PER UN MANIFESTO MILANESE
di Giovanni Bianchi
La solitudine
dell'interrogativo
Non mi scoraggia la sensazione che proporre in questa fase
una sorta di esame di coscienza sullo stato della formazione politica possa
apparire l'iniziativa di un gruppo di simpatici alcolisti anonimi in un Paese
se non ubriaco almeno alticcio da tempo. Né diminuisce il disagio se provo
criticamente a invertire la metafora: saremmo noi gli abituati a un vino
robusto e pregresso, mentre da qualche tempo va di moda una bevanda insieme
energetica ed analcolica i cui effetti collaterali non sono tuttavia stati
testati... Ma il riproporsi degli interrogativi e il prolungarsi del disagio né
convincono né aiutano a vivere. Da qui l’iniziativa di guardare dentro al
problema mentre mettiamo sotto osservazione le nostre esperienze.
Sappiamo anche che non è più tempo di manifesti, ma di umili
(non modesti però nel livello e nell'ambizione) e volenterosi cenacoli.
Ovviamente le decisioni passano altrove ed abitano le
immagini della pubblicità che, anche nell'agone politico, ha sostituito la
propaganda. E il primo interrogativo è se abbia un senso pensare politicamente
senza preoccuparsi immediatamente della decisione conseguente, ed anzi
inseguendo i meandri e le pause del pensiero che sempre più raramente viene a
noi e che ha tutta l'aria di perdersi nei suoi labirinti gratuiti.
C'è un interrogare politicamente la storia e la contingenza
che eviti non soltanto l'inefficienza ma anche l'insensatezza? C'è una politica
in grado di prescindere dalla valutazione critica e dalla ruminazione di chi
medita? Può il decisionismo legittimare se stesso ed esibire quasi con sarcasmo
e con il dileggio della fatica di pensare la propria potenza?
La nuova logomachia da talkshow, che ha sostituito l'antica
eristica, può tradurre indefinitamente l’audere
semper – che notoriamente non è un mantra della sinistra – nell'ossessione
del linguaggio mediatico che ci condiziona da sopra e da fuori? È destinata a
risultare eterna la stagione del narcisismo vincente? (E quanti possono vincere
nel narcisismo vincente?)
Sono questi soltanto una parte degli interrogativi che ci
sospingono ad una riflessione sulla formazione politica e più ancora sulla
latitanza di una cultura politica, che è la condizione più evidente di questa
stagione senza fondamenti.
Oltre una divisione
del lavoro generazionale
Opera di Rod Dudley |
Parrebbe stabilita una divisione generazionale del lavoro:
alle nuove generazioni l'ossessione del fare (che si presenta come l'ultima
versione del riformismo); agli anziani il rammemorare nostalgico, sconsolato e
non raramente brontolone. È una condizione tale da impedire se non un lavoro
almeno un punto di vista comune?
È risaputo che il realismo sapienziale afferma che comunque
ogni generazione deve fare le sue esperienze. E tuttavia è il processo storico
a tenere insieme e concomitanti le diverse generazioni. Lo evidenziava Palmiro
Togliatti ricordando don Giuseppe De Luca a un anno dalla sua morte: "Una generazione è qualcosa di
reale, che porta con sé certi problemi e ne cerca la soluzione, soffre di non
averla ancora trovata e si adopra per affidare il compito di trovarla a coloro
che sopravvengono. E in questo modo si va avanti".
È in
questa prospettiva che ci pare abbia senso riferirsi a quello che vorrei
chiamare il guadagno del reducismo. Purché il reduce abbia coscienza d'essere
tale, sappia cioè che il suo mondo è finito e non è destinato a tornare.
Troverà ancora in giro tra i vecchi compagni e militanti il richiamo della
foresta, ma le foreste sono tutte disboscate, non ci sono più, nessuna foresta,
per nessuno.
Il
reduce ha anche il vantaggio di osservare come la storia abbia rivisitato le
contrapposizioni del passato, rendendole meno aspre e consentendo meticciati un
tempo impensabili.
Le
distinzioni ovviamente non vengono meno, ma diverso è l'animo e diversa
l'intenzione di chi, pur avendole vissute, le misura oggi con il senno di poi.
Vale anche in questo caso l'osservazione di Le Goff e Pietro Scoppola: la
storia discende dalle domande che le poniamo.
E tuttavia,
reduci da che? Può dirsi in sintesi e alle spicce, dal Novecento.
È il
Novecento un secolo che non fa sconti, né a chi lo giudica "breve",
alla maniera di Hobsbawm, né a chi lo giudica invece "lungo", come
Martinazzoli e Carlo Galli. Per tutti comunque non si tratta di un secolo dal
quale sia facile prendere congedo.
Possiamo
infatti lasciare alle nostre spalle il gettone e perfino il glorioso
ciclostile, ma sarebbe imperdonabile scialo non mettere nel trolley Max Weber e
Carl Schmitt, La montagna incantata e
i Pisan Cantos, e quel patriottismo
costituzionale, non ostile alle riforme della Carta, che resta probabilmente
l'ultimo residuo di un idem sentire di questa Nazione rigenerata dalla Lotta di
Liberazione e distesa su una troppo lunga penisola.
Gli esiti
Diceva il cardinal Martini con l'abituale ironia: "La
politica sembra essere l'unica professione che non abbia bisogno di una
preparazione specifica. Gli esiti sono di conseguenza".
Anche la politica cioè nella stagione dell'assenza di
fondamenti e dei populismi non può prescindere dalla ricerca di radici fondanti
e di un progetto in grado di costituire una terrazza sull'avvenire. Di
preparazione, training e selezione dei gruppi dirigenti.
Per dirla alla plebea, anche in politica non si nasce
"imparati". Una condizione che costringe altrimenti a prender parte e
partito alla maniera del tifoso piuttosto che del cittadino come arbitro (chi
ricorda più Roberto Ruffilli?) o del militante: nel senso che lo schierarsi
viene prima della critica e della valutazione, con una implementazione
massiccia delle spinte emotive che si accompagnano ai poteri mediatici. Una
condizione non più concessa neppure ai più assennati tra i tifosi del vecchio
Torino... Una condizione costretta ad attraversare lo stretto sentiero che
separa ed unisce oggi dovunque la governabilità
e la democrazia.
I conti con il ruolo della cultura politica e di una
formazione specifica incominciano inevitabilmente qui. Ed è qui che il
confronto con Giuseppe Dossetti torna utile al di fuori e lontano da ogni
inutile intento agiografico.
Vi è infatti un'espressione, opportunamente atterrata dai
cieli tedeschi nel linguaggio giuridico e politico italiano, che definisce
l'impegno dossettiano dagli inizi negli anni Cinquanta alla fase finale degli
anni Novanta: questa espressione è "patriottismo costituzionale".
Dossetti ne è cosciente e la usa espressamente in una
citatissima conferenza tenuta nel 1995 all'Istituto di Studi Filosofici di
Napoli: "La Costituzione del 1948 – la prima non elargita, ma veramente datasi da una grande parte
del popolo italiano, e la prima coniugante le garanzie di eguaglianza per tutti
e le strutture basali di una corrispondente forma di Stato e di Governo – può concorrere a sanare ferite vecchie e
nuove del nostro processo unitario, e a fondare quello che, già vissuto in
America, è stato ampiamente teorizzato da giuristi e da sociologi nella
Germania di Bonn, e chiamato 'Patriottismo della Costituzione'. Un patriottismo che legittima
la ripresa di un concetto e di un senso della Patria, rimasto presso di noi per
decenni allo stato latente o inibito per reazione alle passate enfasi
nazionalistiche, che hanno portato a tante deviazioni e disastri".
Vi ritroviamo peraltro uno dei tanti esempi della prosa dossettiana
che ogni volta sacrifica alla chiarezza e alla concisione ogni concessione
retorica. Parole che risuonavano con forza inedita e ritrovata verità in una
fase nella quale era oramai sotto gli occhi di tutti la dissoluzione di una
cultura politica cui si accompagnava l'affievolirsi (il verbo è troppo soft)
dell'etica di cittadinanza della Nazione.
Non a caso la visione dossettiana è anzitutto debitrice al
pensare politica dal momento che uno stigma del Dossetti costituente è proprio
l'alta dignità e il valore attribuito al confronto delle idee, il terreno
adatto a consentire l'incontro sempre auspicato tra l'ideale cristiano e le
culture laiche più pensose. Avendo come Norberto Bobbio chiaro fin dagli inizi
che il nostro può considerarsi un Paese di "diversamente credenti".
Dove proprio per questo fosse possibile un confronto e un
incontro su obiettivi di vasto volo e respiro, e non lo scivolamento verso
soluzioni di compromesso su principi fondamentali di così basso profilo da
impedire di dar vita a durature sintesi ideali.
Il secondo lascito dossettiano lo troviamo invece quasi al
tramonto della sua esistenza terrena: "Ho cercato la via di una democrazia
reale, sostanziale, non nominalistica. Una democrazia che voleva che cosa? Che
voleva anzitutto cercare di mobilitare le energie profonde del nostro popolo e
di indirizzarle in modo consapevole verso uno sviluppo democratico
sostanziale".
Questo il fine. Interpreto così: come se il monaco di Monte
Sole ci dicesse che la democrazia non è soltanto un metodo, ma un bene comune
come l'acqua e come il lavoro.
Dove infatti una formazione politica all'altezza di questa
crisi si distingue dall’aggiornamento tecnologico cui si dedicano con diversa
competenza università ed aziende? Ripensare la formazione politica significa
riscoprirne la vocazione democratica. Senza questa nota dominante ricadremmo
comunque nelle regioni e nelle ragioni degli specialismi.
Dossetti si confida al clero di Pordenone in quello che mi
pare possibile considerare il suo testamento spirituale: la conversazione
tenuta in quella diocesi presso la Casa Madonna Pellegrina il 17 marzo 1994 e
pubblicata con il titolo Tra eremo e
passione civile. Percorsi biografici e riflessioni sull’oggi, a cura
dell'associazione Città dell'Uomo.
E il mezzo individuato come il più adeguato per raggiungere
il fine è per Dossetti l'azione educatrice: "E pertanto la mia azione
cosiddetta politica è stata essenzialmente azione educatrice. Educatrice nel
concreto, nel transito stesso della vita politica. Non sono mai stato membro
del Governo, nemmeno come sottosegretario e non ho avuto rimpianti a questo
riguardo. Mi sono assunto invece un'opera di educazione e di informazione
politica."
Dunque un’azione politica educatrice nel concreto, nel transito stesso della vita politica. Un
ruolo e un magistero al di là della separatezza delle scuole di formazione, nel
concreto delle vicende e del confronto e – si immagina facilmente, con a
disposizione la documentazione di un intero itinerario – prendendone di petto i conflitti e le
asprezze. Che appare con tutta evidenza la vocazione di una leadership
riconosciuta, il ruolo che fu dell'intellettuale organico, del partito politico
come in parte era e come dovrebbe essere, pur ipotizzandone impreviste
metamorfosi: capace cioè di organizzare persone e gruppi intorno a un progetto
e a una linea di pensiero.
La formazione di un
punto di vista
Quel che non cessa di apparire urgente è la formazione di un
nuovo punto di vista.
Il processo di rottamazione ottiene una sua plausibilità dal
trascinarsi di inerzie in grado di impedire ogni riforma, ma è costretto a non
ignorare due circostanze dirimenti.
In primo luogo, la velocità
introdotta nei processi politici in nome di una governabilità in conflitto con
una democrazia incapace di decidere ha finito per attraversare tutto il quadro
democratico e quello che un tempo si era usi chiamare "l'arco
costituzionale". E quindi inevitabilmente – probabilmente assai prima di
quando preventivato – finirà per incalzare gli stessi rottamatori.
In secondo luogo, se provvedimenti intesi a promuovere e
garantire democraticamente il ricambio non verranno tempestivamente varati, si
assisterà al rapido ricrearsi di una nuova casta: una sorta di burocratica
"metempsicosi" che vedrà l'anima castale passare da vecchi e
attempati organismi a nuovi e più energetici personaggi.
Eroi non si rimane,
sta scritto nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza Europea.
Probabilmente non è neppure un destino quello di restare riformatori in eterno.
Le riforme sono come le sirene: prima ammaliano – anche gli elettori e le masse
– con il canto e poi ti attirano tra marosi imprevisti dove ancora una volta navigare necesse est.
È a questo punto che il ruolo della cultura politica
ridiventa strategico. E quello della formazione indispensabile a garantire la
"plasticità" e l'ascolto democratico di un nuovo personale politico.
Ed è ancora a questo punto che la creazione di un punto di vista comune e
condiviso chiede di essere valutata e messa alla prova: altro del resto non
chiede questa convocazione milanese.
Un lavoro ed un cenacolo (consapevole del proprio peso) che,
come il buon scriba, tragga dalla cultura politica le cose utili e buone del
passato per confrontarle con il presente e il futuro. Un ambito dove la vecchia
generazione non faccia senza discernimento carta straccia di tutte le posizioni
lungamente studiate e consenta alle nuove di appropriarsene per volgerle in
decisione ed azione. Senza confusione di ruoli e furbate reciproche.
Spetta ai "reduci" sottoporre a giudizio le
antiche posizioni. Spetta alle nuove generazioni l'azione riformatrice.
È palese l'esigenza di confrontarsi senza remore
pregiudizievoli con lo spirito del tempo, ma anche di additare gli strumenti
della critica al medesimo spirito del tempo. Tutto può fare il nuovo riformismo
tranne che astenersi da una critica costruttiva. Il nuovo non è allontanamento
dal vecchio e dall'antico, ma critica e superamento – non solo innovazione, ma
trasformazione – di alcune tra le cose antiche e instaurazione delle nuove.
Qualora dimenticasse a casa le armi della critica, cadrebbe
inevitabilmente nella sostituzione del vecchio con il vuoto e si esporrebbe al
patetico della ripetizione sotto forme diverse.
Prima che un problema di ruoli, riflettere sullo stato della
formazione politica vuol dire chiedere se essa sia oggi possibile e a quali
condizioni. Vuol anche dire mettere in campo, magari a tentoni, nuovi tentativi
e nuove esperienze.
Perché il coraggio della politica non può essere inferiore a
quello della cultura.
Due elementi di
prospettiva
Esiste un orizzonte di breve termine? Due indicazioni mi
paiano in questo senso utili.
La prima riguarda l'inarrestabile sviluppo delle tecnologie
della comunicazione, in particolare quelle elettroniche. Una democrazia
postmoderna ed efficiente non può semplicemente ripararsi da esse. Le frizioni
tra governabilità e democrazia trovano anche su questo piano le occasioni di
confronto così come le modalità delle soluzioni partecipate.
Si tratta di fare conti inevitabili con la cultura delle
reti, che riguarda più da vicino la politica rispetto alle altre discipline. In
particolare non sono pensabili la comunicazione politica e la partecipazione,
anche sul territorio, a prescindere da un confronto serrato, critico e creativo
con le nuove generazioni dei media. Esse non possono pensare di consistere al
posto della democrazia rappresentativa, ma la democrazia rappresentativa non
può ostinarsi ad ignorarle.
In secondo luogo penso vadano positivamente valutate le
iniziative recenti che sembrano rompere un lungo indugio – addirittura uno
stallo – per mettere testa e mano alla riorganizzazione del partito. Considero
infatti tali gli incontri che dichiarano di avere come scopo la costruzione di
nuove correnti intorno a un idem sentire e a un nucleo culturale condiviso.
Credo rappresentino l'occasione per riaffrontare il tema
della partecipazione e dell'organizzazione politica, in un Paese che – unico in
Europa e al mondo – ha azzerato dopo Tangentopoli tutto il precedente sistema
dei partiti di massa.
Oltre la pratica opportuna delle primarie, che comunque
hanno costituito la surroga di un mito originario, l'organizzazione partitica
ribussa alla vita democratica quotidiana. Il partito cioè torna ad essere lo strumento
intorno al quale si riorganizzano la ricerca, la partecipazione, la formazione
della classe dirigente. In una prospettiva che, in sintonia con le
dichiarazioni dei padri fondatori – qualcuno
di loro arrivò a dire che la nostra era una Repubblica fondata sui
partiti – riproduce la fisiologia costituzionale e rimette al centro
dell'attenzione i corpi intermedi.
Il partito moderno (e anche postmoderno) infatti si
costruisce attraverso le correnti. Correnti in grado pluralmente di alludere e
lavorare oltre se stesse alla strutturazione di
una comune compagine. Con la coscienza diffusa che così come il partito
è parte di una democrazia complessa e dialettica, la corrente è parte di un
partito plurale ma unitario.
Il solito vecchio Togliatti amava ripetere che i partiti
sono la democrazia che si organizza. I partiti, ma non solo: non si possono
dimenticare i corpi intermedi. Quelli tradizionali e quelli nuovi, che
contribuiscono a costruire quella rete di relazioni democratiche che, creando
senso e relazioni, concorrono a costituire quel tessuto che negli Stati Uniti
d'America viene solitamente definito civil
religion e che da noi rappresenta e insieme indica il bisogno di un'etica
di cittadinanza.
Riempire di contenuti, senso, relazioni, reti organizzative il contenitore partito è
un modo per andare oltre i populismi che si sviluppano nelle politiche senza
fondamenti. Non per fermare il vento con le mani, ma per tornare a far
viaggiare venti – condivisi – di speranza.