L’INCENDIO
DI ROCCABRUNA
di Francesca Mezzadri
%20foto%20di%20%20Donato%20Di%20Poce.jpg)
Gaccione (Foto: Di Poce)
Uno dei libri più
intensi e visionari della narrativa meridionale.
Perché un buon libro possa vivere
nel tempo ha bisogno di incontrare lettori esigenti e critici attenti e
appassionati. L’incendio di Roccabruna continua ad avere questa fortuna,
come dimostra questo scritto di Francesca Mazzadri apparso su ‘Satisfiction’ di
venerdì 7 novembre. A distanza di tanti anni, la materia e lo stile di questi
racconti esercitano la loro presa e il loro fascino. E, soprattutto, non
lasciano indifferenti chi vi si accosta.
Con L’incendio
di Roccabruna (Di Felice Editore, 2019 pagg. 118 € 12, introduzione di
Vincenzo Consolo, postfazione di Giuseppe Bonura), Angelo Gaccione costruisce
uno dei libri più intensi e visionari della narrativa meridionale
contemporanea. Roccabruna non è un paese, ma un mito: una Calabria arcaica e simbolica,
una “patria morale” dove storia e leggenda si intrecciano, e ogni racconto
diventa un frammento del lungo martirio di un popolo dimenticato. Nella sua
introduzione, Vincenzo Consolo parla di una “realtà così atroce da sembrare
inverosimile”: è la chiave dell’intera opera. Gaccione scrive da cronista e da
moralista, da cantastorie e da testimone, oscillando costantemente tra realismo
documentario e allucinazione etica.
![]() |
| Gaccione (Foto: Di Poce) |
Un universo chiuso dal dolore e
dalla memoria
Roccabruna è la Calabria
interiore, ma anche un microcosmo dell’umanità. Qui tutto nasce dal sangue e
tutto nel sangue ritorna. I racconti si dipanano come canti di un’unica
tragedia collettiva, dove le leggi dello Stato non arrivano e la giustizia è
affidata alla memoria e alla vendetta. “Sine effusione sanguinis non fit
remissio” - senza spargimento di sangue non c’è remissione: la frase latina
che percorre il libro è insieme motto e maledizione.
In Il delitto di Santo
Stefano, un pastore umiliato e affamato diventa simbolo della giustizia
selvaggia: la vendetta come risposta alla fame, la violenza come linguaggio
primordiale di chi non ha voce. In Il sacrilegio, la folla in rivolta
contro la siccità bestemmia Dio e porta i santi in processione rovesciata: non
c’è empietà, ma disperazione. Quando infine arriva la pioggia, non sappiamo se
sia miracolo o castigo: il dubbio è il giudizio.
Ne La faida, infine, la
colpa si eredita come il sangue: famiglie nemiche, bambini battezzati in casa,
funerali interrotti dai fucili. Tutto si ripete da generazioni, come in un rito
che non conosce perdono.
Il tempo di Roccabruna è ciclico,
mitico: “da sempre” e “ogni anno” sono i ritornelli di un’eternità senza
riscatto. Non c’è progresso, solo ritorno. Ogni delitto sembra già accaduto,
ogni punizione già scritta.
![]() |
| Gaccione (Foto: Di Poce) |
La lingua del sangue
Gaccione adotta una prosa che unisce la solennità biblica alla durezza contadina. La sua lingua è al tempo stesso arcaica e vivissima: ricca di proverbi, ritmata come un canto funebre. L’italiano letterario si mescola alle inflessioni dialettali, alla musicalità della parlata calabrese, costruendo un impasto denso e inconfondibile. Il risultato è una prosa che sembra raccontata più che scritta, come se fosse pronunciata accanto a un fuoco, davanti al paese intero. Le chiusure in prima persona (“Io che sono di qui…”) hanno una forza poetica e morale straordinaria. Riportano l’autore dentro la sua comunità, trasformando la letteratura in un atto di sopravvivenza scritta. Citando Consolo, “la memoria è la forma della pietà”: e in questo libro la pietà diventa la sola forma possibile di giustizia.
Il supplizio e i giustizieri: la
storia come ferita
Nella seconda sezione, Gaccione
torna indietro nel tempo, al 1462, quando gli Aragonesi radono al suolo
Roccabruna. Il supplizio racconta con lingua cronachistica e pathos epico la
caduta della città, la morte eroica di Niccolò Clancioffo, la ferocia del
potere che punisce per spaventare. La storia militare si trasforma in parabola
morale: la crudeltà dei vincitori contro la dignità dei vinti.
Quattro secoli dopo, in I giustizieri,
la violenza muta volto ma non sostanza: i briganti che combattevano per il
popolo diventano i suoi aguzzini. Domenico Serra e la sua banda, corrotti dal
potere, incendiano, uccidono, devastano. E il popolo, tradito, si prepara alla
vendetta.
In I due furfanti, l’eco
di quella giustizia popolare diventa spettacolo: due briganti catturati, la
folla che accorre, l’esecuzione pubblica. La morte come rito espiatorio e
morale.
In tutti i racconti, la violenza
non è solo un fatto ma un linguaggio: un modo in cui la comunità ristabilisce
il proprio ordine. È una giustizia arcaica, spaventosa, ma l’unica possibile in
un mondo senza legge.
I Cannibali e Sepolta
viva: fame e vergogna come condanna
Tra i racconti più forti della
raccolta, I Cannibali e Sepolta viva sono due vertici speculari
della poetica di Gaccione. Nel primo, la fame trasforma gli uomini in belve.
Non è crudeltà naturale, ma sociale: il risultato di una miseria che divora
anche l’anima. Il narratore si chiede “che sangue mi scorre nelle vene”: il
male è eredità, non scelta. In Sepolta viva, invece, la condanna nasce
dal giudizio collettivo: Donna Clorinda, simbolo di libertà e sensualità, è
colpita da morte apparente, ma viene sepolta viva dal pettegolezzo e dalla
paura. Dove non arriva la fame, arriva la vergogna. In entrambi i casi,
Roccabruna è la comunità colpevole: prima urla, poi tace, ma sempre partecipa.
Il popolo è carnefice e vittima, mai innocente.
Il veleno: l’amore
come peste
Tra i racconti più cupi, Il
veleno porta la tragedia dentro le mura domestiche. Due famiglie “onorate”,
i Greco e i Tancredi, sono distrutte da una passione proibita. Il desiderio,
qui, non è salvezza ma contagio. “Mai avvicinare la paglia al fuoco”: la
sentenza iniziale è profezia. Con uno stile secco, orale, quasi da cronaca
nera, Gaccione racconta la disgregazione morale di un mondo dove l’onore vale
più della vita. Non c’è redenzione: solo silenzio e morte. È forse il racconto
più disturbante della raccolta, e anche il più contemporaneo nella sua crudeltà
psicologica.
![]() |
| Gaccione (Foto: Di Poce) |
Fuoco, sangue, parola: le tre vie della memoria
Il titolo L’incendio di Roccabruna non allude solo a un evento, ma a una metafora: il fuoco è insieme distruzione e purificazione, memoria che arde per non spegnersi. In Gaccione il fuoco è l’elemento fondativo della civiltà e della colpa, il luogo dove la parola si trasforma in testimonianza. Il libro nel suo insieme è un trittico del sacrificio umano: il supplizio, la vendetta, la memoria. È un’opera che non giudica, ma ricorda. Non assolve, ma comprende. Gaccione si pone nel solco di un filone che va da Alvaro a Consolo, ma la sua voce è autonoma: più asciutta, più tragica, più civile. Dove altri raccontano il Sud per nostalgia o denuncia, lui lo racconta come destino.
Un Sud che arde dentro
Con L’incendio di Roccabruna,
Gaccione consegna al lettore una sorta di Vangelo laico del Sud, scritto nel
linguaggio del sangue e della pietà. Ogni racconto è una stazione di un
calvario collettivo, dove il male non è eccezione ma condizione. Ma dietro la
crudeltà, si avverte una tensione morale profonda: la volontà di dare dignità
al dolore, di trasformare la violenza in memoria. È un libro duro, necessario,
scritto con la lingua della terra e la coscienza dell’uomo. Perché in fondo
sembra dirci Gaccione - finché si racconta, Roccabruna non muore. E noi, con
lei, impariamo a non dimenticare.
![]() |
| La copertina del libro |
Angelo Gaccione
L’incendio di Roccabruna
Introduzione di Vincenzo Consolo
Postfazione di Giuseppe Bonura
Di Felice Ed. ristampa - 2019
Pagg. 120 € 12


.jpg)

