L’inganno.
di Vito Calabrese
“Lo
avevano tradito, lo avevano obbligato a far un’azione terribile di cui si
vergognava. L’avrebbero arrestato? L’avrebbero espulso? Hessa; cosa ne sarà di
lei? Tutto quel dolore non era servito a nulla.”
Alberto era cresciuto
nel ruolo e ogni tanto azzeccava delle giocate che finivano sempre con
splendidi goal. Lui non sapeva spiegarsi come faceva. Gli venivano e basta.
Quegli attimi lo trasformavano in un perfetto attaccante ma erano lampi che non
si ripetevano facilmente. L’allenatore lo faceva entrare in campo quando la
squadra era in difficoltà, con la speranza che risolvesse con un guizzo quella
situazione difficile. Lo chiamavano Joker.
La palla correva sul
campo polveroso, saltellando sui sassi che affioravano. I ragazzini correvano tutti
insieme verso quella palla grigia e il primo che riusciva a toccarla, in punta
di piede, ne allungava un po’ la corsa. Rashid si era distinto subito per la
capacità di giocoliere. Il suo piede guizzava sulla palla e la dirigeva
abilmente in qualsiasi direzione. Gianni, il mediatore culturale del campo
profughi di Bresso, l’aveva promosso capitano. Lo chiamavano Shark.
Il giovane arabo con la
barba riccia, nera, accovacciato a bordo campo, lo stava osservando mentre
palleggiava. Rashid lo aveva incontrato alla mensa ma non gli era piaciuto. Gianni
si girò e vide quel tipo barbuto parlare a Rashid che teneva la testa bassa e
le braccia penzoloni. Un brutto segnale. Rashid avrebbe voluto raccontare a
Gianni le minacce che aveva ricevuto dal barbuto ma non ne aveva il coraggio.
Quel tipo, disgraziato, gli aveva portato via in pochi attimi, la voglia di
giocare. Gli aveva detto che sua sorella Hessa era viva ma se lui non avesse fatto
quello che gli chiedeva, poteva anche capitarle una disgrazia.
Quel sabato si giocava
allo stadio Breda l’ultima partita del girone di andata. L’OSM di Niguarda era
seconda in classifica mentre al primo posto c’erano i profughi di Bresso. Il
primo tempo si era chiuso a reti inviolate. L’allenatore dell’OSM decise di
sostituire il centravanti con Joker, dopo che era stata sprecata un’altra
palla, calciata malamente, alta sulla traversa. Shark era cupo, ma gestiva la
palla con maestria e avvolgeva Joker in una tela di passaggi, come un ragno con
la sua preda. Aveva alzato lo sguardo verso la sua panchina, dove si sbracciava
Gianni, e aveva notato la barba nera e riccia dell’arabo. Era venuto a controllarlo.
Fu raggiunto da un passaggio, calciò la palla con tale violenza verso la rete
che nessuno poté fermarla. I profughi erano in vantaggio.
Joker era infastidito.
Aveva intuito che doveva attaccare Shark e spezzare quella rete di passaggi.
Intercettò la palla lanciata da Luca e corse in diagonale verso l’area
avversaria, sicuro di attirare Shark. Infatti quello si era lanciato verso di
lui, anzi contro di lui. Il guizzo di Joker fu sbalorditivo. Il portiere si era
buttato alla cieca e neanche i due difensori, rinculati sulla linea di porta,
poterono evitare il goal del pareggio.
Shark era scivolato a
terra con la gamba tesa e aveva travolto Joker. Battendo il tacco a terra,
Shark aveva fatto scattare una corta lama tonda sulla punta della scarpa. Joker
aveva cacciato un urlo di dolore, piangeva disperato guardando il sangue
scorrere sulle sue gambe. Shark a terra continuava a scalciare, urlando e
piangendo di rabbia. Anche i compagni accorsi furono travolti dai colpi
malandrini di Shark. L’arbitro nervoso fischiava trascinando guardalinee e
allenatori verso quel grumo di ragazzi impazziti.
Gianni aveva capito che
stava succedendo qualcosa di sbagliato. Si girò e vide quella barba nera,
riccia, quel volto eccitato che sbraitava in arabo alzando le braccia. Capì in
una frazione di secondo che il disastro non era ancora finito e che poteva
andare anche peggio. Si buttò su di lui e gli assestò un poderoso calcio
nell’inguine. Quello si piegò con un singhiozzo senz’aria e poi lo colpì
d’incontro con un tremendo pugno sulla punta del mento. L’arabo crollò a terra,
svenuto, con le braccia aperte. Gianni vide che teneva uno scatolino stretto nella
mano sinistra. Gli prese tremando il telecomando e affidò l’arabo ai
carabinieri che si erano avvicinati.
Poi corse dentro il
campo e andò da Rashid, attento a non farsi calciare, dicendogli che il barbuto
era stato catturato. Rashid piangeva disperato. Lo avevano tradito, lo avevano
obbligato a far un’azione terribile di cui si vergognava. L’avrebbero arrestato?
L’avrebbero espulso? Hessa; cosa ne sarà di lei? Tutto quel dolore non era
servito a nulla.
Alberto sta viaggiando,
seduto di fianco al papà, verso la Casa della Carità di Milano, dove hanno
appuntamento con Jasmine, l’assistente sociale che segue Rashid. Alberto ha
ancora una gamba fasciata ed è tormentato dal pensiero che Rashid volesse
ucciderlo. Papà Andrea cerca di rassicurarlo e di smontare la sua paura. “Sei la vittima ma sei salvo, hai una
famiglia, vai a scuola, hai tanti amici e giochi a calcio. - Sfortunatamente. - Pensa a lui, solo, sotto sorveglianza, a
rischio di espulsione, senza famiglia tranne quella sorella che non si sa dove
sia. Lo aspettano il riformatorio o il ritorno in una terra ancora dilaniata
dalla guerra. Non credi che le parole misericordia e perdono siano le più
adeguate per questo incontro? - Non so neanche cosa sia la misericordia e
poi lui voleva uccidermi. – No, forse no.
- È troppo difficile.”
Sono seduti intorno ad
un tavolo della mensa. Rashid è accompagnato da Jasmine. Lui tiene gli occhi
bassi e non parla. Alberto è incollato alla sedia con lo sguardo perso. Gianni
li ha raggiunti e, chiacchierando per stemperare la tensione e l’imbarazzo,
accenna di aver saputo dai Carabinieri, con cui collabora, dove si trova Hessa.
La notizia riaccende l’animo di Rashid. Gianni riesce a condurlo fuori dal suo
guscio di depressione, fino a fargli accettare la presenza e l’amicizia di
Alberto. Ma questi rifiuta l’offerta di pace del ragazzino arabo
rinfacciandogli l’attacco sleale sul campo. “
Non ci sto. Voleva uccidermi.” A quel punto Rashid rompe l’atmosfera di
disagio creata dalla dichiarazione di Alberto e riconosce di essere colpevole e
di non meritare il perdono. Vuole solo sapere se Hessa si salverà e poi che sia
quel che sia. “Lui ha ragione. Il
bastardo sono io. Potevo anche ucciderlo. Non c’è posto per me tra di voi.”
Alberto è sgomento. Non si aspettava quella presa di posizione. Improvvisamente
capisce che non può lasciare che le cose vadano così male, verso il dolore e la
sofferenza. “Sono io che ho sbagliato a
giudicarti. Ti chiedo perdono.”
La scena si è
cristallizzata. Il tempo non scorre. Gli sguardi dei due ragazzi si incrociano
e scambiano tanta di quella energia che è impossibile da raccontare. Rashid si
lascia andare e si raddrizza nella sua bella figura: “Sono una merda. Vorrei scomparire da questo tavolo ma devo ritrovare
mia sorella. Aiuto. Aiutatemi!” Alberto alza le braccia e Jasmine lo aiuta
a compiere quell’abbraccio che sembra venire da lontano. Finalmente i due ragazzi
si sfiorano e piano piano si avvicinano fino a stringersi in un vero abbraccio.
Gianni rivela che Hessa
è stata rintracciata in un campo profughi di Padova e si stanno facendo le
pratiche per trasferirla a Bresso. Rashid ha gli occhi lucidi. Alberto ha il
cuore un po’ più sgombro.
[I disegni sono di Adamo Calabrese]