CIVILTÀ
EUROPEA
di Fulvio Papi
Questo
scritto “impegnativo”, come Papi stesso lo ha definito nel suo biglietto di
accompagnamento, è stato scritto a Stresa nell’agosto del 2014. Quanto il
filosofo avesse visto lontano, lo mostra quel che è di recente avvenuto negli
Stati Uniti con la presidenza Trump e la sua politica estera.
Quando anni fa vi
è stata una disputa sulle origini culturali dell’Europa, divisi e competitori
tra il Cristianesimo e l’Illuminismo, ho pensato che si trattava del solito
diluvio di chiacchiere ideologiche prive di qualsiasi fondamento storico e
intellettuale se non il desiderio di una identità onnivora. Per mostrare la
complessa dimensione culturale europea ci vorrebbero molti volumi aderenti
all’esperienza reale, al gioco di forze, di ideologie, di istituzioni, di
gruppi culturali omogenei, senza privilegiare un elemento rispetto al quale gli
eventi e le identità assumono un valore solo relativo e secondario, come è
accaduto nelle storie del liberalismo che, detto e non detto, veniva
considerato il punto culminante della storia europea, ed era soltanto
l’autobiografia di un importante, ma del tutto minoritario, ceto intellettuale
il quale considerava che la vera storia è quella dei documenti scritti e
discussi anche molto duramente da ceti in possesso di conoscenze, di libri, di
amicizie idonee e anche del denaro almeno sufficiente per poter vivere a questo
livello. Tutti gli altri non erano nulla, era la necessaria “naturale
esteriorità” perché il corso storico avesse la sua energia e il suo successo.
Per accennare solo alla inutilità di questa disputa con parole del lessico
colto basta chiedere: “quale cristianesimo”?
Quello dei protestanti svedesi che
volevano uccidere i cattolici polacchi, quello dei cosacchi ortodossi che
avevano in mente lo stesso progetto, quello del cristianesimo post-tridentino,
o quello del Vangelo considerato nella sua originaria letterarietà, fuori dai
modi in cui è stato più che interpretato, distorto molto spesso dai poteri
religiosi? E per quanto riguarda la tradizione laica, stiamo parlando del “peuple”
dei giacobini francesi o dell’individualismo economico-sociale della tradizione
inglese, che già Stuart Mill considerava fondamentale, ma non esaustivo dei
bisogni sociali, e soprattutto contraddetta da un conformismo sociale ispirato
a una morale religiosa che, oltre che al filosofo inglese, avrebbe generato
ripugnanza in uno straordinario scrittore religioso come Kierkegaard. E dov’era
l’Europa quando quasi tutti, scienziati e intellettuali tedeschi, plaudirono
nel 1914 all’imperatore Guglielmo interprete della Kultur tedesca nei confronti
dell’utilitarismo individualistico degli stati occidentali? E dov’era l’Europa
quando, fatta la grandissima eccezione di Romain Rolland (scandalo nazionale),
la cultura francese diede prova di un nazionalismo “spirituale” ed ottuso sino
a tollerare che venissero imputate ai soldati tedeschi crudeltà ascrivibili
soltanto a un tessuto sociale e politico barbaro?
Si
potrebbe continuare, ma si possono saltare tutti gli infiniti esempi, dicendo
che una qualsiasi persona o una qualsiasi comunità è proprio formata nella sua
identità dalle differenze che ha attraversato, senza sottovalutare elementi
autoctoni di lunga permanenza storica. Solo a livello del pregiudizio oggi
valgono le antropologie dei popoli che andavano di moda nel Settecento e che
anche Kant recepì in una sua celebre opera giovanile. Quanto all’Europa, come
simbolo culturale, come tessuto dell’intelligenza e della poesia, nel
Novecento, prima dei progetti dei valorosi europeisti mandati al confine dal
regime fascista, credo si possa ricordare Valéry Larbaud la cui eco, più o meno
sotterranea ma certa, si avverte nella cultura di Milano degli anni Trenta.
L’Europa
di cui parliamo oggi è un’idea che nacque dopo la strage della seconda guerra
mondiale e che divenne attuale, rispetto ad altri propositi politici, proprio
perché era costruita dalla orrenda materialità dei 6 anni del conflitto. Le
idee non sono tutte uguali, alcune fingono (nel senso leopardiano) prospettive
eticamente rilevanti, ma proprie solo di quel mondo del lavoro ideale che è una
possibilità del pensiero. Altre sono idee che incarnano eventi, conflitti,
tragedie. L’idea di Europa del nostro dopoguerra ha proprio questa
caratteristica, ma ciò non toglie che essa fosse una idea che doveva superare
una serie indeterminata di ostacoli per diventare una realtà. E infatti, anche
dopo la moneta unica (che fu un’utile “forzatura” economica che diede ad ogni
moneta la medesima identità, con tutto quello che ne consegue), dopo
innumerevoli normative, l’Europa come “stati uniti d’Europa” è ancora tutta da
fare.
Un’entità simile, che può lasciare alcune prerogative locali necessarie,
richiede, nel mondo contemporaneo, una direzione unitaria che abbia a che
vedere con la dimensione fiscale, con le norme per la salute, per l’infanzia e
per la vecchiaia, per il lavoro, con una rete pensionistica, con un sistema
giudiziario, con regole per il mondo produttivo e per quello finanziario. Tutte
cose che non esistono e che hanno mostrato, in questi anni difficili, misure,
competitività, occasioni o perdite di mercato differenti. Di solito
l’espressione che ho usato “anni difficili”, viene sostituita con la parola
“crisi” che richiederebbe una relazione corretta tra le possibilità di crisi
della situazione economica attuale, e la conoscenza storica approfondita delle
ragioni che l’hanno innestata. Serve una teoria non solo una narrazione. Se si
vogliono dire solo due parole, allora basta rievocare l’avidità e la
sufficienza della finanza americana che ha intossicato una finanza
(provincialmente e avidamente) mimetica a livello europeo. Ma se si tratta di
“due parole”, allora oggi varrebbe la pena di domandarsi che cosa possa
accadere nell’Europa attuale qualora in USA prevalesse una tendenza
isolazionista rafforzata fortemente dall’opinione pubblica che non vuole altri
morti per la “democrazia” di qualcuno, e, materialmente, dal quasi
raggiungimento energetico autosufficiente degli Stati Uniti.
Non so ovviamente
se qualcuno pensa a una prospettiva del genere, ma la recente presa di
posizione di Draghi, nelle sue proposte, è come se ci avesse pensato. Il progetto che sia la
politica internazionale europea a collaborare e a intervenire nelle cosiddette
“riforme” che ogni paese, per le sue difficoltà interne, ha notevoli difficoltà
a realizzare, è del tutto sensato. “Sensato” che cosa vuol dire? Significa che
a livello della progettazione intellettuale, di quella meravigliosa finzione
che è l’esercizio del pensare, il discorso di Draghi ha dalla sua tutte le
prerogative di un razionalismo che, a livello teorico, vuole trovare la
soluzione di un problema, o, meglio, di una situazione problematica, piena di
diseguaglianze e di differenze com’è oggi l’Europa. Dal punto di vista filosofico,
dopo tanta festività nichilista dei “pensatori” istituzionali, sembra quasi la
rinascita di Dewey. Ma qui si incontrano le difficoltà che mezzo secolo fa si
obiettavano a Dewey. Il suo modello razionalista, se il problema è semplice,
funziona facilmente. Ma se, come nel nostro caso, le difficoltà sono veramente
notevoli, non è sufficiente la descrizione ottimale del problema, è necessario
progettare, magari una riforma per volta (come dice Boeri), passo per passo, ma
progettare in modo in cui la descrizione razionale divenga una tecnica
operativa.
E qui vorrei rassicurare tutti i giovani e meno giovani, gli
inesperti che tromboneggiano, come gli esperti che conoscono le difficoltà, che
la “tecnica operativa” è un’azione squisitamente politica ovviamente supportata
da saperi che non dogmatizzano la loro disciplina, ma usano le loro conoscenze
in connessione diretta con la politica. Dovrei spiegare a lungo il perché è
un’operazione “politica”. Lascio perdere confutazioni inutili e che non
meritano nemmeno il tempo per farle. Mi limiterò a sostenere che nella
trasformazione del mondo degli ultimi decenni di cui oggi non abbiamo solo i
sintomi, ma le prime realizzazioni, abbiamo bisogno dell’Europa come efficiente
unità politica con il suo equilibrio interno e la sua volontà di pace
all’estero, con la sua economia efficiente, le sue istituzioni colte ed
efficaci, le garanzie sociali che ne qualificano la civiltà, e una sua propria
presenza internazionale capace di ogni integrazione possibile, ma anche di un proprio
sistema autonomo di difesa. Altrimenti succederà quello che ho recentemente
riletto, e cioè che l’impero romano, un capolavoro storico nell’integrazione
giuridica delle varie culture, non cadde nel 476 d.C., ma si decompose giorno
per giorno quando non seppe rispondere attivamente alle nuove esigenze che
nascevano dal corpo imperiale perché la sua classe dirigente non realizzava più
i suoi compiti e, piuttosto, consumava solo le risorse disponibili. Non credo
che la storia sia maestra di vita, in senso teorico, però può aiutare a
comprendere con una rilevante metafora chi siamo, dove siamo, che cosa possiamo
essere, al di là dello sciame di quotidiane chiacchiere insulse.