzialmente catartica, di liberazione delle
frustrazioni e delle angosce, funzione e risultato che si svela e si realizza
in chiusura (non senza una certa dose di dolcezza, la sola espressa fino a quel
momento), lasciando tutti un po’ cambiati, e in fondo sempre uguali. Edoardo
Ribatto è molto efficace nel suo ruolo di maschio avvenente, che fa da
contraltare (e da rivale) alla mediocrità di George, Valentina Picello fa un
uso sapiente ed elegante del corpo, con il quale comunica sia le emozioni più
scoperte sia quelle più nascoste di una donna giovane alle prese con il proprio
vissuto angoscioso e carico di nevrosi. Milvia Marigliano e Arturo Cirillo
emergono, grazie al talento e a un testo a loro congeniale, con struggente
violenza, per la grande capacità di tenere altissima la tensione dall’inizio
alla fine, e costringendo lo spettatore a immedesimarsi almeno un po’ in questo
(loro e nostro) «gioco lugubre».
S. Dalì "Gioco lugubre" 1929 |
«Il grottesco mi
assordava le orecchie e il patetico si torceva in convulsioni davanti ai miei
occhi. Da tutto questo traggo una conclusione: non bisogna mai temere di essere
esagerati»(Gustave Flaubert)
Fino al 24 maggio (dal martedì alla domenica) al Teatro Menotti
(via Ciro Menotti 11). Per info e
prenotazioni: www.teatromenotti.org
Ufficio stampa teatro Menotti: stampa@tieffeteatro.it
Arturo Cirillo è nato a Castellammare di Stabia nel 1968.
Dopo aver studiato danza, sia classica che contemporanea (formazione che si
nota nell’utilizzo consapevole, misurato e sempre armonioso del corpo), si è
diplomato come attore all’Accademia
Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma nel 1992. Negli
ultimi tempi ha messo in scena, sempre con ottimi riscontri di critica e
pubblico, Lo zoo di vetro, dal testo di Tennessee Williams, da lui
diretto e interpretato (nel ruolo di Tom), insieme a Milvia Marigliano, Edoardo
Ribatto e Monica Piseddu, La gatta sul tetto che scotta, sempre di
Williams, regia di Cirillo, con Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni, e Scende
giù per Toledo, testo di Giuseppe Patroni Griffi, di cui ha firmato anche
in questo caso la regia ed era il solo (bravissimo) interprete. Per saperne di
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