QUOTIDIANITÀ
di
Angelo Gaccione
In apparenza la quotidianità, e il
suo fluire, sembra identica per tutti: banale, monotona, ripetitiva, priva di
slanci e di accensioni. Scandita da quello che convenzionalmente abbiamo
chiamato tempo, e che segna l’arco delle nostre giornate: da quando lasciamo il
letto al mattino per ritornarci alla sera. Ogni professione – ed ogni mestiere
– è condizionata da questo tempo circolare, e, insieme, dalla ripetitività a
cui essa obbliga. Vale per le fabbriche, per gli uffici, per le scuole, per lo
sport, per la ricerca, e persino per quella che con un termine abusato
definiamo attività creativa. E ciò perché ogni professione ha delle regole
rigide, ogni attività il suo metodo. Questa ritualità alla lunga finisce per divenire
un tran tran oppressivo e giustamente i parigini l’hanno sintetizzato nella
triade: métro,
boulot, dodo (metrò, lavoro,
nanna). Se questa condizione appare universale, essa ha però anche degli
aspetti individuali legati a delle variabili precise: età, salute, posizione
sociale, imprevisti, disgrazie, successo, lutti e quant’altro un essere umano è
costretto a subire nel corso della sua vita. In un contesto in apparenza così statico
esiste un eroismo della quotidianità che ha del miracoloso e si incarna in
gesti affettuosi, di attenzione, di cura; gesti semplici, piccoli gesti che
rivelano un radicato substrato di umanità che pervicacemente resiste ad ogni
intemperia, ad ogni tempesta, ed è il motivo che spesso ci convince a non
disperare del tutto. Curare, come fa una mamma degna di questo nome, il proprio
congiunto fino alla fine e senza un lamento è qualcosa di così umanamente
immenso che, nella società d’oggi, paragoniamo ad una fatica sovrumana
superiore alle nostre forze e alla nostra sopportazione. Fare visita ad un
amico ammalato, prestare attenzione alle cose minime dell’esistenza, non
richiede, invece, una devozione così totale. Mettersi in ascolto vuol dire semplicemente
disporsi all’umiltà, ad una gentilezza che vuole fare i conti con il nostro
egoismo. Si tratta di un atteggiamento che in fin dei conti non costa nulla, ma
può fare grandi cose e giovare più di quanto si creda. È a questa sensibilità che
dovremmo educare la gioventù se fossimo saggi. La famiglia da questo punto di
vista può poco: in genere i figli si rivoltano contro tutto ciò che avvertono in
casa come un fastidio, quando sono per l’appunto figli, e diventano consapevoli
dell’errore solo quando si trasformano a loro volta in genitori ed è ormai
troppo tardi. Ma negli asili, nelle scuole, nei luoghi preposti al compito
educativo e pedagogico, si può fare molto perché le figure di riferimento – e
con le quali i minori si identificano – sono ai loro occhi più autorevoli dei genitori.
Inoltre esse agiscono sul collettivo, sul gruppo, sulla collaborazione, sul
comportamento comune, per una quantità di ore che ad un genitore impegnato nel
lavoro non è assolutamente consentito. È qui che andrebbe sconfitta la
competizione, la logica perversa della supremazia per gareggiare in gentilezza
e solidarietà. Per imparare sin da subito uno dei più profondi principî umani e
che io ho sintetizzato nel distico di questi semplici versi: “compassione
per chi cade”/ “con passione per chi solleva”.