Artisti americani all’Art Master St. Moritz
di Claudio Zanini
Alexis Rockman "Biosfera e Oceano" 1994 |
Due cose subito colpiscono l’osservatore attento: una splendida
opera di Rauschemberg della serie “Urban
Bourbons” (1988/95), su sontuoso supporto d’acciaio (dunque, niente
mirabili stracci, spazzatura e trielina!); e due piccoli autoritratti di
Warhol, all’Hotel Kulm, letteralmente
cancellati, soffocati entro lo sfarzoso arredo primi ‘900 dell’albergo, ricco
di legni lustri, ottoni lucenti, tappeti preziosi, e tendaggi, velluti, fiori.
Si ha, quasi, l’impressione che i piccoli Warhol (il suo viso, imperioso!)
vengano privati dei famosi “quindici minuti di visibilità”, a cui ciascuno
avrebbe diritto nella propria vita, a vantaggio del contesto smisurato e lussuoso,
dal fascino decadente e rétro, dell’ambiente (Arthur Schnitzler vi avrebbe
ambientato qualche storia di nevrosi). Una vendetta del vecchio ordine
sopravvivente, ai danni dell’effimero anarchismo contemporaneo. Crimine che, in
tal modo declinato, piacerebbe alla coppia d’artisti newyorkesi David McDermott
e Peter McGough che, nonostante
molto apprezzino l’icona Warhol, praticando un raffinato anacronismo, rifiutano
il mondo contemporaneo e, ancor più, il futuro che prevedono disastroso. I due
artisti lavorano insieme, a quattro mani; elaborando un linguaggio
consapevolmente rétro, pervaso spesso d’elegante ironia, realizzano opere datate
molto indietro nel tempo. Qui, presso la Andrea
Caratsch Gallery, espongono una serie di cianotipie (1880/90), cioè delle foto che, evocando un lontano
passato, sembrano estranee alla disgustosa realtà contemporanea; un
bell’esempio dell’operazione è l’opera: Scioccato
nel leggere che Gesù Cristo è associato ai poveri e agli umili (1989),
chiaramente ispirata al dipinto, Goethe
nella campagna romana (1786) di J.H.Wilhelm Tischbein.
Un futuro già devastato,
indagato con visionarie vedute d’apocalisse, costituisce la tematica
dell’artista newyorkese presentato da Robilant+Voena,
Alexis Rockman. Sono paesaggi surreali, dipinti con minuziosa tecnica
iperrealista; panorami devastati da una guerra atomica, popolati non da umani,
forse estinti, ma pullulanti d’animali e insetti risultato di manipolazioni
genetiche; un bestiario ispirato da Bosch ma anche dalla fantascienza e
dall’illustrazione scientifica.
Uno sguardo che analizza
con estrema lucidità corpi e volti (di cui molti, fortunatamente, per come qui
appaiono, smentiscono le profezie catastrofiche riguardo al futuro
dell’umanità) è quello di Albert Watson, notissimo fotografo le cui opere sono
esposte al Kempinski Hotel. Per
tutte, citiamo i ritratti di Steve Jobs,
di Alfred Hitchcock e quello di Mick Jagger in sembiante di tigre. Sono
foto che si distinguono sia per l’alta qualità, sia per l’immediata
riconoscibilità dello stile, elemento principe, l’impaginazione sapiente del
rapporto luce/ombra, qualunque siano i soggetti e i temi rappresentati; mentre
colpisce l’introspezione psicologica, pervasa d’amorevole empatia nei confronti
dei personaggi ritratti.
Su un altro versante si
collocano le opere pop di Robert Indiana, molto colorate e di forte impatto,
simili ai marchi pubblicitari, esposte alla Gmurzynska
Gallery; mentre, alla Karsten Greve
Gallery, Joel Shapiro, presenta le sue strutture minimaliste d’intensa presenza
cromatica, sospese in geometrici e precari equilibri nello spazio; e Cy Twombly,
una serie di scarni disegni.
Presso la Chiesa Protestante di St.Moritz,
figurano artisti storici come Rauschenberg con un’opera della serie Urban Bourbons (1988/95) di cui s’è già
detto, e Frank Stella, con dei grandi rilievi barocchi in alluminio policromo
di forte impatto (1990).
Singolari gli interventi
di alcuni artisti intorno al marchio Montblanc, alla Schoolhause Gym; tra
tutti, ci sono rimasti impressi Tom Sachs e Robert Gratiot.
In un magnifico
salone dell’Hotel Bernina, a Samaden,
si può ammirare una serie di foto di Werner Blaser dedicate alle opere
dell’architetto Mies van der Rohe, di cui Blaser è stato allievo; scatti accostati
e sovrapposti alle foto di alcune realizzazioni del famoso architetto, che
rendono evidente il concetto di spazio aperto nelle architetture di Mies, in rapporto
con la tradizione e la natura circostante. L’interessante mostra, dal titolo: “Dio
si trova nei particolari” (frase di Meister Eckhart, prediletta da van der
Rohe), presenta anche opere recentissime di Sasha Berretz, ispirate dalle foto
di Blaser, in cui geometria e natura interagiscono.
La galleria Vito Schnabel presenta, oltre a un breve
video di Laurie Anderson, opere invero poco significative di artisti
neo-Espressionisti e interessati alla Street-Art, come Haring, Basquiat,
Schnabel, e una serigrafia di Warhol. Tutti lavori degli anni ’80.
Gli spazi suggestivi del Forum Paracelsus, al cui interno è illustrata
la storia delle sorgenti termali di St. Moritz risalenti all’età del bronzo, ospitano
fotografie di Richard
Avedon; alcune sculture e un (discutibile) Guernica
redacted (2016) di Robert Longo, assai più interessante come fotografo che,
tuttavia, qui non compare.
In conclusione, parecchie
opere di qualità, che conferiscono prestigio a una rassegna però assai poco esaustiva
(l’Espressionismo Astratto è assente perché si parte dagli anni ’80?, ma la Pop
Art, presente solo con Indiana e Warhol?), e in tono minore rispetto alle
edizioni precedenti. Da una sede prestigiosa come St. Moritz ci si deve
aspettare molto di più. Per esempio, abbiamo notato l’assenza di luoghi storici
importanti che, gli anni scorsi davano lustro alla rassegna, come il Museo dell’Engadina di St. Moritz, dove
i video dell’indiana Nalini Malani dialogavano sorprendentemente con l’ambiente
tradizionale, o Chesa Planta di
Samedan, dove la superba residenza patrizia accoglieva valorizzando le opere
esposte, soprattutto, quelle di Melotti. Aumentare questo tipo di location! Inoltre abbiamo rilevato una
certa incongruenza nelle presenze in mostra: una o un paio d’opere poco
importanti, non rendono giustizia all’artista, valorizzano soltanto il
gallerista che le possiede. Qui, il criterio di selezione, delle gallerie e
degli artisti, dovrebbe essere d’esclusiva pertinenza del curatore; e, forse,
un miglior coordinamento tra le gallerie sarebbe da auspicare.
Un ulteriore appunto: in
questa edizione la comunicazione è stata molto carente; certo, sappiamo che è
mancato il tempo, e si è fatto in fretta, tuttavia, fino a qualche giorno prima
dell’apertura non si conosceva il programma. E last but not least, notavamo che la brochure ha l’aspetto, non se
la prenda l’autore, d’un catalogo da supermercato di provincia.
La metafora dello
schiacciamento di Warhol nell’estremo lusso, citata all’inizio, ci porta a
considerare l’interessante introduzione di Sam Board sul programma, dove si
recita, con una sorta di luminosa intuizione, che “il vero lusso è il tempo, e sapere
come investirlo è un’arte”, frase che ha ispirato la manifestazione. E, la condizione
ideale da conseguire tale vero “lusso” consiste, dunque, nell’armonico
convergere di tempo, spazio, silenzio. Stato ideale che non ha valore
economico. Tuttavia il concetto di lusso che qui, talvolta, traspare, forse non
coincide esattamente con quanto affermato sopra; c’è una contraddizione tra il
mero fatturato e l’”essere altrove” rispetto al valore economico. Il lusso del
profitto dovrebbe arretrare sullo sfondo, allentare le maglie del dominio;
allora la figurina del bad boy Warhol
si potrebbe liberare e, insieme a lui, rifiorire l’arte, l’artigianato per una
produzione il cui fine è l’uomo. Questo è un auspicio e un augurio.