L’UMORISMO CORROSIVO DI TALARICO
di Angelo
Gaccione
Vincenzo Talarico
Ripubblicato
a distanza di 92 anni da Hortusacri il libro di esordio dello scrittore e uomo
di cinema Vincenzo Talarico. Il libro sarà presentato mercoledì 7 agosto 2024 nella città di Acri, luogo di nascita dello scrittore.
La copertina del libro
Cominciamo con qualche dato necessario. Vincenzo Talarico fu scrittore e giornalista con la passione per questo mestiere nel sangue. Collaboratore e inviato speciale di prestigiosi quotidiani e riviste, tra cui “Il resto del Carlino”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “L’Europeo”, “Epoca”, “Il Messaggero”, “La Stampa”, “La Gazzetta del Popolo”, “Settimo Giorno”, “Il Travaso” e soprattutto il “Momento Sera”. Nel 1952 divenne direttore del settimanale umoristico “Cantachiaro”. Nel 1943 pubblica Vita di Scanderbeg, nel 1944 Splendori e Miserie delle Sorelle Petacci, usando lo pseudonimo Mercutio e Mussolini in pantofole. Del 1965 è Otto settembre, letterati in fuga, considerato il suo libro migliore, e del 1967 I passi Perduti. Oltre a questi, vanno ricordati: Pasquino insanguinato, Claretta Petacci, fiore del mio giardino, Le escursioni degli intellettuali, Il caffè Aragno a Roma. Chi legge questi libri – scrive Giovanni Russo – “si rende conto di come Talarico fosse molto più di un cronista mondano, uno scrittore che sapeva cogliere gli aspetti della realtà con un umorismo che lo avvicina ad Ennio Flaiano”. Fece parte attiva della vita intellettuale romana frequentando intellettuali, artisti, letterati come Patti, De Feo, Steno, Pannunzio, Flaiano, Russo, Brancati, Mazzacurati, Guttuso, Savinio, e prese parte come giurato al Premio Strega di Maria Bellonci. Nel 1963 gli fu assegnato il Premio Saint Vincent per il giornalismo. Un posto non secondario Talarico occupa anche nel campo della filmografia. Il suo esordio nel cinema risale al 1940, come sceneggiatore del film Senza cielo, diretto da Alfredo Guarini. Nel 1953 scrisse la sceneggiatura di Anni facili di Luigi Zampa, che gli valse l’attribuzione di un “Nastro d’argento”. Altri film che lo videro attore sono: Mio figlio professore (1946) di Renato Castellani, Dov’è la libertà? (1954) di Roberto Rossellini, Il vigile (1960) di Luigi Zampa, Un giorno in pretura (1953), Un americano a Roma (1954) di Alberto Sordi, Il mattatore (1960) di Dino Risi. Numerose le sceneggiature da lui scritte per tanti film, tra cui Il lupo della Sila (1949) di Duilio Coletti, Mare chiaro (1949) di Giorgio Ferroni, Totò cerca pace (1954), Pane, amore e gelosia (1954), Il bigamo (1956) di Luciano Emmer. Si è spento a Fiuggi (Roma), il 16 agosto 1972. Acri, sua città natale, gli ha dedicato una via nel rione Padìa, e così Roma, sua città di elezione.
Talarico e amici intellettuali
In letteratura aveva esordito giovanissimo con la raccolta di novelle: Vita
romanzata di mio nonno. Sono passati novantadue anni dalla
pubblicazione di quel libro, era il 1932, X anniversario dell’era fascista,
come si può leggere nel frontespizio del libretto pubblicato nella Collana
Romantica curata da Mario Gastaldi della Casa Editrice denominata “Quaderni di
Poesia” di Emo Cavalleri, e che aveva il doppio recapito geografico tra Milano
e Como. Otto novelle in tutto comprese sotto il titolo dell’omonimo racconto Vita
romanzata di mio nonno che apre la raccolta. L’autore aveva
all’epoca 23 anni, essendo nato ad Acri il 28 aprile del 1909. Un libro
d’esordio dunque, di un giovane con la passione dello studio e della scrittura,
e che si era certamente cimentato precocemente con sonetti e tentato la via
della prosa. Nella lunga ed ironica prefazione al libretto, Talarico stesso ci
informa che già diciassettenne aveva scritto “più sonetti” del poeta di Riva
Ligure, Francesco Pastonghi, e “più novelle” di Lucio D’Ambra, lo scrittore
romano il cui vero nome era Renato Manganella. Non sappiamo che fine abbia
fatto tutta quella copiosa produzione; se se ne sia deliberatamente
disfatto negli anni successivi giudicandola debole e imperfetta; se invece ne
sono rimaste tracce da qualche parte, conservate come affettuose acerbe prove
di apprendistato necessario e doveroso per una parabola più alta e matura. Ad
ogni modo, quel che è certo è che al momento della pubblicazione di queste otto
novelle, Talarico si era impadronito di una disinvolta abilità di narratore e
rivelava un occhio acuto nel cogliere non solo la superficie dei suoi
personaggi. Risorse con le quali avrebbe dato fondo al suo estro spigliato e
brioso per condire una fantasia fervida, spiazzante, ribollente.
Talarico in una scena del film
Un americano a Roma
Quanto
all’umorismo, ne aveva in eccesso e lo sapeva condire nel migliore dei modi, e
presto si rivelò la cifra del suo stile e del suo carattere. Quest’uomo, in
parte misogino e in parte misantropo, come ironicamente si definisce lui
stesso, dall’aria austera e nello stesso tempo dotato di un volto che più
teatrale non si può; aristocratico per gusti, nostalgico e naufrago di un
passato che declinava, ci consegnava sette brevi racconti più un atto unico
(“Sunt lacrimae rerum”) intrisi di vis comica, parodia, eccesso, senso
del grottesco, tenerezza, suscitandoci il buonumore, la scanzonata adesione, la
complicità e la comprensione umana. Così avviene rileggendo in questa nuova benemerita
edizione (Hortusacri 2024, pagine 158) che toglie le otto storie dall’oblio, la
vicenda del furto in quel di Napoli dell’orologio d’oro a triplice cassa e a
retrocarica con incise le iniziali del cognato di Napoleone Bonaparte,
Gioacchino Murat, nel racconto di apertura. O nell’episodio delle fotografie
con la Croce di Cavaliere appuntata sul lato sbagliato della giacca nello
stesso racconto. E altrettanto avviene gustando il mosso e paradossale racconto
intitolato “L’ultimo zio d’America”; quello dall’esito surreale e miracoloso di
“Tragica avventura di bordo”; o quello compreso sotto il lungo titolo “Il
barone usciva in quel momento dal gabinetto di toilette ed era accuratamente
rasato…” che chiude la raccolta e che a me è parso il più riuscito ed il più
disteso. In questa novella la parodia di Padre Leone di Bisignano, al secolo
Leopoldo, bambino che il Beato Umile aveva guarito dalla risipola infantile
preservandolo dalla morte, e che a seguito del miracolo entrerà nel convento
francescano, scorre lungo tutta la narrazione in un crescendo fatto di
esaltazione mistica, di tormento, di dubbio, di tentazioni, fino all’apoteosi
finale. In convento c’era entrato a dieci anni e lì era rimasto fino alla
consacrazione, quando aveva assunto il nome di frate Leone. Entrato imberbe e
non essendosi mai rasato, con l’età matura frate Leone poteva esibire una
fluente, solenne e ieratica barba che accentuava ancor più il suo prestigio di
uomo di studio e di predicatore. Aveva portato quella barba in ogni dove, come
aveva portato il suo eloquio e la sua facondia. I fedeli e gli auditori avevano
potuto ammirarne la dottrina e nello stesso tempo incantarsi a quel trionfo di
peli che contornavano il suo viso come una piccola foresta.
Talarico in una scena del film Un americano a Roma |
Il suo viso…
già, ma qual era il suo viso? Frate Leone non lo aveva mai visto; per un tempo
oramai divenuto lungo non aveva potuto scorgere che una massa di lunghi peli
occupare ogni millimetro del suo volto, nient’altro. Non ne conosceva le
fattezze e ignorava se sotto quei peli ne avesse uno; se c’era egli non lo
conosceva. Ah se non fosse stata per quella mania tutta frivola e moderna di
rasarsi il viso! Se non si fosse mai imbattuto quel sabato pomeriggio in quel
giovinotto che usciva dal salone di barbiere appena sbarbato che si deliziava
il viso scorrendovi soddisfatto il palmo ed il dorso! E soprattutto se non gli
fosse rimasta inchiodata nel subconscio la frase di quel maledetto satanico
libro che veniva ora sempre più prepotente a tormentarlo! “Il barone usciva,
in quel momento, dal gabinetto di toilette ed era accuratamente raso…”.
Accuratamente raso! Ancora una volta quella frase prefigurava la sua rovina.
Aveva finito per capitolare sotto il peso di quel verbo tremendo: raso; lui,
padre Leone, un vero leone di dottrina e di rigore, si era dovuto arrendere ad
una pulsione che non controllava più. “Anche padre leone da Bisignano, il
panegirista elevato e compito, l’oratore formidabile, il polemista imbattibile,
lo scrittore geniale e forbito, l’umorista fine e garbato, l’accanito
flagellatore delle mollezze…” si era dimostrato debole, uomo tra uomini. Si
era tolto il saio e rinunciato alla vita austera del convento. Indossato panni
borghesi e secolari, Leopoldo si era introdotto nel salone del barbiere per
farsi radere…
LA LOCANDINA
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