DALLA CARTA ALLA RETE
di Fulvio Papi
Il passaggio di “Odissea”
dalla carta alla Rete, offre al filosofo Fulvio Papi lo spunto per un’analisi non
solo sullo strumento, ma per mettere a fuoco una serie di elementi di
riflessioni di natura economica, sociale, culturale molto utili per riaprire il
dibattito su molte questioni che ci riguardano da vicino.
Se guardo oggi
alla decennale storia di “Odissea” credo abbia ragione il direttore: la rivista
si è schierata contro poteri di ogni sorta che condizionano negativamente, e
più di una volta tragicamente, l’esistenza sociale. In epoca di svendite
professionali e di mercati dell’intelletto, più o meno consapevoli, non è
proprio poco. In prospettiva sarà una storia minore, ma conserverà il suo
spazio se la memoria sociale non sarà completamente appassita. Odissea dunque
passa dal “cartaceo” alla Rete. Molti amici e anche esperti fanno notare che in
questo modo le inchieste e le prese di posizione della rivista avranno un’eco e
un’attenzione incomparabilmente più ampia. Vorrei soltanto aggiungere un riflessione
che potrebbe risultare utile per il nostro lavoro. Ricorrerò all’ormai antica
proposizione secondo cui il mezzo crea il messaggio che, così condizionato, ha
effetti rilevanti sulla forma e sui contenuti della comunicazione. Il libro ha
rivoluzionato una sua modalità di lettura che è stata una forma di
culturizzazione molto rilevante, e probabilmente lo sarà ancora, e, forse,
nemmeno in una quantità molto ridotta. Sarà invece certamente ridotto il suo
“peso” culturale e sociale. La radio ha educato a una particolare modalità di
“informazione” e di affidabilità relativa al messaggio. La televisione, per lo
più, ha abituato alla dimensione dello spettacolo passivo. La Rete consente
l’intervento plurimo e un rapporto tra la modalità del messaggio e la sua ricezione,
Stabilisce, in altri termini, la modalità della comunicazione che dà la parola a chiunque, ma anche consente,
purtroppo, sotto l’apparenza di una vera agorà del demos, il transito di
volgarità intellettuale e di stili discorsivi che non sono tali solo per se
stessi, ma inquinano lo stesso costume della comunicazione. È utile del resto
conoscere l’ambiguità specifica di ogni innovazione tecnologica e avere un
corretto sospetto, come del resto aveva
il nostro Leopardi, sulla linearità del “progresso”. Per quanto riguarda il
lavoro di “Odissea” consiglierei di mantenere intatta la forma della nostra
comunicazione, in genere ben argomentata, anche se naturalmente sarà essa a
selezionare la platea dei destinatari.
Oggi abbiamo a che fare con l’estensione di quella
“microfisica dei poteri” di cui scriveva Foucault anni fa, e che oggi, proprio
tramite la connivenza tra interessi privati e cricche politiche, costituisce il
reticolo dominante della vita sociale, quello entro la quale deve prendere
forma la nostra vita sociale. Il “motore ascoso”, come diceva Croce, è la
finalità del profitto come identità sensibile di ogni valore, mentre come tutti
sanno la forma invisibile, la potenza pressoché illimitata, è costituita dal
capitale finanziario. Al quale gli stati riconoscono, e devono riconoscere, una
piena autonomia e una capacità di dominio di assoluto rilievo. Žižez,
capovolgendo un poco teatralmente Marx, ne fa un fantasma che s’aggira nel
mondo, e fa di noi personaggi di un ambiente universalmente virtuale. Del resto
non ho alcun dubbio che questa relazione tra l’unità del capitale finanziario e
le differenze della sua recezione nelle diverse formazioni sociali e condotte
politiche (la Germania, per esempio, in relazione all’Italia), costituisce il
quadro che possiamo dare dell’attuale storia del mondo. Un quadro tecnico,
tuttavia così astratto nella sua verità, che non può avere né facile né
difficile rappresentazione nelle forme ovvie della comunicazione. Se guardiamo
a questa situazione, a voler essere vetero-heideggeriani, potremmo dire che
siamo prigionieri, e necessariamente prigionieri, dell’infinita chiacchiera, e
a voler essere spinoziani-marxisti potremmo parlare di un segno razionalizzato
della immaginazione. Il potere invisibile che corre per via telematica non
riguarda questa babele della parola nella quale si gioca la nostra stessa vita.
In realtà non c’è mai stata una tendenziale coincidenza tra potere e linguaggio
comune - tutta la storia sociale e i progetti di emancipazione lo mostrano – ma
oggi la distanza è quella che corre tra un mondo e un altro mondo.
È una situazione che capita ovunque, e che ogni stato cerca
di governare, ma è ancora più disarmante in un paese come il nostro dove
esistono diseconomie strutturali che sono state coltivate storicamente nel
processo di unificazione del paese. E per stare in tempi più prossimi i bilanci
negativi di molte industrie a partecipazione statale non derivano certamente
dall’essere pubbliche, ma dall’essere politicamente privatizzate. Il problema
non è la privatizzazione che consenta l’efficienza tramite i calcoli del
profitto, ma una classe politico-amministrativa che unisca competenza
amministrativa e operativa, l’onestà del servizio e una propria indipendenza
relativa dal potere politico. E qui tocchiamo un problema fondamentale: siamo
riusciti a superare inerzie intellettuali e mancanze etiche che sembrano
costituire, con volti diversi, l’autobiografia del paese?
Siamo riusciti a costruire una vera comunità nazionale
indispensabile per garantire la forza e la sicurezza a riforme sociali
nell’ordine della giustizia e dell’efficienza? Al contrario – dobbiamo
chiederci – come è disseminata la potenza, l’ignoranza e la corruzione dei
poteri particolari, della spartizione dei vantaggi, e anche delle illusioni
particolari? Se si paragona la situazione italiana a quella tedesca si scopre
che in Germania la disoccupazione giovanile è al 7,5 per cento e che i
contratti di solidarietà, per quanto potevano, hanno limitato molto la
disoccupazione e hanno privato i lavoratori del 5% del salario poiché l’altro
5% non pagato dall’azienda è integratola una spesa dello stato che è
notevolmente inferiore a quella della cassa integrazione italiana. Esaminando
questa situazione un celebre economista della tradizione di sinistra concludeva
dicendo: meno polemiche contro la Merkel più conoscenza del tedesco. A livello
di una informazione che non sia la chiacchiera banale, l’osservazione è
perfetta. Ma da un punto di vista teorico perché quello che altrove è
possibile, qui è impossibile? Ho parlato un poco teatralmente del capitale
finanziario fantasma, ma un’analisi seria mostrerebbe che qui sono in gioco
elementi sociali con forte effetto causale che derivano dalla cultura e
dall’etica che sono state ulteriormente degradate nell’ultimo ventennio e che
si sono consolidate da chi si trova in posizioni di comando, locali, vocalissime
e nazionali e, o non sa, o non vuole esercitarle per il bene pubblico, ma di
solito in un intrico di benefici privati.
Sono certo che seguendo alcune parti centrali del mio
discorso, anche un orecchiante di filosofia potrebbe dire che eredito la concezione
marxiana dalla trasformazione della filosofia in critica dell’economia
politica. È semplice rispondere che la critica dell’economia politica è una
filosofia. Anzi credo che l’ontologia regionale dell’economia politica
costituita dalla matematizzazione dei fenomeni, è destinata a fallire persino
il suo oggetto economico che ha relazioni molto più ampie con l’ecologia, le
forme sociali di vita, la formazione psicologica mercantile, il sistema
pubblico di simbolizzazione, l’equilibrio complessivo dei valori sociali.
Questo è un gioco teorico abbastanza facile, tuttavia poco diffuso da quando
tende a scomparire il pensiero come tecnica e fatica concettuale, o,
semplicemente, l’emittenza dei poteri comunicativi avvisa che non c’è niente da
pensare, un vizio antico che è stato guarito dalla nostra età. Questo non
significa credere banalmente che da una forma di pensiero bene organizzata,
possa derivare una buona politica. Questi sono i sogni di una metafisica,
visione onirica almeno di una parte della filosofia del Novecento. In realtà è
molto più difficile fare della politica economica poiché qui ci si incontra con
complicate condizioni oggettive, poteri immensi, bisogni diffusi, risorse
disponibili, autonomie economiche e finanziarie, privilegi feroci, pregiudizi
ideologici, immaginazioni insensate. Si risponde: “Facciamo quello che possiamo
fare”. Ora “possiamo” ha a che vedere con potere, e qui nascono problemi
serissimi. Dalla rivoluzione inglese in poi “potere” è il problema centrale
della politica che, con la sua strategia,vuole difendere la possibilità
individuale di avere un proprio spazio economico nel sistema dello stato.
Questa rivoluzione ha vinto totalmente. Sono passati secoli e con l’espansione
economica, ultima la forma della globalizzazione, i poteri politici degli stati
si sono ridotti o sono stati fortemente condizionati. Al punto che in qualche
paese, come il nostro, l’esercizio politico è divenuto spesso un privilegiato
potere privato che pone un problema di liberazione. In ogni caso si può sempre
tentare di conquistare la dimensione politica tenendo insieme i semi del
pensiero, gli obiettivi etici, le azioni pratiche e fattibili, le necessità
obiettive. Questo proposito è tutto il contrario che facile, forse è persino un
proposito utopistico, ma, almeno per ora, non vorrei proprio chiedermi come un
celebre personaggio romanzesco della caduta dell’impero asburgico: “E ora dove
devo andare?”
In questa prospettiva (che desidera ancora una sua
positività), per chiudere cercherò di chiarire il significato corretto e vivo
che possono avere tre termini di cui si sente sempre parlare: crescita,
formazione, consumi. A “crescita”, per lo più usata nel significato
quantitativo che deriva da una visione economica obsoleta e oggi anche dannosa,
non risponderò con il modello della decrescita
(secondo Latouche). Crescita ha un senso rinnovato se passiamo da una
crescita quantitativa che è insostenibile a tutti i livelli, a una crescita
qualitativa. Il discorso sarebbe molto lungo. Mi basta pensare al problema
fondamentale di attrezzare le nostre città per le variazioni climatiche, per la
dimensione del consumo energetico, per migliori condizioni di vita quotidiana.
Basta pensare a tutte le deficienze – l’acqua in primo piano- , il territorio
fragile e pericoloso che interessano tutto lo spazio nazionale. Un cantiere
immenso per la tecnologia, l’occupazione, l’intervento pubblico e privato che,
in un contesto positivo, può realizzare il profitto.
La “formazione”: è fondamentale un impegno per una
formazione tecnologica che possa agire positivamente in una economia dove la
conoscenza è fondamentale. Ma abbiamo una visione relativamente adeguata
intorno ai prodotti, ai prezzi, ai mercati, agli scambi, ai costi di
produzione?
Altrimenti la parola (che già guasta il suo significato
originale) rischia di essere solo un modo di dire. E poi, in generale, dovrebbe
essere noto che l’estensione del capitale fisso (la tecnologia produttiva)
conduce in genere a una dimensione del capitale variabile nel ciclo produttivo,
e quindi a una disoccupazione che, nel nostro caso, potrebbe addirittura essere
tecnologicamente qualificata. Con il rischio di creare una vita sociale ancora
meno qualificata priva di coesione, una competitività necessaria ma estranea
alle convinzioni morali diffuse, un privilegio nel mercato e una emarginazione
sociale. Così quando si parla di formazione si dovrebbe intendere la capacità
di partecipare ai vari aspetti della vita sociale, della produzione a forme di
vita che integrino conoscenze tecnologiche indispensabili e stili di esistenza
aperti alle risorse della cultura.
Non sono così
ingenuo da pensare che i miei amori filosofici, letterari, artistici, oltre una
eredità da custodire come un valore da spendere bene, siano la sola forma
possibile di cultura sociale. La cultura è un continuo processo di
trasformazione e di interpretazione.
Consumi. Anche qui
il problema è quello di una equa distribuzione di consumi essenziali e,
contemporaneamente, una ricostruzione qualitativa del consumo. Difficile uscire
del tutto dal ciclo della merce. Ma c’è merce e merce. Esistono consumi che
sono fruizioni e non dimensioni mercantili utili solo al profitto? C’è un
consumo dell’esistenza che può avvenire senza il principio della riproduzione allargata
del capitale? Si può dire “diritto a uno stile di esistenza”?
Poi vi sono temi relativi all’attuale consumo di merci che
lasciano più che perplessi. È possibile che contemporaneamente si lamenti un
calo dei consumi e uno spreco degli alimenti sufficienti per contrastare la
fame nel mondo? È una assurdità che va spiegata nell’analisi dei consumi
sociali.
Poiché al fine, senza estremismi verbali, bisognerà pur dire
che lo spreco è omogeneo alla volontà di circolazione della circolazione del
capitale investito in un determinato tipo di consumi che creano il mercato che
conta. Si potrà anche aggiungere che c’è un gioco speculare (valido
prevalentemente in una determinata area di consumi) tra la pubblicità come
dominio dell’immaginario (quanto incide la pubblicità sui costi di produzione?)
e grande distribuzione come omologazione del prodotto e sicurezza del profitto.
Non sto immaginando il ritorno agli antichi negozi specializzati in determinate
merci. Si può fare della letteratura su queste cose non dell’analisi. Vorrei
solo che sapessimo chi siamo quando prendiamo il nostro carrello pensando che
la nostra spesa è solo una questione privata. Non sono tanto presuntuoso e
sciocco da pensare che forze sociali così potenti possano essere cambiate con
buone analisi discorsive. E tuttavia hanno una loro importanza se vengono
diffuse. E poi c’è persino l’imprevedibile che, mi dicono, sia maggiore
passando dalla carta alla Rete.