22 DICEMBRE 1947,
SETTANT’ANNI FA:
L’ASSEMBLEA COSTITUENTE
VOTA
LA COSTITUZIONE
REPUBBLICANA
di Franco Astengo
22 dicembre 1947: l’Assemblea Costituente approva
il testo della Costituzione Repubblicana con 453 voti favorevoli e 62 contrari,
dopo 170 sedute di discussione. Il 27 dicembre la Costituzione sarà firmata dal
capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola che assumerà il titolo di
Presidente della Repubblica, dal presidente dell’Assemblea Costituente Umberto
Terracini, dal Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e dal Guardasigilli
Giuseppe Grasso. Il testo entrerà in vigore il 1 gennaio 1948 al momento della
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Una data da ricordare con grande
evidenza in particolare in questa fase storica, dopo che il voto popolare – 4
dicembre 2016 – ha respinto un tentativo di modifica in senso autoritario di
alcune norme fondamentali e – a distanza appunto di settant’anni – abbiamo
ancora parti del dettato costituzionale non applicate oppure solo parzialmente
attuate. Non solo: abbiamo già verificato modifiche in senso negativo come
quella riguardante l’articolo 81 con l’inserimento dell’obbligo del pareggio di
bilancio o la pasticciata “deforma”, votata nel 2001, del titolo V riguardante
il rapporto tra lo Stato e le Autonomie Locali. Vale la pena allora ritornare
sia pure schematicamente su alcuni punti di riflessione sviluppati attorno al
testo della nostra Carta fondamentale.
La Costituzione democratica e la
trasformazione dello Stato
La
Costituzione Repubblicana è stata scritta, com’è noto, mentre andava rompendosi
la solidarietà antifascista e i conflitti crescevano d’intensità su tutti i
terreni, schierando le forze politiche e sociali in due campi contrapposti sul
piano nazionale e internazionale.
In quel
frangente verificatosi all’indomani di una delle più grandi tragedie della
storia, le forze politiche rappresentative della società italiana presenti
nell’Assemblea Costituente scelsero la strada di ricercare un intento comune
definendo l’obiettivo del rinnovamento dello Stato, in linea con l’esito
elettorale del 2 giugno 1946, allorché cittadine (ammesse per la prima volta al
voto) e cittadini avevano scelto la Repubblica. Il dato di novità più
importante, registratosi subito all’avvio del lavoro nuovo consesso ed
espressosi anche nella composizione stessa della Commissione dei 75 incaricati
di redigere materialmente il nuovo testo costituzionale che avrebbe sostituito
lo Statuto Albertino, fu rappresentato dal ruolo dei partiti che si
presentavano subito come protagonisti di una scena politica profondamente
trasformata rispetto al passato. Nella dialettica tra continuità e mutamento
che ha segnato gli anni della formazione dell’Italia Democratica, la
Costituzione repubblicana ha rappresentato un elemento essenziale attorno al
quale si raccolsero gli altri due momenti fondanti del nuovo periodo della
storia italiana: la lotta di resistenza antifascista e la battaglia per la
repubblica. La Carta Costituzionale, è bene precisarlo subito, è stata
anzitutto il risultato politico dell’intesa tra i tre grandi partiti di massa,
la DC, il Pci e il Psi, che su questo terreno riuscirono a intendersi meglio e
procedere in un accordo ben maggiore di quanto non fosse riuscito loro a
livello di governo e di confronto politico e ideologico. Il punto d’incontro fu
rappresentato, ed è bene rilevarlo proprio in quest’occasione, dalla
concordanza sui principi fondamentali dello Stato repubblicano, ben più
articolati e innovativi di quelli posti a fondamento dello Stato liberale. Lo
stato liberale era espressione di una società semplice, non ancora distinta per
interessi e partiti organizzati, rappresentata da un ceto politico omogeneo di
estrazione largamente proprietaria – borghese: ecco, al di là del proprietario
– borghese, ma sotto l’aspetto di un “ceto politico omogeneo” questo è il punto
di arretramento al quale intendono portarci adesso i fautori della personalizzazione
(primarie e collegi uninominali, presidenzialismo) e della governabilità.
Torniamo però al modello di Costituzione scaturita dall’accordo tra i partiti di massa, nell’intento di superare – appunto – la concezione dello Stato liberale nella sostanza, come “Stato – amministrativo”, nell’avversione verso il principio politico di segno democratico della sovranità popolare. Nella Costituzione repubblicana del ’48 si era affermata, invece, la funzione centrale dei partiti politici, come strumento per l’esercizio della sovranità del popolo, e non più solo dello Stato come amministratore. La assegnazione ai partiti di un rango di livello costituzionale attraverso l’articolo 49 (mai completamente applicato, peraltro) ha significato, in sostanza, la scelta di una Repubblica parlamentare come forma di Stato. Dal concetto di Repubblica parlamentare derivano: la centralità dei consessi elettivi, la limitazione del ruolo del governo, il rifiuto del presidenzialismo. Tutti elementi distintivi che è necessario difendere ancor oggi. La modifica del sistema elettorale in senso maggioritario, avvenuta nel 1993, l’esasperazione del concetto di personalizzazione della politica hanno messo in discussione questi principi fondativi. In particolare l’affermazione del concetto di personalizzazione della politica (fittiziamente contrabbandato anche nelle elettorali attraverso l’imposizione della designazione – con tanto di indicazione nella scheda – del “Capo della Coalizione” e adesso del “Capo della Forza Politica”).
Piero Calamandrei |
Torniamo però al modello di Costituzione scaturita dall’accordo tra i partiti di massa, nell’intento di superare – appunto – la concezione dello Stato liberale nella sostanza, come “Stato – amministrativo”, nell’avversione verso il principio politico di segno democratico della sovranità popolare. Nella Costituzione repubblicana del ’48 si era affermata, invece, la funzione centrale dei partiti politici, come strumento per l’esercizio della sovranità del popolo, e non più solo dello Stato come amministratore. La assegnazione ai partiti di un rango di livello costituzionale attraverso l’articolo 49 (mai completamente applicato, peraltro) ha significato, in sostanza, la scelta di una Repubblica parlamentare come forma di Stato. Dal concetto di Repubblica parlamentare derivano: la centralità dei consessi elettivi, la limitazione del ruolo del governo, il rifiuto del presidenzialismo. Tutti elementi distintivi che è necessario difendere ancor oggi. La modifica del sistema elettorale in senso maggioritario, avvenuta nel 1993, l’esasperazione del concetto di personalizzazione della politica hanno messo in discussione questi principi fondativi. In particolare l’affermazione del concetto di personalizzazione della politica (fittiziamente contrabbandato anche nelle elettorali attraverso l’imposizione della designazione – con tanto di indicazione nella scheda – del “Capo della Coalizione” e adesso del “Capo della Forza Politica”).
A questo si
è pericolosamente modificata la stessa natura della soggettività politica (già
alterata dal mutamento profondo nei meccanismi di comunicazione) al punto da
veder affermato il concetto di “partito Personale”.
In questo
modo è venuta, via via affermandosi una trasformazione nel senso di una
sostanziale riduzione nei margini di agibilità democratica, in nome del primato
del liberismo economico, del taglio di un presunto eccesso di domanda sociale,
di sostanziale riduzione nel rapporto tra politica e società, di affermazione
di una “autonomia del politico” fondata su di una separatezza basata su veri e
propri privilegi di casta. Al momento
della costruzione della Costituzione Repubblicana si era affermato invece il
passaggio dallo Stato liberale – borghese (quello cui oggi si tende a voler
definitivamente tornare), che non interveniva nella direzione dell’economia e
nella regolazione della società e stentava a riconoscere l’organizzazione dei
partiti, allo Stato pluriclasse, allo Stato sociale che trovava un momento di
realizzazione per quanto parziale e contraddittoria proprio nella tutela
costituzionale assicurata ai diritti politici e sociali dei cittadini, visti
come persone dotate di autonomia di fronte allo Stato e unite da vincoli di
socialità e solidarietà. Su questo
terreno dei principi fondamentali, del riconoscimento costituzionale dei
diritti sociali, della funzione centrale dei partiti nella democrazia repubblicana si era determinata un sostanziale convergenza tra i grandi partiti
di massa che erano stati protagonisti della Resistenza. Le
espressioni del solidarismo, nelle diverse accezioni cristiana e marxista,
rappresentarono il cemento più forte che contribuì a saldare l’intesa
costituzionale fra i maggiori partiti e ne rappresentò la base comune per
l’inserimento nel testo della Carta fondamentale delle norme a carattere
programmatico e dei diritti sociali. Ma l’accordo tra i partiti di massa,
realizzato appunto sui principi fondamentali e sulla centralità dei partiti nel
nuovo sistema democratico, si rivelò molto più faticoso da conseguire quando si
trattò di definire le forme di organizzazione dello Stato.
Calamandrei
scrisse : “il problema dell’organizzazione dei poteri è quello delle forze che
governano i meccanismi del potere non sono due problemi distinti: sono tutt’uno
e solo un approccio che li affronti assieme appare storicamente corretto e
utile”.
Questo
approccio “corretto e utile” si affermò solo parzialmente e fu alla base dei
ritardi, dei difetti, della sostanziale incompletezza nell’applicazione del
dettato costituzionale, nel corso degli anni di tutto il dopoguerra fino alla
crisi della “infinita transizione” di fine secolo che si protrae ancora oggi. Una infinita
transizione che pare proprio aver virato di bordo verso l’idea di un vero e
proprio ritorno all’indietro, a rapporti politici e sociali di stampo
ottocentesco, sia pure mascherati dalle esigenze dell’apparire imposte da
novità tecnologiche incentrate quasi esclusivamente sull’indirizzo del formare
una “società dell’immagine” le cui espressioni di dominio sarebbero ormai
affidate soltanto all’economia e alla tecnica.
“Società
dell’immagine” governabile quindi soltanto da una sorta di neo-notabilato, un
ceto nel quale l’intreccio dovrebbe realizzarsi tra “autonomia del politico” e
“autonomia del tecnologico”: intreccio posto al di fuori da qualsiasi
possibilità di intervento e controllo sociale. Con le elezioni ridotte a
ratifica della “governabilità”.
La
discussione alla Costituente sul tema dell’organizzazione dello Stato era stata
avviata nel Marzo del 1947, quando al governo c’era ancora la coalizione
tripartitica, e si concluse alla fine di quell’anno quando appariva definito,
dopo il Piano Marshall e il Cominform, un sistema mondiale di tipo bipolare. La
Costituzione Italiana, votata il 22 dicembre 1947 e promulgata il 1 gennaio
1948, vide la luce quando era già profondamente mutato il quadro politico e
sociale su cui era stata fondata. Si verificò così il fenomeno cui si è già
accennato poc’anzi: lo Stato nuovo, che doveva nascere dall’attuazione di
quell’innovativo dettato costituzionale, fu bloccato dal prevalere dello
scontro politico e sociale tra le forze che si erano unite nel progetto di
costruire una democrazia sociale avanzata dentro un’adeguata cornice istituzionale,
che avrebbe dovuto segnare una rottura con il precedente ordinamento statale. Così non
avvenne, se non parzialmente e rimase la necessità di realizzare una effettiva
corrispondenza tra le forme istituzionali del potere e forze e rapporti
sociali: corrispondenza dalla quale realizzare un effettivo indirizzo politico.
Da quel
varco sono passati, nel corso di questa lunga crisi politica e morale, i
fautori di una sorta di “Grande Riforma” i cui termini negativi sono già stati
ampiamente descritti .
”Grande
riforma” di stampo presidenzialista che persiste nelle intenzioni di una sorta
di “coalizione dominante” nonostante il risultato elettorale del referendum
2016 allorquando l’idea della verticalizzazione del potere si scontrò,
perdendo, con l’orizzontalità della complessa dimensione sociale. L’idea
presidenzialista intesa come accentramento della gestione del potere sta ancora
nelle aspirazioni e nei disegni di settori consistenti dell’establishment e
delle lobbie tecnocratiche: l’idea, cioè, dello Stato esclusivamente
“amministratore”.
Dobbiamo
riprendere, quale insegna di una battaglia democratica, quanto i partiti della
sinistra espressero nella fase Costituente : l’idea, cioè, di una repubblica
fondata sulle Camere (e quindi sulla rappresentanza politica) intese come
suprema espressione della volontà popolare e non certo su di un governo
espressione di “lobbies” più o meno occulte come ci è capitato di subire nel
corso degli ultimi anni, vissuti sempre, sotto questo aspetto, “border line”
rispetto alla legalità repubblicana. Una situazione che ha dato spazio prima
alla cosiddetta antipolitica , poi addirittura della “inpolitica” ossia di
assenza di politica testimoniata dal calo verticale della partecipazione, non
soltanto elettorale. A
settant’anni di distanza è ancora necessario continuare a battersi per la
Repubblica del “Parlamento come specchio del Paese” contro la torbida idea
della “Rinascita Nazionale” portata avanti dagli epigoni della P2 di Licio
Gelli.