IL LAGGIÙ
di
Rinaldo Caddeo
Rinaldo Caddeo |
Non
c’era un divieto esplicito, una legge.
Ciascuno
aveva un modo diverso di farne cenno, con un gesto della mano o della testa, o
con una frase di poche parole ovvero con pochissime, smozzicate circonlocuzioni
(nel laggiù, là in fondo, alla fin fine, da lì in avanti, là sotto),
da cui si poteva dedurre che indicava ciò che non poteva essere nominato. In
fondo non c’era bisogno di parole, bastava il gesto. Per chi se ne intendeva
bastava una certa espressione del viso.
Era
una cosa piena di paura. Meglio tacere.
Era
un luogo senza nome ma che si sapeva che esistesse. Non era nemmeno indicato
nelle carte stradali.
Quando
non se ne poteva fare a meno o quando uno meno se l’aspettava, se ne facevano
delle allusioni. Ma nessuno ne parlava volentieri davanti agli altri e se c’era
qualcuno che insisteva veniva pregato di piantarla o in casi estremi, veniva
zittito o allontanato.
Circolavano
tante voci, persistenti ma
clandestine, che si smentivano l’una con l’altra, sull’origine di quel luogo:
una mastodontica e modernissima centrale a fusione nucleare, che avrebbe
garantito energia sovrabbondante per tutti; un gigantesco inceneritore che
avrebbe mandato in fumo tutti i rifiuti di tutti i tipi; una colossale
discarica che avrebbe raccolto la spazzatura di tutto il territorio, risolvendo
ogni problema di smaltimento, senza le
seccature e le difficoltà della raccolta differenziata. Una delle versioni più
accreditate era quella che nel laggiù fosse stato costruito e reso
operativo un laboratorio di fisica avanzatissimo, un super-acceleratore di
particelle situato in un tunnel di 172 chilometri di diametro, scavato nella
roccia, dove si producevano le collisioni tra le particelle elementari e dove
gli scienziati avrebbero individuato la particella Ghenesis, quella del big-bang all’origine dell’Universo. In tutti i
casi la conclusione era la stessa: una colossale esplosione che aveva
spalancato un buco abissale.
Karima
era una giovane straniera appassionata di astronomia e filosofia. Si era
ambientata bene, lavorando e imparando con rapidità la lingua del posto.
Aveva
capito che quel luogo, il laggiù, era
situato nella zona semi-desertica a nord della città dove viveva, che non era
impossibile da raggiungere e che molti, di nascosto, ci erano andati o dicevano
(in segreto) di esserci stati. Anzi, che prima o poi uno ci provava, almeno una
volta nella vita, ad andarci e a volte non ritornava indietro. Le persone
sparivano così, da un giorno all’altro. E chi ritornava non ricordava niente o
diceva di non ricordare o diceva che non si vedeva un fondo e che se ci gettavi
un sasso, piccolo o grande, non sentivi il rumore di un sasso che arriva in
fondo nemmeno dopo mezz’ora e c’era chi aveva aspettato settimane, mesi, anni,
senza muoversi di lì e aveva provato e riprovato inutilmente.
Da
laggiù non arrivava un eco o un
segnale.
E
non mancavano mai persone, dicevano, che guardavano dentro o che si distraevano
chiacchierando, mangiando o dormendo lì intorno o stavano lì zitti, immersi nei
loro pensieri.
E
non mancava anche qualcuno, ogni tanto, che ci si buttava dentro urlando o in
silenzio. Qualcuno si è calato legato a una corda, qualcun altro si è gettato
con il paracadute e anche di lui non si è saputo più niente.
Karima
ne parlava con Bagos. Cercando di dare un nome a quel luogo senza nome,
evitava, almeno con lui, le circonlocuzioni avverbiali degli altri e lo
chiamava con dei sostantivi scientifici:
il magnete, la simmetria, la singolarità, il vuoto quantico, l’orizzonte degli
eventi.
Un
giorno Karima chiese a Bagos, suo compagno di lavoro al ristorante, una persona
di cui si fidava ciecamente, di accompagnarla lì.
Bagos
aveva cercato di distogliere Karima, ma vedendo che era decisa, preferì essere
lui ad accompagnarla, piuttosto che un’altra persona, poco consapevole,
inesperta o malintenzionata o piuttosto che magari ci andasse da sola, senza
dir niente a nessuno.
Ci
andarono un martedì, quando il ristorante era chiuso per turno.
Bisognava
attraversare in macchina il deserto per due ore. Poi comparivano i cartelli di
divieto, ma dando una buona mancia, i guardiani del confine lecito, chiudevano
un occhio.
Poi
c’era un pezzo di mezz’ora circa, da fare a piedi, per un sentiero scosceso e
tortuoso, sempre più ripido, tra rocce, belve infrattate e cespugli. Un
tragitto incerto e pericoloso in cui molti cadevano, venivano sbranati o si
facevano male o si perdevano.
Quindi
si raggiungeva l’orlo da cui saliva la nebbia.
Per
fortuna, oltre a conoscere le insidie della strada, Bagos, che evidentemente
c’era già stato da solo (anche se non lo ammetteva), ora, accompagnato da
Karima, lui davanti lei dietro, in cordata, aveva portato l’equipaggiamento
adeguato: un fucile automatico (che teneva lui), un coltello da caccia (che
aveva consegnato a lei), scarponi da montagna, corde, ramponi e giacche-a-vento
perché lì, sia d’inverno sia
d’estate, faceva sempre freddo.
Si
arrivava alla fine che c’era un occhio enorme aperto sul vuoto, come l’apertura
di un enorme pozzo. L’orlo di pietra era coperto di muschio verdenero. Rocce,
spuntoni, pinnacoli, cespugli spinosi, ne impedivano, in parte, la visuale.
E
quello che c’era aldilà sembrava un oceano svuotato con dei fantasmi che
scendevano o che salivano dalle strette scale di una cripta.
Un
vento di risucchio scendeva nel buco. È un vento a spirale che porta con sé
polvere, frantumi, a volte strappa via copricapo, capelli, foulard, occhiali,
guanti, fogli di carta, un vento che stordisce. Quando raggiuge l’orlo crea una
vaporosità spumeggiante che sale dalla superficie come di una pentola che
ribolle colossale. Frammenti di roccia, terriccio e rametti ruotano con il
resto. C’è un rombo caotico, come quello di una frana o di una cascata, in cui
si sentono voci, risate, grida di aiuto, fischi, ruggiti, ululati, miagolii ma
ci sono anche lunghi periodi di calma.
Qualche
volta ci sono folate dal basso che aprono dei varchi in cui guardare.
Tutti
guardano giù, cercano di vedere. E c’è chi dice di aver visto un prato, e chi
una foresta, e chi un villaggio, e chi un grattacielo o un oceano o un castello
o un gigante di pietra o una gradinata di marmo o un arcobaleno… tutte cose
lontanissime.
All’improvviso
il vento cessa e c’è un grande silenzio.
Quando
raggiunsero l’orlo, Karima aveva chiesto a Bagos di slegarla e Bagos aveva
acconsentito subito ma controvoglia. Si sedettero su di un masso, a un metro
l’uno dall’altra, e rimasero seduti per un tempo che nessuno dei due è in grado
di ricordare quanto fosse.
C’è
grande silenzio. Nessuno osa parlare. Bagos vede Karima sempre più presa. Immersa nella contemplazione, si
sporge pericolosamente.
Finché
non la agguanta, con tutte e due le mani, per un braccio e la tira indietro.
Lei
oppone resistenza, s’inclina dalla parte opposta. Poi si libera della presa.
Sembra che stia per cadere e rotolare lungo il precipizio. Oscilla, fa un passo
doppio e riprende l’equilibrio, si volta e lo guarda: «andiamo via, basta così, sappi, però, che non
avevo nessuna intenzione di buttarmi».
Tornarono a casa
a testa bassa, senza dire una parola. Da allora anche loro non ne parlavano più
volentieri e cominciarono a usare le circonlocuzioni linguistiche degli altri.