PER UMBERTO ECO
RAGIONARE ALLA POE
di Fabrizio
Amadori
"Credo però di avere subito la mia esperienza
aristotelica decisiva
leggendo la Philosophy
of Composition di E. A.
Poe",
Umberto Eco (Da: Sulla
letteratura, Bompiani, 2002, p. 256)
In onore di
Umberto Eco, e per ricordarne la scomparsa avvenuta ieri a Milano, pubblichiamo
questo lungo scritto di Fabrizio Amadori dal titolo “Ragionare alla Poe”. Eco considerava “Filosofia della composizione” di Poe un testo “straordinario”, lo
scrive lui stesso in “Sei passeggiate nei
boschi narrativi”, (Bompiani, 1994, p.57). Eco tornerà anche altrove su
questo testo di Poe. Grave perdita per la cultura italiana ed internazionale,
Eco aveva assunto il ruolo di coscienza critica soprattutto durante gli anni
berlusconiani. Crediamo tuttavia poco al cordoglio espresso dai politici e dalle
istituzioni italiane: basti pensare al ruolo marginale a cui la loro insipienza
ha costretto la lingua italiana (la lingua usata dal narratore e intellettuale
Umberto Eco), fra le più ricche e letterariamente più valide esistenti. Non l’hanno
difesa in nessun consesso internazionale, tant’è che i documenti del Parlamento
Europeo non vengono più neppure tradotti nella nostra lingua. Lo aveva
denunciato a suo tempo la scrittrice Gina Lagorio sull’edizione cartacea di “Odissea”,
e più volte ce ne siamo occupati.
Umberto Eco |
Scrive Poe in un suo famoso saggio, Filosofia della composizione, non molto
conosciuto per la verità in Italia dal grande pubblico: “Preferisco iniziare
con la considerazione di un effetto. Tenendo sempre presente l’originalità… io
anzitutto mi chiedo: fra gli innumerevoli effetti, o impressioni, di cui il
cuore, l’intelletto, o (più generalmente) l’anima è suscettibile, quale devo
scegliere nel caso presente?”
Poi Poe si chiede come mai un articolo sui procedimenti
che hanno portato un autore a terminare una composizione non sia mai stato
scritto. Egli crede che ciò sia dovuto alla vanità.
“I più degli scrittori, infatti, preferiscono far credere
che essi compongono con una specie di sottile frenesia… e certamente
rabbrividirebbero di permettere al pubblico di vedere dietro la scena le elaborate
e vacillanti crudezze del pensiero.”
Così Poe decide di scriverlo lui questo articolo. E
sceglie Il Corvo per farlo, ossia una
poesia.
“È mia intenzione dimostrare che nessuna parte di essa fu
dovuta al caso o all’intuizione, che l’opera procedette, passo passo, al suo
compimento con la precisione e la rigida conseguenza di un problema
matematico”.
“Le prime considerazioni furono sull’estensione. Se
un’opera letteraria è troppo lunga per essere letta in una sola seduta, noi
dobbiamo rinunciare all’effetto, immensamente importante, che è dato dall’unità
d’impressione, perché interferiscono nella lettura le faccende del mondo e,
così, ogni cosa in quanto totalità è subito distrutta.”
E. A. Poe |
Così Poe
decide di scrivere una poesia non più lunga di cento versi. In questo in realtà
Poe segue Aristotele, che ne La poetica
scrive: “(…) Come i corpi e gli esseri viventi debbono possedere una grandezza
che si possa ben percepire, così le favole debbono avere un’estensione che
possa venir tutta ben compresa nella memoria”.
“Mi preoccupai subito dopo della scelta dell’impressione,
o effetto, che dovevo produrre; e qui posso osservare che, in tutta la
costruzione, tenni fermamente presente il proposito di rendere l’opera
universalmente apprezzabile…”
E poiché: “quando gli uomini parlano di Bellezza non intendono
precisamente una qualità, come si suppone, ma un effetto” è evidente che tale
effetto Poe doveva raggiungere.
Poe continua così:
“Considerando dunque come mio fine la Bellezza, mi
proposi subito di determinare il tono della sua più alta manifestazione, e ogni
esperienza ha dimostrato che questo tono è quello della tristezza. La Bellezza
di ogni specie, nelle sue più alte manifestazioni, invariabilmente muove alle
lacrime l’anima sensibile. La malinconia è dunque il più proprio di tutti i
tono poetici. Avendo determinato la lunghezza, il fine ed il tono, ricorsi al comune metodo induttivo, allo scopo di trovare qualcosa di artisticamente
piccante che potesse servirmi come nota fondamentale nella costruzione della
poesia, qualche perno su cui potesse girare l’intera struttura. Pensando
accuratamente a tutti gli usuali effetti artistici -o più semplicemente
trovate, in senso teatrale- non mancai di scorgere immediatamente che nessuno
era stato così universalmente usato come il
refrain. Nel suo uso comune, il ritornello non solo è limitato alla
poesia lirica, ma dipende anche per il suo effetto dalla forza della monotonia
– sia riguardo al suono che al pensiero
(grassetto d.A.). Il piacere è derivato soltanto dal senso di identità – di
ripetizione. Io decisi di variare, e così accrescere, l’effetto, mantenendo, in
generale, la monotonia del suono e variando continuamente il pensiero: vale a
dire, decisi di produrre continuamente nuovi effetti variando l’applicazione
del ritornello – il ritornello stesso restando, per lo più, invariato. Il
ritornello stesso doveva essere breve, dato che qualsiasi frase lunga avrebbe
presentato insormontabili difficoltà nelle frequenti variazioni di
applicazione. La facilità della variazione sarebbe stata naturalmente
proporzionata alla brevità della frase. Queste considerazioni mi indussero
subito a prendere un’unica parola come il miglior ritornello.”
Adottando il ritornello la poesia, ovviamente, doveva
essere divisa in stanze: il ritornello doveva chiudere ognuna di esse.
“Non c’era dubbio che una tale chiusa, per avere
efficacia, doveva essere sonora e capace di una sonorità prolungata; furono
queste considerazioni che mi indussero, inevitabilmente, ad adottare l’o lunga,
come la vocale più sonora, in unione alla r,
come la consonante più prolungabile.”
Quale parola conteneva entrambe? La prima che venne in
mente a Poe fu nevermore (mai più).
“Il successivo desideratum
fu un pretesto per il continuo uso della sola parola nevermore. Considerando la difficoltà che subito trovai
nell’inventare una ragione sufficientemente plausibile per la sua continua
ripetizione, non mancai di accorgermi ch’essa nasceva unicamente dal
preconcetto che la parola dovesse essere così continuamente o monotonamente
ripetuta da un essere umano, non mancai di accorgermi, in breve, che la
difficoltà consisteva nel conciliare questa monotonia con l’uso della ragione
da parte della creatura che ripeteva la parola. A questo punto, mi nacque
immediatamente l’idea di una creatura non razionale e tuttavia capace di
parlare; e dapprima, molto naturalmente, pensai ad un pappagallo; ma subito lo
sostituii con un corvo, come ugualmente capace di parlare e infinitamente più
adatto per mantenere il tono stabilito.”
Ricapitolando: abbiamo adesso un corvo, un uccello di
cattivo presagio, che ripete una sola parola, nevermore, alla conclusione di ogni stanza di una poesia di tono
malinconico e della lunghezza di circa cento versi. A tal punto Poe si chiese
quale fosse l’argomento malinconico per definizione. La Morte. E quando tale
argomento diventa massimamente poetico? Quando è legato alla Bellezza. Quindi
la morte di una bella donna è l’argomento più poetico del mondo. Ma le labbra
più adatte per trattare tale argomento sono quelle dell’amato (non quelle di un
corvo, animale privo di ragione e di
cuore). Ricapitolando ancora una volta, adesso bisogna unire le due idee, di un
amante che piange la sua donna morta e di un corvo che continuamente ripete la
parola nevermore.
“E dovendo unirle senza mai dimenticare l’idea di
variare, ogni volta, l’applicazione della parola ripetuta, pensai che l’unico
modo intelligibile per una tale unione fosse quello di immaginare che il corvo
usi la parola come risposta alle domande dell’amante (la forma guida la scelta
dei contenuti insomma, n.d.A.). E fu qui che vidi subito l’opportunità che
m’era offerta di ottenere l’effetto su cui avevo contato – cioè, l’effetto
della variazione di applicazione (rimanendo uguale il ritornello, n.d.A.).
Compresi che potevo far proporre la prima domanda all’amante – la prima domanda
alla quale il corvo avrebbe risposto nevermore
–, e che essa avrebbe potuto essere una domanda banale, la seconda meno, la
terza ancora meno, e così via, finché alla fine l’amante, atterrito e scosso
dalla sua primitiva nonchalance, dal
carattere malinconico della parola stessa, dalla sua frequente ripetizione e
dalla considerazione della sinistra fama dell’uccello che la dice, è preso da superstizione
e fa tutto agitato domande assai diverse; domande la cui risposta gli sta
profondamente a cuore e che fa parte per superstizione e parte per quella
specie di disperazione in cui si gode a tormentare se stessi – non le fa cioè
perché crede alla natura profetica o demoniaca dell’uccello (che, come la
ragione lo rassicura, non fa che ripetere una lezione meccanicamente imparata),
ma perché prova un piacere frenetico nel formulare le sue domande in modo da
avere dall’atteso nevermore quel
dolore che è il più delizioso perché il più intollerabile.Vedendo l’opportunità
che così mi era offerta – o, più esattamente, che così mi si imponeva nello
sviluppo della costruzione – stabilii innanzitutto nella mente il climax, o la
domanda finale – quella domanda alla quale per l’ultima volta sarebbe stato risposto
nevermore – quella domanda in
risposta alla quale questa parola nevermore
avrebbe comportato il massimo immaginabile di dolore e disperazione. Si può
dire che la poesia abbia avuto il suo inizio a questo punto – cioè alla fine,
dove ogni opera d’arte dovrebbe incominciare (così come, ripeto, furono
considerazioni circa aspetti formali - cos’altro sono infatti quelle che
riguardano l’effetto [il ritornello corto fu scelto per l’effetto, ma una
parola ha anche un significato]? - a determinare i contenuti) – poiché fu a
questo punto delle mie considerazioni preliminari che cominciai a scrivere
componendo la stanza finale:
“Profeta,” dissi “creatura del male! Profeta tuttavia,
[sii tu uccello o demonio
Per il cielo che s’incurva su di noi, per il Dio che
[entrambi adoriamo
Di’ a quest’anima oppressa dal dolore se nel lontano
[Eden
Abbraccerà una santa fanciulla che gli angeli chiamano
Leonora,
Abbraccerà una radiosa fanciulla che gli angeli chiamano
Leonora.”
Disse il corvo: “Mai più”.
Poe aggiunge:
“Se nel comporre il resto fossi riuscito a costruire
stanze di maggiore efficacia, le avrei, senza scrupoli, indebolite di
proposito, così da non perdere l’effetto della stanza culminante.
E ora posso parlare brevemente della versificazione…
L’originalità (in questo campo, n.d.A.) non è per nulla una questione d’istinto
o di intuizione, come alcuni credono. In genere, per raggiungerla bisogna
laboriosamente cercarla, e, benché valore positivo della più alta specie, a
conseguirla si richiede meno l’invenzione che la sua negazione.”
Ora, ciascuno dei versi de Il corvo singolarmente preso è già stato usato, e tutta
l’originalità della poesia “consiste nella loro combinazione nella stanza”.
Altro punto da esaminare era l’ambiente. Dice Poe: “Mi è sempre sembrato che
una precisa circoscrizione dello spazio sia assolutamente necessaria
all’effetto di un avvenimento isolato: essa ha l’efficacia di una cornice per
un quadro. Essa possiede un indiscutibile potere morale nel mantenere
concentrata l’attenzione… Decisi quindi di porre l’amante nella sua stanza.”
Una stanza riccamente arredata per dare il senso di
quella Bellezza di cui si parlava prima. Poe termina così: “Dovevo quindi
introdurre l’uccello – e il pensiero di farlo entrare dalla finestra era
inevitabile. L’idea di far sì che in un primo momento l’amante supponga che lo
sbattere delle ali dell’uccello contro l’imposta sia un bussare alla porta,
nacque dal desiderio di accrescere la curiosità del lettore col prolungarla e
dal desiderio di sfruttare l’effetto incidentale che si ha quando l’amante
spalanca la porta, trova tutto buio e allora fantastica che sia stato lo
spirito dell’amata a battere la porta. Feci la notte tempestosa, anzitutto per
giustificare il fatto che il corvo cerca di entrare, e, in secondo luogo, per
ottenere un effetto di contrasto con la serenità (materiale) che c’è dentro la
stanza. Feci che il corvo si posasse sul busto di Pallade, pure per l’effetto
di contrasto fra il marmo (bianco,
n.d.A.) e le penne (nere, n.d.A.).
Essendo sottinteso che l’idea del busto fu assolutamente suggerita
dall’uccello, basterà aggiungere che fu scelto il busto di Pallade anzitutto
come il più adatto all’erudizione dell’amante, e, in secondo luogo, per la
sonorità del nome Pallade.”
Poe fa ancora alcune considerazioni, ma secondo me queste
bastano a rendere bene l’idea di cosa significhi badare all’effetto, ossia alle
reazioni del lettore, e cioè, in ultima analisi, alla psicologia.
Si tenga comunque presente che ci vollero tre anni a Poe
per portare a termine il suo capolavoro poetico, ed è molto probabile che abbia
tratto ispirazione da un altro poema di quel periodo per il famoso ritornello nevermore. Ecco un tentativo semplice
di come adottare il metodo di Poe per la prosa.
1) Ho
intenzione di creare un giallo.
Qual è il linguaggio più comprensibile? Quello
televisivo. Esso infatti è costituito di battute brevi e secche.
2) Voglio
creare un rapporto di confidenza e di simpatia tra il mio lettore ed il
poliziotto. Desidero infatti che il lettore stia dalla sua parte.
Capisco subito, però, che il lettore sta sempre dalla
parte dell’investigatore. Ma per renderlo più simpatico decido di usare una
tecnica collaudata, quella che determina appunto il tono della confidenza: la
prima persona. Essa crea un filo diretto tra protagonista e lettore e così ogni
occasione è buona per evidenziare il carattere di chi parla. Il lettore
infatti, trattandosi di un giallo, a maggior ragione non si perderà una parola
del protagonista: decido perciò di fargli dire delle cose simpatiche e gentili.
Il mio protagonista, insomma, non deve sembrare un poliziotto.
3) Non avendo
letto molta narrativa del genere decido di rivolgermi ai film.
4) Comprendo
subito che il film del genere più amato e che meglio si presta ad una versione
letteraria è la serie televisiva Colombo.
La bellezza di tale serie risiede innanzitutto nella
capacità di indagine del protagonista, una capacità che definirei logica
(quella di Derrick è invece piuttosto intuitiva, e sfrutta molto le
caratteristiche psicologiche degli indagati).
Decido di togliere la prima parte, quella in cui nel film
si vede agire l’assassino: questo per allontanarmi dal mio modello ed impedire
un troppo facile e pericoloso (1) accostamento con esso.
Il modello non deve essere evidente ma devo seguirlo per
avere successo: decido così di non fare parlare il mio poliziotto col tono di
Colombo, ma di conservarne solo il metodo.
5) Levare la
prima parte, dicevo: in tal modo però impoverisco doppiamente il mio lavoro.
Innanzitutto perché lo privo della prima parte; e poi perché lo privo di un
effetto che la presenza della prima parte (quella, ripeto, in cui si vede agire
l’assassino) determina: la sottile guerra psicologica, espressa mirabilmente
nel dialogo, tra il tenente e l’indiziato (2).
In verità il lettore del racconto, concentrandomi io su
uno o due personaggi al massimo (oltre all’investigatore), capisce comunque che
uno di loro è il colpevole: la guerra psicologica non è quindi scomparsa del
tutto. Si è indebolita semplicemente, essendosi indebolito uno dei fronti. Il
botta e risposta tra investigatore e colpevole, infatti, è più efficace di
quello tra investigatore e uno che è solo un indiziato. Le sue risposte ci
coinvolgeranno meno di quelle di uno che sappiamo con certezza essere
l’assassino. Il lettore distribuirà l’attenzione che sarebbe stata meglio
concentrare su un unico personaggio su due. Quello che si perde in forza da una
parte dei due fronti in guerra, lo devo riacquistare dall’altra. Le battute dei
due indiziati dovranno recuperare quell’attenzione del lettore che hanno perso
in parte per la ragione suddetta: dovranno cioè essere particolarmente efficaci.
6) Il metodo
di Colombo non rappresenta ai miei occhi un elemento sufficiente a far
individuare con certezza il modello: l’efficacia e la popolarità del suo metodo
consiste infatti nel procurare nello spettatore una reazione la cui natura è
troppo generale e universale perché un prodotto cinematografico o letterario
possa pretenderne l’esclusiva.
7) Pensando ai
vari episodi della serie televisiva Colombo intuisco che lo scopo di indicare
subito l’assassino non può essere ovviamente quello di togliere allo spettatore
il piacere di scoprire lui il colpevole; ma nemmeno soltanto quello di
permettere di far nascere, come dicevo prima, una guerra psicologica tra
Colombo e l’assassino, perché l’effetto positivo di tale fenomeno
riequilibrerebbe appena il dispiacere di non aspettarsi alcuna sorpresa finale
sull’identità del colpevole.
Lo scopo, secondo me, è quello di dimostrare che ogni
ragionamento del tenente volto a mostrare una contraddizione nella tesi
dell’avversario è doppiamente efficace perché non solo segue una logica che
capiamo e condividiamo (“Sì”, pensiamo ogni volta, “è giusto. Sì, il punto è
proprio questo”) ma che è vera, perché noi vediamo che ha di mira il vero
colpevole.
Da questo punto di vista non è neppure corretto,
ripensandoci, quanto ho detto prima: una sorpresa finale sul personaggio non
c’è, in effetti, ma di sorpresa finale si può comunque continuare a parlare.
Non riguarda più l’identità del personaggio, ma di un ragionamento: quale sarà,
cioè, il ragionamento finale che incastrerà il colpevole? La suspence, come si vede, non è stata
affatto eliminata.
8) Pensando ai
vari episodi della serie televisiva, mi rendo conto che sebbene io veda agire
l’assassino non capisco tutto ciò che egli fa. L’ammirazione per Colombo da
parte mia è dovuta alla sua capacità di comprendere ciò che ha fatto l’omicida,
nonostante che egli, a differenza di me, non l’ha visto agire. E di spiegare le
cose a me, a me che pure ho visto, ma non ho capito.
Capita spesso che non basta vedere agire una persona per
comprendere cosa stia facendo, è vero: a maggior ragione, però, è difficile
capire cosa stia facendo, o cosa abbia fatto, se non la si vede o non la si sia
vista. Lo sceneggiatore (in realtà gli sceneggiatori) della serie, comunque,
cerca sempre di rendere difficoltosa la comprensione dei gesti iniziali
dell’assassino perché certo non è conveniente che noi capiamo le cose prima che
le risolva Colombo.
È indubbio che Colombo come investigatore sia molto più
in gamba di me: questo è il risultato a cui si vuole arrivare, e questa è in
effetti la sensazione che tutti noi proviamo vedendo le puntate del telefilm.
Ma il rischio che tale constatazione susciti la nostra antipatia è eliminato
dal fatto che egli è estremamente modesto, impacciato, simpatico. Non è un
intellettuale: egli si avvale solo della logica.
Ma, a parte questo, ho deciso di togliere la prima parte,
quella cioè dove appunto osservo l’assassino mentre agisce. In tal modo, però,
i ragionamenti del mio investigatore risveglieranno un’impressione inferiore
rispetto ai ragionamenti sviluppati da Colombo proprio perché elimino il
contrasto di cui parlavo prima: il contrasto, cioè, tra la capacità di Colombo,
che pur non avendo visto alla fine capisce, e la mia (la mia di
telespettatore).
Ma tale è il prezzo da pagare per non rivelare il mio
modello.
9) Così, anche
i ragionamenti del mio investigatore dovevano essere particolarmente efficaci,
come quelli dei suoi avversari.
10) E poiché
per valutare un ragionamento, come qualsiasi altra cosa nella narrativa, devo
partire dall’effetto, escludo tutti quei ragionamenti magari intelligenti e
complessi che però per la loro difficoltà non ne avrebbero uno buono. In questo
caso io, nel mio piccolo, come Poe parto dalla fine: egli è partito dalla fine
della poesia, io di volta in volta dovrò partire dalla fine del ragionamento,
cioè dal suo effetto, per decidere quale scegliere di due o tre che mi vengono
ad un certo punto in mente.
Più in generale.
Incomincio a pensare all’effetto. Ma non nel senso di Poe
che ve ne sono innumerevoli di cui lo spirito è suscettibile e il problema è di
capire quale debba scegliere in una certa circostanza, bensì nel senso che, per
quanto riguarda la costruzione della trama poliziesca, misuro la bontà di un
passaggio con un metro psicologico e non logico. Se, ad esempio, mi trovo a
dover scegliere tra due passaggi che a me paiono egualmente logici, scelgo di
sicuro quello che mi pare maggiormente verosimile, o quello che mi ispira di
più per il proseguo del racconto. Infatti ognuno di noi è stuzzicato da un
particolare tipo di logica piuttosto che da un'altra, ma questo non ha nulla a
che vedere con la bontà delle rispettive logiche. Spesso ho notato che ne
esistono alcune preferite ad altre non per la loro forza intrinseca – che anzi,
a ben guardare, non ne hanno molta – ma per la capacità che posseggono di
affascinare il lettore, e di convincerlo della propria validità. Che tale
validità, però, sia discutibilissima è suggerito dagli esperti, i quali giurano
su tutti i santi che la logica dei delitti reali è molto lontana da quella
descritta in parecchi buoni racconti polizieschi. Lo scrittore però sa che il
lettore è portato a proiettare in un mondo immaginario gli eventi descritti, in
un mondo che è simile a quello reale solo nell’aspetto esteriore, nella forma,
ma completamente diverso nella sostanza. Le leggi che regnano in tale mondo non
sono quelle reali neanche nel caso di quelle semplici della fisica, per cui noi
possiamo addirittura violare quest’ultima senza pregiudicare alcunché, se tale
violazione è stata fatta rispettando le leggi psicologiche che sono dentro di
noi, e che reggono tale mondo immaginario. È come se, trattandosi di un mondo
immaginario, ossia di un mondo inventato dalla nostra mente, di un mondo dentro
di noi, noi ci potessimo prendere tutte le libertà nei confronti di quello
esterno, di cui però non ci possiamo completamente sbarazzare per i limiti
della nostra mente di ricreare un mondo immaginario da zero, e una simile
odiosa difficoltà rappresenterebbe appunto la ragione del volerci noi prendere
tante libertà nei suoi confronti.
Ma parliamo di
nuovo della logica da me preferita. Essa si sviluppa nella discussione.
Se l’osservazione di un indagato sembra poco convincente
potremmo pensare (noi che scriviamo) di non permettere all’investigatore di
prendersi alcun merito particolare allorché la critica con efficacia, e di
rinunciare così a creare nel lettore l’ammirazione che è una condizione
necessaria perché il protagonista di un giallo abbia successo. Ma poiché sono
io a scriverlo, il giallo, sono avvantaggiato sul lettore che appunto lo può
solo leggere (e nulla sa dell’opinione dell’autore circa tale osservazione), ed
essendo ben disposto nei confronti di un libro che ha preso per distrarsi,
considererà addirittura necessaria la seconda considerazione (quella
dell’investigatore). Con questo avremo momentaneamente conquistato la sua stima
per il protagonista.
Ciò che si considera necessario, in realtà, non lo è su
un piano assoluto: infatti di lì il racconto avrebbe potuto prendere un’altra
direzione, e l’osservazione rivelarsi a posteriori un errore, magari l’unico,
dell’investigatore, magari quello attorno a cui ruota tutto l’ingranaggio del
giallo.
Non c’è dubbio che l’osservazione appare necessaria in
prospettiva, alla luce di ciò che deve ancora venire: infatti l’investigatore è
destinato a vincere, e chi vince ha sempre ragione. Per tale motivo le sue
considerazioni sono “per definizione” quelle giuste, e anche quando noi ne
avanziamo un’altra altrettanto convincente ma contrapposta ad essa, e lo
facciamo per bocca di un personaggio diverso, essa viene messa da parte a
favore di quella proposta dall’eroe, osservazione che ha il potere di farci
sentire particolarmente stupidi se essa è completamente diversa da quella che
avevamo immaginato.
Ma, a ben guardare, si tratta di un circolo vizioso in
quanto l’osservazione appare ottima perché è destinata al successo – il
successo dell’investigatore (= risoluzione del caso) – ma si tratta di un
successo fondato su cause psicologiche, non logiche, sul fatto cioè che un
successo sia già stato preparato e che quindi le considerazioni che portano a
esso appaiono più logiche e necessarie di quanto non siano in realtà, e poco
importa se la componente logica sia meno forte di quanto quella psicologica
riesca a far credere. Poco importa cioè se quella che si suppone addirittura la
necessità logica dell'osservazione non sia dovuta a ragioni logiche, bensì
psicologiche: quello che conta è che tale osservazione appaia la più logica al
lettore. Detto questo, è evidente che di logica per i ragionamenti scelti
arbitrariamente da noi si debba comunque parlare, ma si tratta di ragionamenti
che non devono avere alcun merito particolare se non quello di soddisfare le
aspettative del lettore. E poiché le aspettative del lettore non sono
mediamente molto alte noi non dobbiamo dare più di quanto non venga richiesto:
a parte in qualche caso, che con un po’ di fortuna possiamo ottenere a
soddisfazione di un pubblico più esigente (= critica).
Il mio primo pensiero è quello di trovare un modo per
rendere accattivante la logica che sento di poter esprimere in un poliziesco, e
suppongo che potrei renderla tale appunto nella discussione, facendo competere
continuamente tra loro i protagonisti. Ovviamente a prevalere, per la ragione
suddetta, deve essere l’investigatore, e anche quando non sembra del tutto
convincente, né convinto lui stesso di ciò che dice, non permetto che l’altro
lo superi contrapponendo un ragionamento migliore del suo (cosa vi ricorda ciò?
Vedi Poe e climax, le stanze precedenti non devono essere migliore
dell’ultima).
Il secondo
motivo della mia scelta del dialogo come mezzo per esprimere la logica, oltre
al fatto che nella competizione tra avversari coinvolgo maggiormente il
lettore, è appunto la familiarità dello strumento, il dialogo appunto: anche se
potrei dire pure il contrario, ossia che non è vero tanto che metto a
disposizione della logica il dialogo, ma che appunto perché io ho familiarità
con esso, e con il tipo di logica che lì vi si esprime, e che io stesso
solitamente vi esprimo, sono costretto a sceglierlo come mezzo per creare il
mio poliziesco.
Quindi, per ricapitolare, io ho sempre saputo quale
logica è alla mia portata per creare un poliziesco, che non è tanto quella che
si esprime sulla lunga distanza nell’intreccio, bensì quella espressa nei
discorsi diretti dai protagonisti, quella espressa da me stesso più o meno
quotidianamente nel dialogo con le persone, e mi sembra valido per il giallo
ciò che Poe ha detto in sostanza per un altro genere, ossia che esso altro non
è che una successione di “scoperte” più modeste, e cioè le osservazioni efficaci
dell’investigatore, prima della scoperta finale.
È evidente che tale scoperta finale deve essere la più
importante, essendo quella definitiva; e per fare più impressione deve arrivare
da più lontano. Per un simile motivo almeno una scoperta dell’investigatore non
deve stuzzicare (solo) le esigenze psicologiche del lettore (abbiamo detto che
egli deve dirsi spesso “sì, è così”), ma deve impressionarlo su un piano più
profondo, deve essere veramente efficace sul piano logico.
È perciò
chiaro che se uno manca della capacità di riuscire in questo non potrà mai
aspirare a diventare un buon autore di gialli – almeno del tipo da me
descritto, che pur essendo per lo più semplice da comporre richiede però
un’intuizione logica che compensi tanta facilità, come non avviene in lavori
dove sin dall’inizio la logica espressa è ragionevolmente solida, essendo
maggiormente collegata con l’intreccio -.
Messa in calce la scelta della logica da adottare, nel
mio caso quella che si sviluppa nel dialogo tra i protagonisti, senza mai
perdere di vista la necessità di un’intuizione più profonda che lì per lì so di
non poter avere, mi domando quale stile adottare per il mio poliziesco.
Anche la sua scelta non è dovuta al caso: trattandosi,
nelle intenzioni, di un giallo molto logico, ho bisogno di uno stile che non
esalti l'azione, ma appunto la riflessione. Scartato per forza di cose il
facile behaviourismo letterario, adotto uno stile che frena l’azione ma non al
punto da ostacolarla – si tratta pur sempre di un poliziesco – e quindi decido
di adottare uno stile dalle frasi ampie senza però risultare barocco.
Una volta scelto il tipo di logica, desidero far fare al
mio investigatore bella figura mettendogli in bocca le osservazioni migliori.
Esse non devono essere complesse ma facili da capire per il lettore, in
conformità con la semplice logica da me adottata.
Chiarito ciò penso che sia importante dare profondità ai
miei personaggi. Infatti capisco che se non lo facessi essi sembrerebbero dei
semplici strumenti a fiato per i miei ragionamenti, senza alcuna carica di
umanità. La scelta dell’uso della prima persona, che crea in genere il senso di
intimità, ha proprio questo scopo, quello di farci sentire più vicini
all’investigatore, la voce narrante. Così il risultato principale è stato
raggiunto perché è indubbio che lo scopo primario di tale umanizzazione sia il
protagonista.
Ora il problema è di conferire umanità agli altri
personaggi. Ovviamente non posso far fare loro lunghi discorsi volti a
delineare aspetti importanti del proprio carattere, ma intuisco subito che non
è necessario, perché la vitalità ad un personaggio viene data nel dialogo non
da un particolare tipo di contenuti, ma dalla espressione da parte sua di frasi
sensate ed argomentate con lucidità, la qual cosa non può non avvenire in un
poliziesco. La vitalità deriva semplicemente dalla sensatezza e dal rigore (il
personaggio è come una macchina: se essa dà risposte meccaniche e prevedibili
nulla di strano, non è un uomo reale – però, al contrario della macchina, il
suo scopo è quello di sembrarlo, la macchina ha invece altri scopi -, non
riuscendovi ci delude e non leggiamo più la sua storia. Se sembra
“intelligente”, invece, ci piacerà). Penso che questo non significhi dare
profondità alla loro personalità: un conto infatti è rendere vivo un
personaggio, un conto è esprimere il suo io profondo. Ma in un poliziesco non è
assolutamente il caso di rendere i personaggi più complessi di quanto non venga
richiesto dal genere letterario, che privilegia il ragionamento e l’azione
rispetto all’annotazione psicologica.
Nonostante ciò, desidero aggiungere qua e là una nota
psicologica legata ai protagonisti. Poiché nel dialogo non posso, preso come
sono a esprimere il ragionamento, e nell’azione nemmeno, trattandosi di un
giallo piuttosto statico, penso di riuscirvi nel gesto quotidiano.
Ad esempio, dopo aver fatto parlare la seconda indiziata
potrei scrivere:
“(…) E concluse con una nota di soddisfazione nella voce.
Che fosse soddisfatta era chiaro anche dal modo in cui, dopo aver parlato,
accavallò le gambe”.
Il saluto di Umberto Eco |
Note
1. Nel senso
che un confronto non si potrebbe concludere che a mio sfavore, all’inizio è
sempre meglio fare professione di umiltà.
2. Infatti
soltanto quando si conosce sin dall’inizio con certezza il colpevole si pongono
le basi per un confronto serio - una guerra appunto - con l’investigatore, la
cui posta in gioco è la difesa della giustizia.