L’Europa
come patria
Di Giovanni Bianchi
Il punto di vista
|
R. Prodi |
Prendo le mosse da un'osservazione di
Romano Prodi: "C'è una dose di schizofrenia nella politica europea:
l'analisi guarda al futuro, ma la prassi pensa solo al presente
immediato". Una schizofrenia che l'Italia non corregge ma anzi accresce
facendo largo scialo del populismo trionfante, così lontano dal pensiero
strategico da rendere addirittura mirabile la sintesi prodiana. Per metterla
sul drammatico si potrebbe anche osservare che è così che si è affamata la Grecia
pensando alle elezioni nel Nordrhein-Westfalen e decidendo di salvare piuttosto
le banche. Per cui l'interrogativo diventa se si possa fare una grande
costruzione politica senza una solida cultura politica. Ed anche, in subordine:
si può creare una moneta a prescindere dalla politica?
C'è
un minimalismo europeo che ritroviamo già alle origini della Comunità e che era
ben rappresentato da Monnet, il quale faceva osservare che sarebbe stato
impossibile, già allora, consolidare e far prosperare i singoli Stati al di
fuori di una dimensione che tenesse conto delle nuove misure della geopolitica.
Tuttavia non mancano progetti che abbiano dignità e che si collochino anche in
questa fase all'altezza della situazione. È il caso dei c3dem (cattolici democratici)
che hanno recentemente prodotto un testo – "L'Europa nostra patria: un
rinnovato progetto di buona politica comune" – che merita il massimo
dell'attenzione.
E
dirò subito che dal mio punto di vista è centrale nel documento il richiamo al
rilancio del modello sociale europeo, perché fa corpo con la missione
inclusiva, fin dagli inizi, della forma democratica dell'Unione. Possiamo anche
diventare Stati Uniti, ma la differenza l'hanno già indicata loro definendoci
figli di Venere diversi dai figli di Marte. Non è solo una questione di
welfare: è una questione di democrazia ed anche geopolitica. Anche se i
mediterranei hanno purtroppo smarrito
memoria e orientamento.
Il
documento dei c3dem, redatto dallo
storico Guido Formigoni, ha il pregio di mirare l'attenzione su tre questioni
vere e di bruciante attualità: l'esigenza oramai universalmente avvertita di
superare l'austerità; il rilancio del modello sociale europeo in grado di
promuovere l'inclusione attraverso un solido welfare (quantomeno rispetto agli altri);
un nuovo protagonismo europeo nel mondo: quello che la vicenda ucraina denuncia
come drammaticamente latitante.
|
A. Spinelli |
Le elezioni imminenti
La grande novità di queste elezioni europee -secondo l'acuta
analisi di Bartolo Ciccardini- sta nel fatto che per la prima volta il
Parlamento Europeo, che uscirà dalle urne del 25 Maggio, eleggerà direttamente
il Presidente dell’Unione Europea, che non sarà più il portavoce dei governi
che lo hanno scelto, ma il vero rappresentante istituzionale dei ventotto paesi
che formano l’Unione. Un piccolo passo per la burocrazia, ma un grande salto
per la politica.
I due candidati dei partiti maggiori, sono, per ora, Jean-Claude
Juncker, del Ppe (Partito Popolare Europeo) e Martin Schulz, del Pse ( Partito Socialista Europeo). Si va
delineando così un sistema bipartitico che potrebbe essere molto importante per
la nascita di un vero e proprio Governo europeo. Siamo quindi ad una svolta
molto importante, di cui dovremmo occuparci di più. Ci siamo già lamentati che
in Italia le elezioni europee si siano trasformate in una sorta di sondaggio
sui consensi di Berlusconi o di Grillo. Ma i sondaggi d’opinione si consumano
presto e la realtà politica finirà con l’imporsi. Per ora dobbiamo constatare
quanto siamo lontani da quello che accade in Europa. Banco di prova
scoraggiante è la crisi ucraina, che mette non soltanto in gioco i rapporti con
la Russia di Putin, particolarmente delicati per l'approvvigionamento
energetico. L'iniziativa di Obama fa risaltare l'assenza di una politica estera
europea. Assente come sempre e secondo copione lady Ashton, nonostante la
"teoria dei cappelli" la ponga anche come capo delle forze armate
europee, incerta e riluttante, anche in questo caso secondo copione,
l'iniziativa di Berlino. E alle cautele di Angela Merkel fa da contrappunto la
presenza ai vertici di Gasprom di Schoreder, quasi a testimoniare una linea
alternativa possibile in qualche modo memore del classico Drang nach Osten.
Il risultato è la continua latitanza dell'Unione sia ad Est come
nel Mediterraneo: dove la mancanza di politica estera e di iniziativa è
espressione dell'incertezza dell'Europa su se stessa e sul proprio destino. E
quindi sulle strade in tutti i sensi percorribili, dal momento che non soltanto
in una fase di crisi globale sovranità politica e politica economica si tengono
strettamente.
Da che mondo è mondo -e non soltanto nella modernità- il rapporto
tra il commercio e la bandiera continua a funzionare anche quando viene
sottovalutato.
I casi italiani
|
M. Renzi |
Matteo Renzi, appena diventato segretario del Partito Democratico,
con il suo cipiglio decisionista ha risolto una vecchia questione: ha fatto
aderire il Partito Democratico italiano al Pse, Partito Socialista Europeo, che
presenta candidato alla carica di Presidente dell’Unione europea, Martin
Schultz.
È probabile che moltissimi elettori del PD non sappiano nulla di
Martin Schulz e non sarà certo il suo nome ad aumentare i voti del partito. A
disturbare i rapporti fra Renzi ed il candidato Schultz è giunto anche un
intervento molto inopportuno del candidato socialista, il quale, ricordandosi
di essere tedesco, aveva rammentato all’Italia che prima deve adempiere ai
propri compiti, mettere a posto il bilancio, e poi dare dei suggerimenti. A
questa uscita Renzi ha giustamente risposto dicendo che l’Italia sta mettendo
in ordine i suoi conti non perché ce lo chiede l’Europa, o Martin Schulz, ma
perché ce lo chiedono i nostri figli…
Nel secondo semestre del 2014 l’Italia presiederà il governo
dell’Unione. Potrebbe essere una grande occasione per realizzare un programma
europeo per la soluzione della crisi economica superando le troppo dure
strettezze imposte dalla Merkel, ma né Schulz ha dato prova di grande interesse
a questo problema, né Renzi ha avuto il tempo di farsi apprezzare in Europa.
Questa dissonanza allontana, ancora di più, se ce ne fosse stato bisogno, tutta
la sinistra italiana dal vero contenuto politico delle elezioni europee.
Andiamo così ad un elezione che sa di bipartitismo con il partito
italiano aderente al Pse che non è sulla stessa lunghezza d’onda del candidato
socialdemocratico europeo. Queste del resto possono risultare riflessioni tutte teoriche
perché non è da escludere l'ipotesi che Renzi possa guidare il governo europeo
con un presidente eletto del Ppe.
Ci sarebbe probabilmente voluta una campagna elettorale “europea”
in grado di impegnare tutti i socialisti
d’Europa in un forte progetto “antirigidità”. In altre parole, facendo una
pressione sulla Merkel, non da “italiani”, ma da “socialisti europei” per
rompere l’accerchiamento che il caso Berlusconi ha creato contro di noi. Ma
forse non era realistico pensare che Renzi, impegnato quotidianamente nei
capricci italiani, avrebbe potuto occuparsi della campagna europea. Così il
nostro tradizionale provincialismo finisce per risultare troppo prossimo agli
egoismi delle piccole patrie, accettando il terreno degli avversari interni,
con una riduzione degli orizzonti europei a quelli della nazione.
|
A. De Gasperi |
Per una non casuale specularità la situazione non è migliore
sull’altro lato dello schieramento. Il candidato del Ppe è, come ricordato,
Jean-Claude Juncker, Governatore della Banca Mondiale dal 1989 al 1995.
Jean-Claude Juncker assunse dal 1995 la responsabilità di Governatore del Fondo
Monetario Internazionale e di Governatore della Banca Europea per la
Ricostruzione e lo Sviluppo. E’ stato presidente dell’Eurogruppo, carica da cui
si dimise per protestare “contro le ingerenze franco-tedesche”. Già capo del
governo del Lussemburgo, fin da giovane è presidente del Partito Popolare
Europeo. È un personaggio carolingio
(osserva sempre l'informatissimo Ciccardini) di quell’area franco-tedesca che
ha dato molti uomini all’Europa.
Juncker è il candidato della Signora Merkel. Ma questo non sarebbe
un difetto, dato che la signora Merkel è la vera leader del Ppe oltre che
essere la Cancelliera della più forte tra le nazioni che compongono l'Unione
Europea. Il suo difetto più grande è quello di essere il candidato sbagliato
della signora Merkel. La Merkel ha realizzato la sua supremazia sul Ppe
commettendo due gravi errori. Il primo errore è stato quello di prendere il
potere in Germania eliminando in malo modo, in maniera ruvida e non del tutto
corretta, una personalità politica come Helmut Kohl, grande leader e democratico-cristiano a tutto tondo.
L’attacco fatto dalla Merkel su presunti errori morali di Kohl, ha liquidato in
modo innaturale la grande politica di Kohl, che voleva la Germania dentro una
forte Europa perché aveva paura di una Germania troppo potente. Diceva Kohl di
voler salvare la Germania da sé stessa.
Era riuscito a raggiungere l’obbiettivo, ritenuto da tutti
impossibile, dell’unificazione tedesca, affermando che attraverso l’Europa
voleva opporsi ad ogni volontà egemonica rigida ed inflessibile, che è sempre
stato il lato oscuro del nobile civismo della nazione tedesca.
La Signora Merkel, nata ed educata nella Germania orientale
comunista, figlia di un pastore protestante, cresciuta nella ostile neutralità
della Chiesa Luterana sopravvissuta nel duro regime comunista, non ha nulla
della grande sensibilità europea dei democratici cristiani, Adenauer, De
Gasperi e Schumann, educati nel cattolicesimo democratico che parlava la lingua
delle università tedesche.
|
M. Schulz |
Il secondo errore della Merkel è conseguente al primo: la Merkel
ha ammesso i partiti conservatori nel Ppe, tradendo l’essenza intima della
Democrazia Cristiana europea. Non è stata solo una sua colpa. Purtroppo ha
potuto farlo perché è improvvisamente e irreversibilmente finita la direzione
morale e culturale che la Dc italiana aveva saputo dare al Ppe. Una Dc
malamente scomparsa in Tangentopoli dopo essersi identificata con lo Stato,
secondo un processo che fu chiaramente denunciato da Enrico Berlinguer.
Ma con Angela Merkel il Ppe non è solo diventato la destra
europea, ma ha perfino accolto nelle sue file il partito di Silvio Berlusconi,
che ancora oggi è il membro italiano più importante del Ppe. Ora questa
contraddizione è venuta al pettine a causa di una uscita infelice di Berlusconi
che rimprovera i tedeschi di aver cancellato il ricordo dei Lager, cosa
incredibile più che stupida, essendo i tedeschi, non i soli ad aver fatto i
campi di concentramento in Europa, ma i soli a ricordarlo e a condannarlo.
A questa offesa ha reagito in modo deciso, come era giusto, la
Cancelliera ed in modo ancor più preciso il lussemburghese Juncker, Presidente
del Ppe. Ma non potevano pensarci prima? E qui appare tutta la loro debolezza.
Non possiamo quindi meravigliarci troppo se le elezioni europee si
sono trasformate in una noiosa rappresentazione della crisi italiana con la
irrimediabile decadenza di Berlusconi, con gli abituali paurosi azzardi di
Grillo, con la fatica immane del povero Renzi per tentare di fare riforme in un
Paese confuso e stralunato.
|
A. Merkel |
Cosa succederà? In Europa, andrà tutto bene. La Merkel otterrà la
sua vittoria, ma si troverà probabilmente costretta a ritirare il suo candidato
e ad accettare un candidatura forte,
suggerita dai conservatori inglesi o comunque scelta nell’estremo Nord.
Gli italiani saranno danneggiati comunque dal fatto che non ci sarà un
risultato del Ppe che non sia da noi a prevalenza berlusconiana. Alfano è alle
prime armi e Casini alle ultime…
A sinistra Schulz non è riuscito a mobilitare un presidente
francese, Holland, in sala di rianimazione, ed un promettente premier italiano
in rodaggio e considerato non a torto “troppo italiano”. La speranza è che
ritorni a volere l’Europa la Germania vera, quella di Adenauer e di Khol,
quella dei tedeschi che guardavano con rispetto e con fiducia alla “strana”
Democrazia Cristiana italiana, che non riusciva ad essere un partito
conservatore e non voleva ammettere i conservatori nel Ppe, specialmente se
inglesi euroscettici.
Un sintomo buono c’è. I vescovi tedeschi hanno fatto un appello ai
cattolici tedeschi per difendere l’Europa “sociale”. La Merkel è avvisata. (I
Vescovi italiani invece prolungano il loro silenzio.)
Perché i vescovi? Perché si tratta della porzione di classe dirigente
più prossima per cultura
-attraverso il filo bianco della dottrina sociale della Chiesa- alla
forma cattolico-democratica che ha pensato la nostra patria Europa. Mi suscita
qualche brivido e perfino rischio di irritarmi con me stesso sul punto di
esternare una simile riflessione proprio nei giorni che vedono la reiterata
incriminazione di Gianstefano Frigierio, uno dei vertici democristiani di
Tangentopoli. Quando tornai dall'ultima spedizione nella ex Jugoslavia scrissi
che il reciproco ostacolarsi delle cancellerie europee, tra chi pensava
l'Europa democristiana e chi la voleva invece socialdemocratica, aveva condotto
alla dissoluzione politica dei Balcani Occidentali, con gli americani che erano
dovuti intervenire a togliere, in particolare nel Kosovo, le castagne dal
fuoco.
Mi sto ricredendo... Se torno ai padri fondatori, devo rendermi
conto che, con l'eccezione di Spaak, tutti pensavano, da de Gasperi ad
Adenauer, da Schuman a Monnet, con le categorie democratico-cristiane. Al punto
che pare lecito chiedersi se, esaurita quella forma di pensiero e quei
testimoni, non sia anche svanito il luogo culturale dal quale l'Europa è stata
pensata. Una forma svuotata dall'interno per la presa di distanze di Angela
Merkel dal sentire di Helmut Kohl, per la sostituzione del suo pensiero con la
presenza della destra conservatrice inglese e non soltanto, con l'attenta cura
del tinello tedesco che ha sostituito quella dell'idealità germanica, con
l'eccessiva prossimità e l'asservimento dei superstiti della Cdu, come
Scheuble, alla Bundesbank e in generale alle ragioni del mercato...
|
E. Berlinguer |
Un pensiero va anche alla "terza via" riaggiornata per i
laburisti e per Tony Blair da Anthony Giddens. Non ne è rimasta traccia. Al
punto che mi assale il dubbio che di terza via effettiva non ci sia che quella
antica e democristiana. Al punto che in questa luce perfino Jacques Delors può
apparire una variazione socialista interna alla terza via
democratico-cristiana. E mi sovviene di come il cardinale Ruini, allora
presidente della Conferenza Episcopale Italiana, invitasse ai corsi di
formazione riservati agli altri quadri del cattolicesimo sociale italiano
proprio gli uomini del circolo di Delors. E tutti sanno quanto fosse di lunga
lena e caratterizzata da acuta cocciutaggine l'attenzione del Cardinale
Presidente alla tradizione democratico-cristiana.
Quanto alla socialdemocrazia? Forse risulta istruttivo riflettere
a dove sia collocato l'ultimo suo grande leader: Schoreder. È nel vertice di
Gasprom, dal quale guarda con realismo e lungimiranza alle posizioni di Putin e
agli interessi della Germania sui casi tragici dell’Ucraina. Resta la mossa
fulminea e geniale di Matteo Renzi che ha collocato il PD italiano d'un balzo
nell'alveo del Pse. Si è parlato di taglio del nodo gordiano. Messi a tacere in
un colpo quanti avevano giurato in precedenza che non sarebbero morti socialdemocratici.
Si trattava in effetti di giaculatorie elettorali.
Renzi, che è culturalmente postideologico e che non mostra alcuna
angoscia per l'assenza di fondamenti, ha capito da subito che non era il caso
di tagliare alcuno nodo, per la semplice ragione che il nodo non c'era più da
tempo.
Quel che resta sul tappeto è la forma europea e il suo destino.
Può essere pensata a prescindere da una cultura -certamente nuova- in grado di
darle fondamento?
L'altra considerazione riguarda le radici culturali dell'Unione
vista "da sinistra". I comunisti europei -quando consideravano la
socialdemocrazia un inciampo e un insulto- faticarono non poco a prendere le
distanze dalla Mosca bolscevica. Non l'unità europea era l'orizzonte, ma
l'internazionalismo operaio. L'Europa non doveva quindi essere pensata in
quanto tale. Unica eccezione nel nostro Paese l'anomalia di Giorgio Napolitano,
poi a lungo presidente del Movimento Europeo. E ciò curiosamente e virtuosamente
a dispetto del suo maestro Giorgio Amendola, che riuscì sempre a coniugare una
grande e spregiudicata attenzione alle ragioni del capitale con una stretta
fede staliniana.
Quanto alle socialdemocrazie (e non stiamo pensando per carità di
patria a quella italiana) non sono invece mai riuscite ad elaborare un'idea
europea all'altezza di quella democratico-cristiana. E dunque gli esiti attuali
sono in linea con uno scarso retroterra.
Anche le sinistre francesi non hanno mai brillato su questo
terreno. Il comunista Maurice Thorez è la pietra di paragone adatta per fare
risaltare la lungimiranza dell'eurocomunismo di Enrico Berlinguer. E la lettura
de L’Humanité mi ha sempre depresso
al pari di quella dei bollettini parrocchiali. Credo del resto non sia un
difetto di visione attribuire a Fabius il definitivo affossamento via
referendum del trattato costituzionale europeo. Con un rimpianto per la
disattenzione evidente dei politici francesi – Giscard d’Estaing in testa – a
quanto invece hanno saputo produrre ed offrire gli storici di lingua francese,
da Braudel a Le Goff.
Rioccupandoci dei casi tedeschi, se è indubitabile la statura di
statisti di Willy Brandt e Helmut Schimdt, mi pare necessario mettere in
rilievo come l'idea europeista sia cresciuta in particolare tra i verdi
tedeschi, da Fischer a Cohn-Bendit, il quale ultimo dando l'addio al Parlamento
europeo ha giustamente osservato che purtroppo "l'Europa ha il cuore
freddo". Dove evidentemente la passione stabilisce un rapporto molto stretto
con l'intelligenza politica.
Tornando a noi, un minimo di respiro storico è in grado di
renderci edotti di quanto siano solide nel nostro Strapaese le radici di un
ostinato provincialismo insieme a quelle, tutto sommato analoghe, dei nuovi
populismi.
Di un ultimo trend mette conto occuparsi. Quello che riguarda i
popoli che sono approdati all'Europa dei 28 dopo avere passato decenni dietro
la cortina di ferro. In più di un caso hanno scelto di entrare prima nella Nato
che nell'Unione. Come a dire che entravano in Europa pensando all’America...
|
D. Cohn-Bendit |
Il secondo
errore
Il secondo errore di questa campagna elettorale europea agli
sgoccioli è avere accettato il terreno degli euroscettici che hanno trasformato
la consultazione in un referendum intorno all’euro. E quindi nell'avere di
fatto legato il destino dell'Europa ai livelli della sua moneta, alle
speculazioni e agli umori che intorno ad essa vanno creandosi.
Grave soprattutto la dimenticanza che riguarda le origini della
nostra moneta, dal momento che ogni moneta ha radici e si colloca all'interno
di una sovranità, e non di rado conserva i suoi
arcana imperii al di fuori
delle notizie date in pasto all'opinione pubblica.
Bisogna riandare alla caduta del muro di Berlino e alla decisione
di Helmut Kohl di procedere alla riunificazione della Germania anche mediante
la parità del marco: quello occidentale e quello orientale in vigore nella Ddr.
Perché si trattava di porre le basi della soluzione di quello che soprattutto
ad occhi italiani poteva apparire il rischio di un "mezzogiorno
tedesco". Immaginabili la frenesia e lo sconcerto che attraversavano le
principali cancellerie europee. Le telefonate tra Parigi e Londra, mentre da
Roma Giulio Andreotti non celava le proprie perplessità affermando con un
sarcasmo non tutto diplomatico: "Amo così tanto i tedeschi che di Germanie
continuo a preferirne due".
L'euro è dunque la risposta ai timori di un'Europa che paventa il
dilagare dello strapotere del marco e della Buba. Come si vede, ancora una
volta l'intelligenza del problema sta nella radice che chiarisce insieme il
destino e le difficoltà.
La stagione
|
M. Tronti |
Difficile
definire questa stagione, che a Mario
Tronti appare segnata da storie minori, in fuga dalla profezia e dalle utopie,
con un rumore di fondo invariabilmente in mibemolle… È la musica, forse, di
questo post moderno, dove al “post” è assegnata la funzione di indicare quel
che non siamo in grado di criticare e
tantomeno di cambiare. Ma è proprio soltanto così? Un paio di decenni fa rispondere
era più facile: l’ordine internazionale di Yalta delineava un quadro in cui
orientarsi. Oggi non è più così. È crollato il vecchio ordine internazionale e
quello nuovo è in una faticosa fase di gestazione. Questa davvero è la nostra
condizione.
Questa
percezione del passaggio d’epoca è essenziale per parlare oggi dell’Europa. E
ci obbliga a pensare Europa. A pensare europeo. L'Europa che verrà è un’Europa
oltre se stessa. Oltre il sogno americano. Spiace per l'Alta Corte tedesca, ma
Europa non è la copia degli Stati Uniti d'America. Altro il nostro federalismo.
Là dove la legge governava gli spazi, qui oggi le etiche sono chiamate a
governare il consumismo. Non soltanto tribunali, ma cattedrali, sinagoghe e
moschee. Non più tedeschi, francesi, italiani, ma meticci di un mondo in progress. L'Europa non è Stato federale
analogizzabile agli Usa perché è processo e procedimento, e quindi, a partire
dal Vecchio Continente, sogno di futuro. Non più la scritta sulla parete del
tribunale che dichiara la legge uguale per tutti, ma l'opinione pubblica, i
suoi guasti “medievali", le ondate dell'emozione (e qualche riedizione di
caccia alle streghe), il Papa alla finestra dell'Angelus romano e il gracchiante altoparlante del muezin importato.
Al suo interno, e anche sui confini, gli spazi chiedono di essere
ricontrattati. Detto husserlianamente, le diverse "regioni"
ridisegnano rapporti, vicinanze e lontananze, compatibilità e incompatibilità,
spazio privato e spazio pubblico, religione e laicità dello Stato... Fino a
strapazzare i classici, alla invitante maniera di Saul Bellow.
Quest'Europa
è modello da implementare. Plastico. Tuttora ignoto a se stesso. Non solo avidi
mercanti e burocratici banchieri. Non la merce al centro, ma il lavoro e la
relazione: questo suggerisce la crisi finanziaria esplosa alla fine d'agosto
2008. Nessuna tirchieria mentale condurrà questa Europa in un porto sicuro,
perché il suo unico destino è il mare aperto. Illuminanti in proposito alcuni
discorsi di papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Slovenia
nel maggio 1996. Rivolgendosi ai religiosi nella cattedrale di Ljubliana, il
Papa Polacco così si esprimeva: "Il ricordo del passato deve spingere a
progettare il futuro." E ne
indicava le ragioni: “Questa è l'ora
della verità per l'Europa. I muri sono crollati, le cortine di ferro non ci
sono più, ma la sfida circa il senso
della vita e il valore della libertà rimane più forte che mai nell'intimo
delle intelligenze e delle coscienze.” Per dedurne: “Il clima attuale di
angoscia e sfiducia riguardo al senso della vita e lo smarrimento manifesto
della cultura europea ci sollecitano a guardare in modo nuovo ai rapporti tra cristianesimo e cultura, tra fede e
ragione. Un rinnovato dialogo tra cultura e cristianesimo gioverà sia all'una
che all'altro, e a trarne vantaggio sarà soprattutto l’uomo, desideroso di
un'esistenza più vera e più piena.” A trarne vantaggio sarà anche la complessa
laicità della patria Europa, senza la quale nessuna forma politica europea può
risultare all'altezza dei tempi e duratura.
Se
dunque da una parte emerge il vuoto lasciato dalle ideologie e si fa strada un
significativo risveglio della memoria delle proprie radici e della ricchezza
d'un tempo, dall'altra viene indicata l'esigenza di impostare in modo corretto
e aggiornato i rapporti tra le nazioni e la stessa idea di nazione. Osserva il
cardinale Dionigi Tettamanzi: "Su questo punto il magistero di Giovanni
Paolo II chiede che questi problemi siano risolti seguendo i principi di
sussidiarietà, di solidarietà e di responsabilità: principi tra loro
inscindibili e da applicare in modo unitario e simultaneo. In particolare il
Papa lancia il concetto di "famiglia delle nazioni". Nel suo discorso
all'Onu nell'ottobre 1995 egli rileva che “il
concetto di famiglia evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei
semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia
è, per sua natura una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno
vicendevole, su un rispetto sincero. In un'autentica famiglia non c'è il
dominio dei forti, al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro
debolezza, doppiamente accolti e serviti. Sono questi, trasposti al livello
della "famiglia delle nazioni", i sentimenti che devono intessere,
prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli”.
Può
quello che viene ancora abitualmente chiamato Vecchio Continente confrontarsi
con un simile orizzonte? La risposta viene ancora una volta dal Poeta: senesco sed amo.
|
Papa Francesco |
Ora
questa concezione, e quindi l'identità dell'Europa, viene determinata da una
serie di fattori e di elementi di diverso ordine, da quello geografico a quello
antropologico, da quello culturale a quello ecclesiologico. L'Europa alla quale
il Papa pensa è un'Europa intera e considerata nella sua globalità, non più
divisa in due tronconi o ridotta alla sola sua parte occidentale. Da qui
l'invito ad allargare lo sguardo oltre ogni confine naturale, nazionale e
artificiale per abbracciare tutta l'Europa e tutti popoli del continente, "dall’Atlantico
agli Urali, dal Mare del Nord al Mediterraneo". Così si espresse il Papa
la prima volta il 10 settembre 1983 alla celebrazione dei "Vespri
d'Europa" nella Heldenplatz a Vienna. Con l’avvertenza, appunto, di non
mettere tra parentesi il Mediterraneo, là dove una lunga utopia rischia di
morire, perché, come ha sconsolatamente scritto Predrag Matvejevic: “Dopo la
caduta del Muro di Berlino è stata costruita un’Europa separata dalla “culla
dell’Europa”. Le decisioni relative alla sorte del Mediterraneo sono state
prese comunque senza coinvolgerlo. […] Tanto nei porti quanto al largo, “le
vecchie funi sommerse”, che la poesia si proponeva di ritrovare e riannodare,
spesso sono state rotte o strappate dall’intolleranza o dall’ignoranza. […]
L’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non s’identificano affatto.
[…] L’11 settembre 2001, insieme alle fiamme e alla polvere delle Torri gemelle
di New York, è emersa una crisi di sfiducia di dimensioni planetarie, con il
conseguente peggioramento dei rapporti tra l’Occidente e il mondo arabo e
islamico. La situazione è precipitata e ha toccato il fondo dopo i sanguinosi
attentati di Londra e di Madrid.”
|
P. Matvejevic |
Esiste
una via di sortita? E’ possibile un progetto comunemente condiviso? Per
Matvejevic “i progetti per l’alleanza delle civiltà rappresentano in parte una
reazione viva allo scontro delle civiltà, secondo la ben nota formula usata dal
professore americano Samuel Huntington, morto recentemente, nel suo libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine
mondiale. Questa “teoria” richiede un approccio particolarmente critico.
Non si tratta di uno scontro delle componenti culturali di una civiltà, di
culture in quanto tali. Si scontrano infatti le espressioni delle culture
alienate e trasformate in ideologie, quelle che operano non più come contenuti
culturali, ma proprio come fatti ideologici. Il pericolo è noto da tempo: una
parte della cultura nazionale si è trasformata, nelle varie epoche e nei
diversi luoghi, in ideologia della nazione. Aspettiamo una nuova cultura che ci
sostenga. Siamo impazienti: non sappiamo se la letteratura, i suoi vari
modelli, generi, discorsi possano aiutarci davvero. Forse con essa sarà almeno
più facile sperare.”
Il versante essenziale
Non
a caso un versante essenziale dell’iniziativa europea è il suo modello di
società. Lo Stato Sociale, così come lo abbiamo conosciuto e come lo stiamo
trasformando, è stato una invenzione europea. Trasformare sicurezze corporate
in diritti di cittadinanza ha comportato un lungo cammino che ha visto al suo
centro il movimento dei lavoratori e l’espandersi della sensibilità sociale
delle istituzioni. Una democrazia sociale, una democrazia sostanziale… Non
bastava, non è bastata una democrazia liberale. Oggi si tende a contrapporre
uguaglianza e libertà. Lo Stato Sociale europeo è stato di fatto una terza via
tra una libertà insensibile all’uguaglianza (America) e una uguaglianza senza libertà (la Russia Sovietica).
Poteva esserci una libertà responsabile, aperta alla dimensione dell’uguaglianza
proprio mentre esaltava la libertà delle persone? Appunto, persone e non meri
individui… E’ possibile una diversità non estranea alla solidarietà? E’
possibile una uguaglianza che valorizzi la diversità? Siamo stati un grande
campo di sperimentazioni. Non si è certo trovata la formula magica, ma si è
intravista una via, si sono fatte esperienze, si sono sedimentate istituzioni
che ci fanno oggettivamente diversi dagli altri.
Possiamo
discutere, e lo si è fatto per decenni, dei vari tipi di Stato Sociale:
nordico, continentale, mediterraneo. Ciò che accomuna sotto le formule è la
sensibilità sociale delle istituzioni. Un capitalismo compassionevole sarebbe
da noi una regressione antropologica e civile. C’è, insomma, uno stile di vita
europeo, una percezione dei diritti e dello Stato che è un valore da proporre e
da continuare a produrre.
Proporre
non vuol dire imporre. Non si impone la libertà e non si impone la democrazia.
Il conflitto geopolitico comporta questa molteplicità di modelli, di soluzioni
all’esperimento sempre aperto della vita associata. La lunghezza e la
complessità della nostra storia può essere una risorsa inesauribile per creare
un’altra possibilità, non unica, alla variegata storia del mondo.
E
quando parliamo di stile di vita europeo parliamo anche di una misura diversa
della vita. E’ immaginabile una città europea di 24 milioni di abitanti? Le
“piccole” città dell’Europa, il suo “piccolo” mare rispetto allo sconfinato
oceano non sono una “riserva indiana”, ma possono indicare una dimensione nuova
ai processi in corso. Nell’oceano immenso ci siamo stati e da protagonisti. Non
ci siamo rinchiusi negli spazi fermi, nei mari chiusi. C’è sempre stata una
frontiera da oltrepassare. Sono state le nostre “Colonne d’Ercole”. Dallo
stretto di Gibilterra a Costantinopoli abbiamo dialogato con l’oceano e altri
mari, a loro volta approdi di popoli immensi e lontani. Ma siamo stati anche in
grado di dare misura agli spazi infiniti. La distribuzione delle città, la
rioccupazione delle campagne, il ripopolamento delle colline, la riscrittura
dell’ambiente sono tutte compatibili con l’incredibile sviluppo delle nuove
tecnologie.
Hanno
senso megalopoli interminabili nelle straziate periferie del mondo? Hanno senso
monoculture umilianti che desertificano la terra di uomini e di società?
Una
Europa della solidarietà e dell’accoglienza è una Europa che misura i processi
della globalizzazione riportandoli al loro profilo umano. E’ l’Europa del
“radicamento”, di cui parlava Simone Weil, contro lo sradicamento di una
globalizzazione senza politica. Per questo diventa decisiva la funzione
dell’Europa: l’Europa del dialogo. La caccia al terrorista sta disseminando nel
mondo focolai di guerre inconcludibili, che non preparano un nuovo ordine. In
questi ultimi decenni abbiamo assistito a guerre senza politica, a guerre
lasciate lì, perennemente aperte. Una politica estera europea non può adeguarsi
allo stato delle cose: ne uscirebbe annullato il suo ruolo nel mondo. Da dove
il malinteso? L’Europa non è negli statuti, bensì nelle origini e nel processo
lungo il quale si va costituendo. Non rientra nei canoni della cultura
giuridica tedesca, e si distanzia dalla visione che ne ha la Corte Costituzionale
germanica che le assegna un profilo troppo simile a quello dello Stato Federale
statunitense. Così come non appartiene alla cultura dell’innovazione che
implica continuismo ed inerzia, ma a quella della trasformazione: delle forme e
-si spera- dei soggetti. Non è insidiata dai referendum avversi di Irlanda,
Olanda e Francia, ma dall’idraulico polacco… Proprio perché i nuovi europei la
guardano più dal punto di vista del Welfare che da quello di Giscard D’Estaing
e dell’équipe che con lui ha prodotto la Carta. Per
questo Europa è figura che matura lentamente e nella storia e sulla scena
politica. Insomma, questa Europa, direbbe Dossetti, non è da fissare in una
fotografia, ma da seguire in una sequenza filmica.
|
G. Napolitano |
Conclusivamente
è dunque possibile dire che senza una rinnovata cultura politica non si dà
forma europea. Non basta più l'allontanamento da due guerre disastrosamente
apocalittiche che costituì l’incentivo primario al pensiero e all'azione dei
padri fondatori. E per quel che riguarda l'Italia appaiò le posizioni pur tanto
distanti di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli.
Senza
un adeguato orizzonte politico quest'Europa non può crescere né persistere, e
l'infinita discussione sull'euro riguarda in effetti più le modalità di una
zona di libero scambio che quelle dei futuri "Stati Uniti". Un
discorso che accomuna in una generale povertà da riconoscere le vecchie come le
nuove generazioni. Che in particolare mette il dito sulla natura della classe
dirigente, anche quella che si espone al voto di maggio.
Senza
un fondamento culturale adeguato finiremo per votare la parte elettiva di una
pur necessaria burocrazia. E se la politica fa sempre i conti con la necessità
prima che con il sogno, è anche vero che i cuori degli europei non possono
essere scaldati dalle liturgie della democrazia, ma restano comunque in attesa
di nuove passioni e di chi le sappia suscitare.
Note
1.Citato in Dionigi Tettamanzi, Giovanni Paolo II e l’Europa dei due polmoni, pro manuscripto,
Genova, 7 ottobre 1998, p. 8.
2.Ezra Pound, Pisan Cantos, trad.
it. Canti
Pisani, Guanda, Parma, 1979, p. 125.
3.Predrag Matvejevic, Mediterraneo, così muore un’utopia, in “Corriere della Sera”,
sabato 28 febbraio 2009, p. 46.
4.Ibidem