Libri
UNA
CONTROSTORIA NECESSARIA
di Franco
Schirone
La copertina del libro |
Se ne è parlato e
scritto molto in questi ultimi due anni. L'occasione è offerta dal centenario
di quella che è stata definita la grande
guerra del 1915-18 ma che per i
libertari e gli internazionalisti è stato il "grande macello".
Ricordiamo
alcuni dati.
Su
circa 35 milioni di persone residenti in Italia, i chiamati e richiamati alle
armi sono circa 5.900.000; tenendo conto che i maschi assommano a 17 milioni
(pari al 34,7% della popolazione) significa che più di un uomo su tre è
costretto al servizio militare. I caduti, secondo le statistiche statali, sono
750.000 (12% dei chiamati): età media 25 anni. Per quanto riguarda il tributo di sangue le notizie ufficiali fanno
finta di ignorare sin da subito un particolare inquietante che passa sotto il
nome di "disfatta di Caporetto" e che non rientra mai, ufficialmente,
in alcuna statistica sul conflitto. Qualche numero, però, viene a galla e
mostra la drammaticità della circostanza. Si calcola che gli italiani catturati
e fatti prigionieri siano circa 300.000. Vengono considerati "vili" e
disertori, quindi praticamente dimenticati. Il rientro, per taluni, corrisponde
alla morte, procurata con un colpo alla schiena dinanzi al plotone di
esecuzione. Per molti, approssimativamente 100.000, la fine arriva invece nei
campi di prigionia, subito dopo la disfatta o nei mesi successivi. Morti di
fame, di malattia, di dolore, di umiliazione...[1] I caduti diventano così 850.000.
Da
questi numeri vengono esclusi i morti civili, un dato incerto e mai
ufficializzato: alcune stime demografiche limitano a 600.000 i decessi ma altri
calcoli successivi al conflitto parlano di 1.021.000 morti (denutrizione,
malattie e l’epidemia della “spagnola”) mentre i feriti sono 1.050.000 (di cui
463.000 rimasti invalidi). Gli ammalati per causa di guerra sono 2.500.000,
mentre il costo finanziario della guerra italiana ammonta a 94-96 miliardi di
lire.
Un
altro aspetto rimasto a lungo rimosso sono le denunce, le condanne a morte,
l'autolesionismo o le mutilazioni volontarie, gli atti di indisciplina o di
renitenza e di diserzione a cui seguono sentenze anche pesanti e spesso di
morte. In tre anni e mezzo di guerra sono stati denunciati ai tribunali
militari 900.000 mobilitati; 470.000 sarebbero stati i renitenti alla leva
(soprattutto italiani che da tempo sono emigrati all'estero) e i disertori sono
indicati in numero di 189.425; 31.000 sono i casi di indisciplina e ribellione;
600.000 i militari complessivamente catturati dall'Austria.
Fin
qui i freddi dati, che comunque danno già un'idea delle condizioni di vita di
una intera popolazione: miseria, fame, privazioni, dolore, lutti (prima,
durante e dopo la strage del 1915-18).
Esaurite
ben presto risorse economiche e riserve disponibili, l’ulteriore sforzo bellico poteva avvenire solo a spese della
popolazione civile, il cui tenore di vita andava compresso e abbassato, se si
volevano alimentare i fronti di combattimento[2].
Lo
stesso Giolitti è costretto ad ammettere che «nelle classi popolari la guerra è
detestata»; mentre, da parte sua un giovane costretto all'emigrazione negli USA
risponde in questo modo alla lettera dei genitori che lo scongiuravano di
tornare in Italia e servire la patria per evitare loro una brutta figura:
"...Mi rincresce ma non posso accogliere il vostro invito; non conosco la
patria, nè essa mi ha mai conosciuto... Per me [la patria] è stata la matrigna
ingrata ed acerba che domando soltanto di dimenticare come essa mi ha sempre
dimenticato... Spero che altri giovani alle intimidazioni del governo
rispondano in egual modo"[3].
Il
socialista interventista Bissolati, dopo lo «sciopero militare» di Caporetto
riferisce che i soldati sbandati cantavano
l’inno dei lavoratori ed una nuova canzone: Addio mia bella addio – la pace la
fo io[4].
Il
rifiuto della guerra tra i popoli e del militarismo è sempre stato un principio
del sindacalismo di azione diretta e autogestionario, un principio che risale
ai tempi dei Bakunin, dei Cafiero, dei Costa, dei Malatesta nonché dei tanti e
tante militanti che nella seconda metà dell'Ottocento hanno contribuito alla
nascita e allo sviluppo della sezione italiana dell’Associazione Internazionale
dei Lavoratori. Un filo che non si è mai interrotto, nemmeno nei momenti più
drammatici della storia del movimento dei lavoratori, come dimostra
l'esperienza storica dell'Unione Sindacale Italiana[5]:
l'unico sindacato che ha rifiutato la proposta governativa, durante il primo
conflitto mondiale, di aderire alla cosiddetta Mobilitazione industriale che,
come ben sottolinea Marco Rossi in questa ricerca, consentiva alle
rappresentanze sindacali che si rendevano corresponsabili dello sforzo bellico
di avere maggiori margini di agibilità e contrattazione. E in un contesto di
aspro nazionalismo, la pesante situazione repressiva è stata efficacemente
fotografata da Luigi Fabbri: la reazione
clerico-moderata va stringendo sempre più nelle sue reti la vita italiana,
paralizzando ogni libertà di azione e di pensiero, mettendo la libertà
individuale sempre più all’arbitraria disposizione della polizia e delle
autorità politiche e militari […] Non è
possibile criticare e qualche volta neppure dar notizia delle infamie
poliziesche. Pure, di queste se ne commettono ogni giorno di più[6].
È
questo il clima in cui, malgrado tutto, l'Unione Sindacale Italiana continua in
modo organizzato la sua azione nel mondo del lavoro, talvolta in modo
sotterraneo, contro e nonostante la guerra, con un'azione semi-clandestina ed
ai margini della legalità, sia all’interno delle strutture produttive che nel
crescente movimento popolare contro la guerra e chi l'alimentava, secondo
modalità e pratiche poco approfondite in ambito storiografico.
L'analisi
dell'autore si concentra sulla situazione immediatamente successiva all'entrata
in guerra dell'Italia; quando sono vietate dal governo tutte le manifestazioni
e persino la distribuzione dei semplici volantini; quando la repressione è
ferrea ed ogni azione sindacale viene soffocata; quando le Camere del Lavoro
aderenti all'Usi vengono svuotate e gli attivisti più in vista inviati al
fronte, in carcere o internati; quando si rende impossibile la vita all'Unione
col soffocamento di ogni tentativo d'incontro nazionale; quando la censura
imbianca i fogli di lotta sindacale. Ciò nonostante, l'attività non è
arrestata. Anzi: si constata in generale una certa ripresa, anche in termini di
adesioni, dell'USI.
Nel
libro viene quindi fornito un quadro interessante dell'attività sindacale in
alcune storiche Camere del Lavoro: quelle di Sestri Ponente, Terni, Piombino e
Valdarno, con le vertenze che ognuna ha portato avanti nei quattro anni del
conflitto.
L'ultimo
capitolo di questa ricerca Marco Rossi la dedica al lavoro e alle lotte delle
donne, all'utilizzo massiccio della loro manodopera per le crescenti necessità
della produzione bellica e una statistica ci informa che durante gli anni del
conflitto, dal 1915 al 1918, nell'industria viene registrato un aumento
esponenziale delle operaie addette alla produzione bellica: 1.760 nel 1914,
23.000 nel '15, 89.000 nel '16, 120.000 nel '17, 127.000 nel '18, fino a
200.000 alla fine della guerra. Inoltre, 600.000 donne sono state addette,
specie a domicilio, alla confezione di vestiario per i soldati. La retribuzione
rimane quella dell'anteguerra, con salari di circa la metà rispetto a quelli
operai e, comunque, con la fine del conflitto le donne vengono subito relegate
a lavori per loro "più naturali". Cioè: espulsione dalle fabbriche,
dagli uffici e dai trasporti pubblici! La questione femminile presenta temi
cruciali, come i risvolti sociali della Prima guerra mondiale, riservando non
poche sorprese nell'analisi delle biografie delle attiviste sindacali, come nel
caso di Carlotta Orientale, un'operaia che si è battuta per il rispetto dei
diritti delle donne in fabbrica, in piazza durante la Settimana rossa e, nel
periodo bellico, segretaria della combattiva Camera del Lavoro di Terni. Una donna,
protagonista di primo piano dell’anarcosindacalismo, che finalmente è stata
ritrovata.
Note
1.Luigi
Botta, «Figli non tornate!» (1915-18), Aragno editore, 2016
2.Mario
Silvestri, Isonzo 1917, Mondadori, 1965.
3.L.
Botta, «Figli non tornate!»…, cit.
4.M.
Silvestri, Isonzo 1917…, cit.
5.Per
la storia dell'USI, specie per il dibattito sull'antimilitarismo, le lotte e le
posizioni assunte nell'arco della sua incredibile esperienza, rimando ai due
volumi pubblicati in occasione del centenario dell'USI-AIT, Almanacco di
"Guerra di Classe, 1912-2012 e Le figure storiche dell'Unione Sindacale
Italiana, 2012.
6.Luigi
Fabbri, La prima estate di guerra. Diario di un anarchico (1 maggio-20
settembre 1915), BFS, 2015.
Marco Rossi
Il lavoro contro
la guerra
L'antimilitarismo
rivoluzionario dell'Unione Sindacale Italiana
1914
– 1918
Gruppo
Editoriale USI-AIT
Pagg.112 € 5,00