ARTE E GUERRA
di
Massimo Silvotti

Max Hamlet: Uccelli sterminatori
Un interessante carteggio tra Albert Einstein e
Sigmund Freud datato 1933 e intitolato “Perché la guerra?” (il Comitato
permanente delle lettere e delle arti della Società della Nazioni chiese a
Einstein di invitare un intellettuale a discutere con lui su un tema di
interesse comune) prendeva in esame la questione dei conflitti e
dell’aggressività umana, con Einstein che interpellava Freud sulle cause
profonde della guerra e sulla possibilità di liberare l’umanità da essa. È stato
questo scambio epistolare lo stimolo iniziale per l’ideazione di disarmArti. Di
fronte ad atroci, abissali e pianificati stermini a cui ogni giorno assistiamo,
al cospetto di precipiziali sensazioni d’impotenza che pervadono, crediamo,
ogni essere umano che ancora intenda definirsi tale, la tematica Einstein -
Freud riecheggia indifferibile nei nostri cuori. Esiste in questa cornice terrificante
una funzione specifica che l’arte possa assolvere? Chiarendo da subito che ogni
forma di manifestazione e denuncia, da parte di chicchessia, è sempre
importante, in quanto noi siamo, anche e soprattutto, attraverso il nostro
agire, qui l’interrogativo testé formulato, va oltre un’idea di arte che
mostra, che scuote, che polemizza, che mobilita. Freud ma anche Nietzsche,
seppur con esiti per certi versi divergenti, hanno a lungo indagato la
relazione, o conflitto, o dicotomia, tra Eros e Thanatos (per Freud tra
pulsione di vita e pulsione di morte). La loro sembrerebbe incarnare una
particolare forma dialettica, in cui il tentativo della pulsione di morte
(Thanatos) di distruggere il mondo o l’individuo stesso, ricercherebbe
costantemente un equilibrio con la pulsione sessuale della riproduzione (Eros),
responsabile della creazione di qualcosa di nuovo.
![]() |
| Max Hamlet: Uccelli sterminatori |
Anche l’Arte ha “frequentato” ripetutamente tale questione o, più precisamente, ha fondato la sua stessa ragion d’essere nell’intricatissimo dipanamento del groviglio tra Eros e Thanatos. Quello che comunemente definiamo l’atto creativo dell’arte, molto difficilmente può prescindere o non interferire con i molteplici significati di amore e morte. E anche fra i risvolti a cui l’arte si apre in relazione al mondo, con la sua Storia o con il suo presente, nei ritagli apparentemente insignificanti, o nelle grandi questioni valoriali, sempre la eco di una tensione regolativa tra i due presunti opposti si avverte. La morte abita la vita in ogni suo istante, così come l’aggressività, la violenza, la guerra, dimorano in ciascun essere umano (Freud nel saggio Il disagio nella civiltà asserisce che un’innata tendenza aggressiva è sempre presente in ciascun essere umano: una spinta interiore volta a garantirsi la sopravvivenza; riecheggia qui la frase resa famosa da Hobbes: homo homini lupus; siamo tutti potenzialmente lupi nei confronti dei nostri simili, mossi da egoismi e narcisismi) il quale, tuttavia, sovente riesce a frenare i propri istinti aggressivi abbandonandosi ad una disperata ricerca di amore e solidarietà nell’altro da sé. È compito di una società altamente progredita, precipuamente garantendo a se stessa la propria conservazione, reprimere le spinte pulsionali distruttive, verso mete più elevate e, in questo senso, l’atto di sublimare le pulsioni più deleterie, significa, per usare un termine caro a Freud, desessualizzare la propria spinta aggressiva dirigendola altrove, a partire dall’arte e dalla cultura.
Parafrasando Eraclito, così caro a Nietzsche, potremmo allora auspicare che il sorgere (l’atto creativo) renda il favore al tramontare (il suo epilogo); opposti che dalla loro stessa reciprocità ricavino meravigliosa armonia. Ma ciò si rende plausibile soltanto, a mio avviso, se il concorso-contrasto tra Eros e Thanatos che operano in ciascun individuo, beneficino di un humus sociale in cui etica ed estetica procedano una a fianco all’altra al fine di “proteggersi vicendevolmente dai rispettivi unilateralismi” (Vito Mancuso in La via della bellezza), ovvero, o sterili estetismi o paludosi moralismi. Tornando all’interrogativo iniziale, se quindi l’arte (qui il termine ovviamente va inteso nella sua accezione più ampia) possa o meno assolvere ad una più diretta e incisiva funzione, per favorire un mondo finalmente pacificato, se possa e se sia giusto ipotizzarlo. La mia sensazione è che si, effettivamente, siamo di fronte ad un potenziale che vedo possibile e naturalmente auspicherei. In primis vedrei l’esigenza di un definitivo superamento di quel narcisismo, che sovente aleggia nell’ambito artistico. Narcisismo che per la sua stessa natura squilibra il rapporto tra Eros e Thanatos. Un’autentica propensione artistica, al di là degli scopi alti che ad essa si vogliano attribuire, non dovrebbe avere, oggi soprattutto, alcuna attinenza circa l’esposizione di un contributo del singolo in relazione al mondo, semmai il contrario, è la socialità che dovrebbe trovare un’espressione, nell’accoglimento che il singolo si sforza artisticamente di metterle a disposizione. Per questo sarebbe a mio avviso fondamentale accrescere il senso di collegialità in tutti gli ambiti artistici. Rendere maggiormente operante, implementare, la fase di confronto e connessione, e soprattutto di ascolto nell’arte.
Quando Piero della Francesca, o Leonardo, ci offersero in pittura la visuale verso una dimensione prospettica, nell’arte si è data per la prima volta la facoltà di indagare e provare a comprendere i misteri sottesi alla vita e al mondo. Gli stessi concetti di felicità e di bellezza furono completamente stravolti, da doni che per volere divino potevano o meno permeare le nostre esistenze, a mete a cui tendere con l’ingegno, lo studio, la perseveranza, il coraggio. Facendo un lungo salto temporale e arrivando ai tagli di Lucio Fontana sulla tela, ad una finzione che superasse la bidimensionalità della tela, si è sostituita la realtà di uno spazio oggettivamente ulteriore che, tuttavia, invece di ampliare la conoscenza rendeva palese l’inconoscibilità dell’oltre. Queste due fasi apicali della Storia dell’Arte, mi sembra rendano simbolicamente evidente il paradosso logico che caratterizza la specificità e la natura dell’arte. Laddove la stessa utilizza gli strumenti a lei maggiormente connaturati, ovvero la fantasia e la creatività, consente a tutti noi fruitori di dilatare e persino modificare la realtà di cui disponiamo, laddove invece l’artista operi a contatto diretto con la realtà, agendo direttamente su di essa, anche modificandola strutturalmente, l’ineluttabilità dei limiti umani si rendono evidenti. Dunque di che cosa effettivamente necessiterebbe l’arte per orientare sé stessa verso una più funzionale azione pacificante? Operare nella realtà, con gli strumenti della realtà, ma al fine di metterci in una relazione profonda con la nostra natura, tutt’altro che onnipotente e onnisciente, o attraversare territori inesplorati, e persino inauditi, al fine di potenziare al massimo e persino servirci dell’immaginazione, del sogno, incidendo sulla realtà, alterandone la fattualità?
![]() |





