UN’ESPERIENZA MAI TROPPO LONTANA
(ED UN DOLORE COLLETTIVO E PERSONALE)
di Franco Astengo
Scrive Giuseppe
Tamburrano nel suo recentissimo “La
sinistra italiana 1892 – 1992”:
“L’Italia aveva perduto
la guerra, subito terribili bombardamenti, l’avanzata alleata e la ritirata
tedesca dalla Sicilia fino al Nord, con grandi distruzioni, devastazioni e
sconvolgimenti: non era un paese ricco e gli eventi della guerra lo
impoverirono ancora di più.
Dopo
l’estromissione della sinistra dal governo prese corpo una politica economica
che danneggiò ulteriormente i ceti popolari. Luigi Einaudi, ministro del
Bilancio, attuò con rigore e coerenza la politica liberista e deflazionista che
era stata perseguita in modo timido e incerto dai governi precedenti.
Il
Piano Marshall, che è della tarda primavera del 1947, favorì e in un certo
senso rese necessaria la stretta deflazionista. Le restrizioni creditizie
determinarono forti cali nell’occupazione resi ormai possibili dallo sblocco
dei licenziamenti. Insieme con la crescita della disoccupazione si ebbe la
diminuzione del potere di contrattazione dei sindacati indeboliti ulteriormente
dalla scissione dell’anno successivo: per fare un esempio nel 1950, la CGIL,
dopo essersi strenuamente opposta, accettò un accordo sui licenziamenti che era
un grave vulnus per i lavoratori e accresceva il potere del datore di lavoro di
mandare via il dipendente “ad natum” .
La
cura Einaudi fu certamente benefica per gli industriali e per il ceto medio.
Essa fu un fattore importante della crescita dell’economia e del “miracolo
economico” degli anni successivi, e si rivelò un ottimo investimento politico
per la DC che se ne vantò davanti agli elettori nelle elezioni del 18 aprile
1948.
Ma
non fu un affare per gli operai i cui salari erano scandalosamente bassi, molto
al di sotto della media europea e inferiori al livello di sussistenza, un
salario medio si aggirava sulle 30.000 lire e il costo della vita per una
famiglia tipo era calcolato in 50.000 lire.
Due
inchieste parlamentari sulla miseria (presidente Ezio Vigorelli, 14 volumi) e
sulla disoccupazione (presidente Roberto Tremelloni, 16 volumi) avevano messo a
nudo la triste condizione di milioni e milioni di lavoratori e le vaste zone di
miseria descritte in termini di sottoalimentazione, sovraffollamento in case
con pochi servizi igienici, alta mortalità infantile, analfabetismo, carenza di
servizi sociali e civili, soprattutto nel Sud. Imponenti furono le
manifestazioni contadine nel Sud per il “pane e lavoro” e nel Nord per
l’occupazione. A quelle manifestazioni la polizia rispondeva con cariche
violente e sparando.
Sono
eccidi proletari come decenni addietro e il bilancio è egualmente terribile e
significativo.
Nella
relazione al VII congresso del PCI Togliatti fornì i seguenti dati relativi
agli anni 1948 – 49 e alla prima metà del 1950: uccisi in conflitto con le
forze di polizia o da “agrari” 62 lavoratori di cui 48 comunisti; feriti 3.126
lavoratori di cui 2.367 comunisti. I militanti comunisti e socialisti erano i
primi a essere licenziati; le assunzioni avvenivano attraverso informazioni
della polizia e del parroco sulle idee politiche”.
Leggere
queste frasi fa tornare alle mente quel periodo oscuro; quella striscia di
sangue che si allungò per anni evocando
le denominazioni della tragedia: Portella della Ginestra, Melissa,
Montescaglioso, Torremaggiore, Modena, via via fino ai fatti del Luglio ’60
quando la riscossa operaia portò alla caduta di un governo sostenuto dai
fascisti. Salgono alla memoria le visioni di una città industriale: le cariche
della polizia agli scioperi, le fabbriche occupate, i Natali trascorsi in
fabbrica o in piazza, il senso di angoscia e di paura quando la polizia si
schierava fuori dalla scuola significando che c’erano problemi di ordine
pubblico: problemi che per noi, figli di operai, significavano repressione.
Erano
appena trascorsi, vivissimi nella memoria, gli anni dell’occupazione nazista.
Una
drammatica esperienza vissuta cercando di cementare il senso di solidarietà per
resistere: altro che le discussioni sulla “rivoluzione tradita”, in quei
momenti si sentiva tutta assieme la necessità di esprimere la condizione di
classe opponendoci alla pesantezza delle condizioni imposte, ai licenziamenti,
alle decurtazioni sindacali, alle privazioni materiali che c’erano imposte.
Nel
tempo c’è chi mi ha fatto notare che forse ho sempre riferito di quei passaggi
storici con eccessiva cupezza, che non si sentiva mai -in quei racconti- un
senso della gioia dell’infanzia.
Mi
piacerebbe riuscire a far capire, a distanza di tanti anni, che proprio non era
possibile: la miseria e la disperazione attorno a noi era così forte da farci
reclamare una possibilità di riscatto
che poteva venire soltanto dalla lotta sociale e politica. Sono passati settant’anni
dalle prime espressioni concrete di quella fase così difficile: a Gennaio del
1947 De Gasperi vola in America, si vara il piano Marshall, finisce la
solidarietà antifascista a livello di governo (per fortuna va avanti il lavoro
della Costituente), il 1 Maggio si spara a Portella della Ginestra. Si sente
ancora nella mente, ben più vivo di un semplice ricordo, il dolore provato a
lungo quando arrivavano gli annunci delle stragi oppure si conoscevano i
particolari delle occupazioni delle fabbriche, si sapeva dei licenziamenti, dei
trasferimenti forzati, dei pellegrinaggi in cerca di lavoro. Un dolore che si
rinnova ogni qual volta si percepisce un’ingiustizia.
Ecco
ciò che ci ha insegnato l’aver vissuto quei giorni: comprendere al volo cosa
voleva dire “condizione di classe” anche senza aver ancora letto Marx e capire
di conservare dentro di sé per sempre il senso della ribellione alla
sopraffazione. Un impegno per tutta la vita, da mantenere e onorare anche nei
tempi di ritorno al medio evo nei quali stiamo vivendo: chi lottò in quei
giorni di settanta, sessanta, cinquant’anni fa non c’è più ma non avrebbe
immaginato un arretramento così pauroso.