TARDO AUTUNNO
di Zaccaria Gallo
“Profumo d’autunno / il cuore strugge” (Basho)
“(…) cresce
nel vento d’autunno una pallida / primavera tanto a lungo negata” (Mario
Luzi)
“Tityre, tu patulae, recubans sub tegmine fagi,
/ silvestrem tenui musam meditaris avena; / nos patriae fine et dulcia
linquimus arva; nos patriam fugimus: / tu,
Tityre, lentus in umbra / formosam resonare doces Amaryllida silvas”. (“Titiro, tu, che stai sdraiato sotto il
riparo di un faggio, /componi un canto silvestre con il flauto modesto;/ io
lascio la patria e i suoi dolci campi, fuggiamo via: / tu, Titiro, sereno
nell’ombra / fa risonare i boschi del nome della bella Amarillide”) (Virgilio -
Bucolica I)
Andare
verso l’alta Murgia, seguendo il richiamo della Terra del silenzio, che scorre
tra le foglie, con l’ansia trattenuta dell’innamorato. Lungo la strada, piccoli
e grandi gruppi di automezzi da lavoro, di trattori, aggrappati alle strade di
campagna, sono già in cammino da prima dell’alba. Come un tempo sostituiscono i
“traini” tirati, allora, da muli e cavalli; da sempre vanno e vengono nei campi
per la raccolta delle olive e trasportarle alla molitura. Abbiamo lasciato la
città con il profumo dell’olio nuovo che, dai trappeti, s’insinua nelle strade
e attraversa le finestre e ci raggiunge fin dal primo mattino. Anche adesso che
stiamo uscendo di casa. È la ricchezza di questa terra che ha anche altra terra, ai
suoi confini: quella verso la quale, nel tardo autunno, si deve andare,
lasciando che Poseidone riposi in riva al mare, dopo la sua affaticosa estate. Terra
e colline, pietre ed erbe che chiamano, salgono o scendono, abbracciano le
rocce, si fanno sfiorare da un vento radente, freddo d'inverno (da steppa) o da
un sole accecante, incombente di caldofornace, d'estate; terra che si adatta
continuamente allo sguardo, e lo sguardo che alla terra sempre ritorna; terra che
ha il dono del silenzio per ascoltarsi eascoltare. “Ha messo chiome / il bosco
d’autunno. / Vi dominano buio, sogno e quiete. / Né scoiattoli, / né civette o
picchi / lo destano dal sogno…” (B. Pasternak). Una terra che ha l'orgoglio di
un giardino. Eccola la pineta, nel cuore dell’alta Murgia, e andarci è come
entrare nel mistero per far visita a quegli alberi che, come grandi uomini
solitari, parlano tra loro con lingua che loro conoscono e pochi di noi
capiscono. Città dei Pini, dì alberi che invecchiano piano piano, mentre
attraverso i loro rami, il sole, di giorno, filtra i suoi raggi e li riflette
sul soffice tappeto d’aghi caduti
durante la notte, per il soffio d’un vento di luna. Ingresso regale è quello della
grande pineta: sui sentieri, danno il benvenuto erbe verdissime, coperte qua e
là dai fiori d’erbastella, bianchissimi, che non hanno profumo, ma umile
bellezza e che si confondono col bianco delle pietre calcaree e galleggiano,
come ninfee mosse dal vento, ai piedi d’un faggio rosso. Il faggio dalla chioma
rossa! Ci saluta, agitando sui rami le sue manifoglie. Anche con quelle cadute
sul terreno attorno, e che si possono raccogliere come cose ancora vive.
E si deve guardar bene quel
faggio: c’è una grande pietra sul bordo del sentiero. Ci si può sedere e accarezzare
la sua ruvida traforata pelle, mentre con l’albero si fa dolce conoscenza. Con
la sua eterna maestosa compagna che ha poco lontano, la quercia, il faggio è
albero portatore, per antiche credenze del bene, protetto e amico inseparabile
delle Driadi, ninfe della saggezza e della memoria conservata nei boschi. Luciano
di Samosata riferisce che l’oracolo di Dodona non si manifestava soltanto
usando le foglie di quercia, ma anche quelle di faggio. Nell IV sec. Macrobio
riporta, nei suoi scritti, che esso era ritenuto uno degli arbores felices e che le coppe utilizzate per i sacrifici nei
templi erano scolpite nel legno di faggio. Ma per me, e per noi, riveste anche un
altro valore grandissimo: il nome tedesco del faggio, Buche, ha la stessa
etimologia di Buch che vuol dire libro.
Per questo si dice che il faggio è un albero legato alla sapienza, alla saggezza e alla tradizione, e quindi al conservare e tramandare la memoria, al “non dimenticare”. Sì per non dimenticare, ad esempio che “Johannes Gutemberg avrebbe inventato il torchio tipografico dopo aver intagliato un carattere da un blocco di legno di faggio e averlo avvolto in un foglio di carta. Dopo averlo estratto dall’involucro, si era accorto che il carattere aveva lasciato un’impronta sulla carta. Questa scoperta avrebbe portato all’invenzione della stampa” (Bettina Lemke). Entrare in quella pineta, dà la sensazione di esser fuori del mondo in cui abitualmente si vive: gli occhi degli alberi, la loro voce, che è voce di silenziose presenze, raccolte nei loro nidi altissimi, ci avvolge, con lo stupore di un mistero che attende sempre di essere svelato. Ed è improvviso questo stupore, sempre diverso, perché un profumo ci accoglie fin dai primi passi.
L’aria sa di
resine ed essenze, ma anche di qualcosa d’altro, che proprio e solo nel tardo
autunno sappiamo che si può sentire. Inciampiamo quasi in quel profumo: da
sotto al tappeto di aghi, spunta un cappello, anzi due, no, tre, cinque, dieci,
tanti: eccoli! Gli gnomi si sono trasformati in funghi ed è l’incanto, con il
loro incontro profumato, che ci sa parlare della eterna fiaba che lega l’acqua
alla terra, la terra alla luna, la luna a questo luogo incantato. Città dei
pini, sei immortale e io so perché. Tu sai come dare i sogni e come far
diventare, misteri e magie, alta poesia.







