ANNI DI PIOMBO
di
Guido Salvini - magistrato
Chiedere
alla Francia l'estradizione dei latitanti era per lo Stato un diritto e forse un
dovere politico, Chiamarlo atto di vendetta è puro, obsoleto linguaggio
ideologico. Era un atto dovuto ma, alla luce dei precedenti, il rigetto dei
giudici francesi era abbastanza scontato.
Le
autorità francesi vedono quello che è successo in quegli anni in Italia ed in
particolare nelle aule di giustizia molto da lontano, come attraverso un binocolo
rovesciato. Dire ad esempio che l'estradizione avrebbe creato problemi
familiari a coloro che sono latitanti, per scelta, anche da quarant'anni
significa svilire completamente i ben più gravi, chiamiamoli con un eufemismo “problemi”,
che hanno vissuto i familiari delle vittime. Quello che si legge in quelle
sentenze è frutto di un atteggiamento davvero ipocrita e tartufesco, per usare
un termine francese. Solo su questa base minima si può cominciare una discussione seria.
Purtroppo, in questi giorni, come in passato, il dibattito si è fermato a
livello politico-ideologico, è rimasto a livello del tutto astratto e nessuno
ha avuto voglia di andare a vedere come quei processi siano stati celebrati. Vale
la pena di rievocarli.
Delle
10 persone di cui si chiedeva l'estradizione 5 sono lombarde, giudicate a
Milano. E conosco bene quei processi celebrati a
Milano negli anni ’80. Presiedevano i cd maxiprocessi nelle aule bunker delle
Corti di assise magistrati assolutamente indipendenti e lontani da qualsiasi
forma di rancore. Ricordo il presidente Antonino Cusumano e mi permetto di
ricordare tra gli altri anche mio padre, il presidente Angelo Salvini. Io
intanto iniziavo a lavorare come Giudice istruttore e quindi avevo un altro
punto di osservazione privilegiato di quella stagione giudiziaria. Non è
affatto vero che quelli fossero processi speciali, è una vera menzogna che tra
l'altro offende i magistrati che hanno presieduto le Corti e tutti i loro
colleghi che hanno giudicato sempre secondo coscienza. E con una certa dose di
coraggio perché le misure di protezione erano minime. Non vi è mai stato nessun
atteggiamento di rancore anche se, ricordiamolo, appena prima di quei processi due
magistrati milanesi conosciuti e stimati da tutti, Emilio Alessandrini e Guido
Galli, erano stati vilmente assassinati colpiti alle spalle e contro altri
magistrati inquirenti, ricordo fra tutti Armando Spataro, erano stati
progettati attentati omicidiari che solo per un caso non erano andati a buon
fine. Basterebbe leggere gli atti, ma ricordo bene anche le udienze cui ho
assistito, per rendersi conto che anche a quegli imputati, come a tutti, erano
garantiti pienamente il diritto di difesa e una corretta valutazione delle
prove.
Non erano processi di guerra. I difensori, sarebbe bello che qualcuno pubblicasse i verbali di qualcuna di quelle udienze, hanno sempre avuto in pienezza la facoltà di interrogare i testimoni, di contestare le prove a carico e di svolgere, anche in modo acceso, come è un diritto, ricordo tra loro Giuliano Spazzali, le loro argomentazioni in contraddittorio. Tutti, anche quei difensori di “area” che erano molto vicini al mondo dei loro assistiti. E anche gli altri processi, quelli celebrati a Torino e a Roma ad esempio, si sono svolti nello stesso modo. Le sentenze, migliaia e migliaia di pagine, hanno sempre spiegato in modo motivato e preciso perché si era pervenuti a condanne. Del resto la grande maggioranza degli imputati prima o poi, con la dissociazione, hanno confessato. Certo il clima soprattutto nei processi di primo grado era molto teso. In aula dalle gabbie spesso risuonavano slogan, non dico che il clima fosse idilliaco e che ad esempio da parte dei magistrati dell'accusa non vi siano state durezze. Ma abbastanza presto era divenuto un po' un gioco delle parti e già nei processi di appello lo scontro si era molto attenuato, man mano che la lotta armata andava esaurendosi con il fallimento dei suoi progetti.
Credo che gli imputati si fossero resi benissimo conto, anche senza ammetterlo, che dinanzi a loro non avevano dei nemici o dei servi di un imprecisato sistema ma magistrati che svolgevano il loro lavoro cercando di capire e rispettando i diritti degli imputati. Anche quando questi non dimentichiamolo, oggi nessuno lo dice, rifiutavano gli avvocati e la difesa. Il Presidente dell'Ordine degli avvocati di Torino Fulvio Croce che nel processo alle BR aveva assunto la difesa di ufficio perché per un avvocato quello era un dovere come per un medico curare un malato, fu per questo assassinato sotto casa. Voglio ricordare poi che nel carcere di Bergamo a metà degli anni ’80, precisamente il 15 marzo 1986 vi fu un evento straordinario, era il carcere in cui erano detenuti la maggior parte dei terroristi che si erano avviati, dopo una riflessione collettiva, sul percorso della dissociazione. C’erano ad esempio gli ex capi di Prima linea, tutti con molti omicidi alle spalle. Ebbene su questo tema si tenne un incontro comune tra magistrati e detenuti, presenti anche esponenti politici, il Direttore generale degli istituti di pena e cappellani del carcere, che si trovarono a discutere insieme non in un’aula bunker ma nella palestra del carcere di via Gleno, ove tra l'altro operavano un magistrato di sorveglianza come il dr. Zappa e un direttore, il dr. Porcino, molto sensibili all'importanza dei percorsi di recupero e di uscita dalla violenza. Ero presente, allora molto giovane fu, un momento anche emozionante perché per la prima volta non eravamo divisi dalle sbarre e di fatto da quel convegno uscì la legge sulla dissociazione del febbraio 1987.
Le
autorità francesi dovrebbero sforzarsi di capire di
più e usare
meno spocchia nei loro provvedimenti. Non so con precisione come si siano svolti
i processi politici all’epoca in Francia ma ho l'impressione che fossero assai
meno garantiti dei nostri. In qualche modo “speciali” semmai in Italia
all'epoca non erano i processi ma le pene che non dipendevano dalle Corti ma dalla
volontà del legislatore perché l'art. 1 del Decreto-legge 625\1979, e cioè
l'aggravante della finalità di terrorismo, le aveva notevolmente elevate.
Tuttavia
gli anni irrogati si sono stemperati abbastanza rapidamente, sia grazie
all'attenuante della dissociazione sia grazie ai benefici penitenziari come i
permessi, il lavoro esterno e la semilibertà concessi da Magistrati di
sorveglianza illuminati a coloro che di fatto non erano più pericolosi. Alla
fine dopo aver scontato un numero di anni di carcere non molto elevato, addirittura
in proporzione inferiore a quello che scontavano talvolta i detenuti comuni per
reati analoghi, tutti sono usciti e ritornati alla vita civile. Basterebbe fare
i conti. Gli ex-terroristi in carcere, ad oggi sono
pochissimi, vi è rimasto solo chi l'ha voluto. Questa lettura politico-
giudiziaria certo non esaurisce un problema che ciclicamente si ripresenta.
C'è
un piano etico, umano e psicologico da non dimenticare e che può farci
intravvedere, siamo nel campo della simulazione, altri scenari.
Proviamo
ad immaginare che la Francia conceda l'estradizione, forse che qualcuno degli
anziani latitanti anche la accetti, forse prima di morire vuole anche rivedere
il suo paese. Scendono dalla scaletta dell'aereo tra due Carabinieri. Questo è
il momento simbolico, che rappresenta una catarsi psicologica. La fuga è
finita, la partita è persa, devono sottomettersi alle sentenze emesse in nome
del popolo italiano. È il kairos, l'attimo speciale dei greci che cambia
ogni cosa. Poi sarebbero davanti al Magistrato di sorveglianza. Chi non lo ha
mai fatto potrebbe confessare le proprie responsabilità, anche solo le proprie,
per offrire alla fine una verità riparatoria alle famiglie delle vittime e alla
storia. Sarebbe poi facile avere conferma che nessuna di queste persone è più
pericolosa, che non potrebbe comunque tornare ad uccidere. A questo punto non
ci sarebbe più nemmeno bisogno del carcere. Potrebbero uscire grazie a benefici,
ragionando sempre per immagini, anche dopo solo un pezzetto di pena e tornare
alla loro vita, alla famiglia, al lavoro, più probabilmente alla pensione. Non
credo nemmeno che tutti i parenti delle vittime, avuta soddisfazione sul piano
di principio e simbolico, abbiano il desiderio e l’interesse a vedere persone
di 70 anni finire i loro giorni in carcere. Viene in mente, con le debite
differenze, quella fotografia apparsa su molti giornali in cui, mentre in un paese
mediorientale un condannato sta per essere impiccato, si avvicina la madre della
vittima e gli dà uno schiaffo sul viso. Non per un gesto di disprezzo negli
ultimi momenti di vita ma perché ciò simbolicamente significa che lo ha
perdonato. E all'ultimo momento, infatti il condannato è stato graziato.
Questa
è stata una scena reale. Quella che abbiamo descritto forse è solo una
simulazione letteraria. Ma se accadesse questa storia immaginata allora la
partita sarebbe veramente chiusa. E si potrebbe voltare davvero l'ultima pagina
e chiudere il libro.