FIESTA
di Angelo Gaccione
Ernest Hemingway
La prima edizione del fortunato
romanzo di Ernest Hemingway non è quella einaudiana del 1946. Ce n’è un’altra
precedente e risale a due anni prima, al 1944, praticamente stampata in piena
guerra, ed è quella dalla sobria ed elegante copertina dal vago colore rosso
pubblicata con il titolo: E il sole sorge ancora dalle edizioni Jandi
Sapi (Milano-Roma) e tradotta da Rosetta Dandolo. Oggi quella edizione si può
trovare in Rete anche a trecento euro. Disperavo di recuperare la mia di copia,
considerato lo stato in cui versano da tempo i miei libri in “Carboneria” e non
essendo divisi né per genere, né per autore. La disposizione arbitraria, la
quantità esagerata e il “contenitore” caotico, non mi facevano nutrire alcuna
fiducia. E invece, colpo di scena, il libro era in casa, in uno scaffale dietro
le mie spalle e mi aspettava. L’ho individuato subito: era in una busta di
cellofan (ho questa puerile illusione di proteggerne la vita dalla polvere e
dagli acari) in compagnia del secondo volume di Resurrezione di Tolstòj (Fratelli
Treves Editori 1938) e del romanzo di Arpino Passo d’addio (Einaudi
2005). La compagnia è dovuta più o meno alla misura, ma non deve essersi
trovato male Hemingway perché Resurrezione è un capolavoro e il libro di
Arpino apre con una frase perentoria e fulminante: “La vita o è stile o è
errore”.
Ernest Hemingway |
Il libro di Emingway è fondamentalmente stile. Sto parlando di
Il sole sorgerà ancora, più noto in Italia con il titolo di Fiesta.
L’edizione in mio possesso è un Oscar Mondadori del 1966 e costava 350 lire;
sotto la firma con il mio nome apposta a penna compare una data: Milano 1980.
Da chi lo avrò comprato? Quanti soldi avrà voluto il venditore? Qua e là le
pagine portano le mie tipiche sottolineature a matita rossa. Mai avrei osato
usare una biro, come è stato fatto dal (primo?) possessore al rigo 17 di pagina
127, che deve avermi stizzito quando lo lessi 44 anni fa, e che mi procura lo
stesso fastidio a distanza di tanto tempo.
Forse allora non ci badai, ma ora mi chiedo perché quel titolo
da fotoromanzo; perché Hemingway non abbia tenuto Fiesta, parola che
compare di continuo e che alla fiesta di San Firmino si ispira. Ho letto da
qualche parte che voleva evitare un titolo straniero, lui americano. Certo in
inglese non avrebbe reso bene, e tanto meno in francese. Pare che il libro lo
avesse concepito e in parte scritto a Parigi nel 1925, ma sarà pubblicato a New
York nel 1926. Fiesta è un titolo secco e i lettori di lingua inglese si sarebbero
facilmente abituati. Un primo viaggio in Spagna per prendere dimestichezza con
le corride, Hemingway lo aveva fatto nell’estate del 1923. Era stato a Siviglia
ed aveva potuto vedere sia lo spostamento a piedi dei tori (gli ancierros),
sia le novilladas con giovani torelli, e aveva fatto conoscenza con
diversi toreri. Quando vi tornò l’estate successiva, nel 1924, conosceva
già l’atmosfera, il rito, l’esaltato delirio, la spietata ferocia delle
corride, il clima di festa. Certo, Pamplona era un universo tutto suo, e il
capoluogo della Navarra con la festa dedicata al patrono San Firmino e quella
folle idea di liberare micidiali tori per le vie della città, non aveva eguali.
Uno scrittore vitalistico come lui a tutto questo non poteva non essere
sensibile. In fondo, se ci si riflette, ci vuole fegato per farsi rincorrere da
una mandria di torri inferociti; ci vuole una discreta dose di irresponsabilità
e di spavalderia per non avere remore davanti ai feriti, alla morte, al sangue
che si sparge per le strade e nell’arena. In piccolo, la simulazione di un
conflitto bellico.
Sono sicuro che già dal primo viaggio in terra spagnola, egli
accarezzava l’idea di scrivere di tori, toreri e corride. E che quelli che
furono chiamati scrittori della “generazione perduta”, non avessero bisogno di
spinte particolari per immergersi in contesti estremi e incamminarsi lungo una
china fatta di eccessi di ogni tipo. Parigi era già per lui e per i suoi amici
terra di eccessi; e lo era per le generazioni di artisti e letterati emigrati
provenienti dai luoghi più diversi, non solo americani. Terra di sesso, bevute,
risse, ma anche di creatività, relazioni intellettuali, passioni, solidarietà e
così via. E lo sarà la Spagna raccontata nel romanzo Fiesta nello
svolgersi dell’arco delle giornate di San Firmino. Il narratore-giornalista di Fiesta,
Jake Barnes, è scopertamente l’alter ego di Hemingway. Gli amici che partiranno
con lui per Pamplona, o che là lo raggiungeranno (a cominciare dallo scrittore ebreo
newyorkese Robert
Cohn, da Bill Gorton, dallo scozzese Mike Campbell e soprattutto da Lady Brett Ashley), hanno motivi diversi: per
pescare, prendere parte alla fiesta, assistere alle prodezze dei
toreador, entrare nelle grazie della donna del gruppo: la disinvolta e dalla
psicologia contorta Brett. Brett è incapace di relazioni durature, ma Jake le
dimostrerà una devozione sconfinata, una fedeltà di sentimenti e un sostegno
che non verranno mai meno. A parte Cohn, il resto del gruppo ci dà dentro di
brutto con le bevute, e le sbronze continue servono ad impastare disagio
esistenziale, tenere a freno illusioni, noia, vuoto, fallimenti. Quanto avviene
non ha nulla di memorabile e ciò che si fissa nella mente del lettore, sono i
dialoghi secchi, brevi, spogli, essenziali. Uno stile narrativo che ha attirato
subito l’attenzione sul libro e sul suo autore. Quanto alla corrida e alle
imprese del giovanissimo matador Pedro Romero, Hemingway le descrive
nella loro crudezza e nella loro ripetizione. Nel modo cruento come è sempre
avvenuto dentro l’anello dell’anfiteatro, come si ammazza un toro nella plaza
de toros per saziare il bisogno di sangue di una folla eccitata: “Il toro
tentò di avanzare, le gambe cominciarono a piegarglisi, barcollò, esitò, poi si
inginocchiò e il fratello maggiore di Romero da dietro si chinò su di lui ed
infilò un corto coltello nel collo del toro…”.
Quando
decisi di andarlo a vedere nell’arena di Barcellona tanti anni fa, uno di
questi indegni spettacoli, già mi erano invisi come mi erano invisi il Palio di
Siena, i duelli di galli e di cani aizzati da bestie chiamati uomini, e altri consimili
“divertimenti” nati per il trastullo di sadici esseri privi di pietà. Volevo
scriverne anch’io e così avvenne nell’ottobre del 2001 con il racconto
“Pomeriggio di sangre”, confluito poi nella raccolta di racconti La striscia
di cuoio nel 2005. Quasi non badai a quello che avveniva nell’arena; in
quella lotta ìmpari nella quale i picadores avevano abbondantemente massacrato
il toro per poi consegnarlo al torero, non c’era equilibrio: in un confronto
forza contro forza l’uomo non avrebbe potuto prevalere. Mi concentrai, invece,
su quello che avveniva sugli spalti: su quella folla variopinta fatta di gente
normale e pacifica che improvvisamente si era trasformata in un’orda assetata
di sangue, ed aveva levato il suo grido di morte contro il toro: matalo!
matalo! come era certamente avvenuto dentro il circo dei gladiatori
dell’antica Roma. Era la sua psicologia che mi catturava, il suo pollice verso,
e mi confermai nella convinzione che la fiesta raccontata da Hemingway
non aveva nulla di epico, nulla di divertente. Che la disinvoltura con cui si
mettevano in pericolo i cavalli lanciati dai picadores contro i tori, il loro
possibile sventramento; i tori condannati a sicura morte dopo averli aizzati,
affannati, lacerati; la bava che gli colava dalla bocca, lo sgozzamento, il
taglio delle orecchie, non avevano nulla di gioioso. Erano solo pratiche
barbariche da cancellare.