MAFIA.
LA GRANDE RAPINA
di Elio
Veltri
In Italia dalla fine della guerra hanno
imperversato le mafie più potenti d'Europa e fra le più presenti nel mondo, arricchendosi, seminando
morte, condizionandone le istituzioni, e sembra che sia tutto normale. Si convive
con la mafia e se ne rileva la presenza solo quando compie qualche delitto
eccellente, sempre più raro, o un capo cosca viene arrestato.
Casualità sempre seguita da parole come “sgominata
la cosca” o “latitante tra i più pericolosi”, che si ripetono meccanicamente.
Le mafie non hanno più bisogno di uccidere perché corrompono e comprano: con
Antonio Laudati l'avevamo scritto nel libro Mafia Pulita. Ormai dovrebbe essere
chiaro e di comprensione comune, che nemmeno con il carcere duro lo Stato vince
la battaglia contro le mafie e che il solo modo di contrastarle, peraltro molto
temuto dai mafiosi, è portagli via i patrimoni: soldi, titoli di ogni tipo e
beni mobili e immobili. Senza soldi infatti, i mafiosi non possono viaggiare,
pagare consulenti capaci di gestire i beni, garantire lo stipendio agli
affiliati che difendono la cosca e nemmeno far studiare i figli nelle migliori
università. E poi, solo se hanno i soldi riescono a intrattenere rapporti
sociali e politici. La politica e le istituzioni però, sembrano ignorare tutto
questo. Non si pongono alcune domande essenziali: perché si deve parlare di una
grande rapina; perché dopo oltre 50 anni di lotta alle mafie che ha comportato
il sacrificio fino alla morte di alcuni dei
migliori servitori dello Stato, le mafie non sono state sconfitte, nonostante i capi siano
tutti in galera; perché i governi non hanno mai considerato la mafia
il primo problema politico del paese e non l'hanno contrastata con
interventi e alleanze sovranazionali, utilizzando il ruolo
nell'Unione Europea.
La Grande rapina al paese è stata compiuta e
continua attraverso corruzione dei singoli e delle istituzioni, evasione
fiscale, esportazione di capitali, riciclaggio, lavoro nero e imposizione di
salari e orari illegali, facce della stessa medaglia. Una rapina consumata da
milionari spesso nullatenenti dichiarati, con pensione minima o sociale. Nel
2014 Banca Italia ha pubblicato un studio sulla ricchezza degli italiani, che,
soprattutto nella componente monetaria, non è poi tanto diversa da quella della
Francia e della Germania, nel quale valutava in 200 miliardi di euro il valore
dell'economia criminale e mafiosa. Il che significa profitti o, meglio, rendite
di oltre 150 miliardi di euro. Altro dato interessante nello stesso periodo è
stato fornito dal nucleo valutario della guardia di Finanza del ministero
dell'economia: l'esportazione di capitali vale il 29,3 per cento dell'evasione
fiscale del paese. E cioè, da 50 a 70 miliardi di euro che prendono la via
dell'estero. Infine, in una trasmissione televisiva di Milena Gabanelli, Angelo
Maria Costa, ex responsabile dell'ONU per i problemi della criminalità
organizzata, ha dichiarato senza peli sulla lingua che nel momento di maggiore
crisi della liquidità delle banche molte di esse in Italia e in Europa si sono
presi i soldi delle mafie. La disinvoltura delle banche non è certo una novità
nei rapporti con le mafie. Nel 2000 la moglie del boss Rocco Musolino, il re
della montagna, si meritava questo titolo sulle pagine del “Corriere della Sera”:
“la moglie del boss va allo sportello e ottiene 5 miliardi”. Lo sportello era
del Monte dei Paschi di Siena di Santo Stefano d'Aspromonte dove si conoscevano
tutti.
Un'indagine dimostrò che Musolino nel 1993 aveva
ritirato, nello stesso giorno, prima 520 milioni e poi 1 miliardo e 675
milioni. Di fronte a dati tanto
sconvolgenti che coinvolgono le responsabilità delle banche nessuno che avesse
il dovere di farlo, ha parlato. Tutti zitti quasi fosse una cosa normale e
scontata, mentre il chiacchiericcio tipico dei palazzi della politica
imperversava. La mafia è sopravvissuta agli arresti e alle poche confische dei
beni, diventando una multinazionale del crimine, dell'economia e della finanza.
Il silenzio e l'inettitudine della Commissione europea non sono state inferiori
a quelle dei governi nazionali. Anche i dirigenti di questa Europa si sono
prodigati in dichiarazioni sulla lotta all'evasione fiscale e sulla necessità
di controllare i paradisi fiscali che nel nostro continente abbondano, ma poi
in concreto nulla è cambiato. D'altronde, il paese governato dal Presidente
della commissione per circa 20 anni, oggi è uno dei più efficienti paradisi
fiscali e nessuno, tranne l'Espresso, ha sollevato il problema.
Eppure il nostro è stato il primo paese che si è dato una legge antimafia che coglieva nel segno. Mi riferisco alla Rognoni-La Torre, depositata in Parlamento da Pio La Torre nel 1980, tanto efficace se bene usata, da indurre Cosa Nostra ad assassinarlo. Ma poi la confusione è stata sovrana e, negli anni successivi una ventina tra leggi e decreti, hanno creato un ginepraio nel quale magistrati, prefetti, dirigenti dell'Agenzia per la gestione e destinazione dei beni sono costretti a operare. Con la conseguenza che persino le banche dati del Ministero della giustizia, dell'Agenzia, delle forze dell'ordine, forniscono dati diversi sui sequestri e sulle confische, sui tempi dei processi e sullo scambio di informazioni tra istituzioni. Eppure i richiami di alcuni giornali autorevoli non sono mancati: nel 2000 il “Corriere della Sera” a tutta pagina titolava: “I beni sequestrati dallo Stato restano ai boss; undici anni per completare la confisca e i mafiosi continuano a viverci o a riscuotere l'affitto e se arrivano gli 007 non si trovano le chiavi”. E “la Repubblica”, sempre a tutta pagina: “Mafia, quei tesori dimenticati”. La politica, non certo casualmente, ha completato l'opera delegando il più grave problema politico del paese alla magistratura e alle forze dell'ordine, lavandosene le mani come Pilato. Non a caso la mafia ha assassinato soprattutto magistrati e rappresentanti delle forze dell'ordine. Nessun governo, istituzione indipendente o centro di ricerca, ha mai fatto uno studio per valutare quantità e valore dei beni mafiosi, il cui valore nel 2010 la rivista Economy stimava 1000 miliardi di euro.
Eppure il nostro è stato il primo paese che si è dato una legge antimafia che coglieva nel segno. Mi riferisco alla Rognoni-La Torre, depositata in Parlamento da Pio La Torre nel 1980, tanto efficace se bene usata, da indurre Cosa Nostra ad assassinarlo. Ma poi la confusione è stata sovrana e, negli anni successivi una ventina tra leggi e decreti, hanno creato un ginepraio nel quale magistrati, prefetti, dirigenti dell'Agenzia per la gestione e destinazione dei beni sono costretti a operare. Con la conseguenza che persino le banche dati del Ministero della giustizia, dell'Agenzia, delle forze dell'ordine, forniscono dati diversi sui sequestri e sulle confische, sui tempi dei processi e sullo scambio di informazioni tra istituzioni. Eppure i richiami di alcuni giornali autorevoli non sono mancati: nel 2000 il “Corriere della Sera” a tutta pagina titolava: “I beni sequestrati dallo Stato restano ai boss; undici anni per completare la confisca e i mafiosi continuano a viverci o a riscuotere l'affitto e se arrivano gli 007 non si trovano le chiavi”. E “la Repubblica”, sempre a tutta pagina: “Mafia, quei tesori dimenticati”. La politica, non certo casualmente, ha completato l'opera delegando il più grave problema politico del paese alla magistratura e alle forze dell'ordine, lavandosene le mani come Pilato. Non a caso la mafia ha assassinato soprattutto magistrati e rappresentanti delle forze dell'ordine. Nessun governo, istituzione indipendente o centro di ricerca, ha mai fatto uno studio per valutare quantità e valore dei beni mafiosi, il cui valore nel 2010 la rivista Economy stimava 1000 miliardi di euro.
Per capire meglio il ginepraio vale la pena
ricordare il pensiero di alcuni magistrati e funzionari in prima linea nella
lotta alla mafia. Nel 2000 alla Commissione antimafia della quale facevo parte,
in una trasferta in Calabria, il dr Boemi a Reggio disse: “La ndrangheta non è
stata ancora impoverita quanto sarebbe stato non solo necessario ma anche
possibile, da consistenti confische dei beni illecitamente o criminosamente
acquisiti. C'è ancora una grandissima ricchezza nascosta”. “C'è ancora un forte
scarto tra patrimoni indagati e una differenza altrettanto rilevante tra
patrimoni indagati e patrimoni colpiti. Non funziona nulla perché le sezioni
delle misure di prevenzione sono le più raccogliticce d'Italia”. A sua volta,
il procuratore di Vibo Valentia lamentava che “le indagini patrimoniali fatte
dalla polizia giudiziaria erano superficiali” e che spesso “mancava la necessaria attenzione perché non sono
spettacolari e non rendono in termini di indagine”. Ma le informazioni più
significative le fornì il questore di Vibo Valentia, il quale indagando aveva
trovato soldi della ’ndrangheta nelle banche della Mongolia, di Hong Kong e
della Svizzera. Mentre il comandante del Gico segnalava che un appartenente
alla cosca Piromalli - Molè, detenuto per narcotraffico, “era stato in grado di
movimentare conti correnti in vari paesi europei ed extraeuropei per migliaia
di miliardi e che era stata accertata l'esistenza di 120 tonnellate metriche di
oro, diamanti, valuta libica, dollari Kuvaitiani, e tutto con procedure
bancarie telematiche senza che un solo cent uscisse materialmente dalle
tasche”. E ancora: “abbiamo individuato i conti correnti che sono nelle
Bahamas, nella Ex Unione Sovietica, in
Iugoslavia, in Austria, e abbiamo avviato le rogatorie con il magistrato almeno
per richiedere questi conti correnti”.
E oggi? A distanza di 16 anni dei beni confiscati si sa solo che ammontano al 4-5 per cento dei beni sequestrati e
segnalati nella banca dati del ministero della giustizia. E non tutti
destinati. La stessa cifra la forniscono in anni diversi (2000, 2009; 2014) il
generale Palmerini commissario ai beni sequestrati e confiscati, Piero Grasso procuratore generale antimafia,
Rosi Bindi presidente della Commissione antimafia. Che fine hanno fatto beni
valutati miliardi non si riesce a sapere e si assiste allo scaricabarile di
conoscenze e responsabilità tra Magistrati, dirigenti dell'Agenzia del
territorio, dell'Agenzia per la Destinazione e gestione dei beni confiscati,
delle Prefetture.
Un fallimento, se si considerano i sacrifici in
vite umane, il dolore delle famiglie, l'enorme spesa pubblica che comporta la
lotta alla mafia, l'umiliazione dello Stato costretto a chiedere a Bruxelles con
il cappello in mano comprensione per far fronte alle esigenze più urgenti dei
terremotati, mentre centinaia di miliardi potrebbero essere recuperati solo che
si volesse farlo. Il nuovo codice antimafia, approvato dalla Camera l'11 Novembre del 2015, è fermo al Senato e nessuno ne parla. Deputati e Senatori
sempre in posa davanti alle telecamere evidentemente non lo considerano una
priorità. E' ora di smetterla con la retorica dei beni che non si devono
vendere perché se li ricompra la mafia. A parte il fatto che solo degli
imbecilli si ricomprerebbero i beni avendo gli occhi puntati su di loro. Ma se
anche qualche volta succedesse, il decreto sulla sicurezza del 2008 approvato
dal governo ne consente la riconfisca diretta e immediata. Per tutte queste
ragioni il silenzio e la delega delle responsabilità sono ancora più inquietanti e a “pensar male non si fa peccato”.
Concludo con una citazione di Louise I. Shelley, direttore del Transnational Crime and Corruption Center della Università di Washington il quale all'inizio del terzo millennio scriveva: “La criminalità transnazionale sarà per i legislatori il problema dominante del ventunesimo secolo, così come lo fu la guerra fredda per il ventesimo secolo ed il colonialismo per il diciannovesimo. I terroristi e i gruppi criminali transnazionali prolifereranno perché essi sono i maggiori beneficiari della globalizzazione. Acquisiscono vantaggi dalla facilità di spostamenti, dai commerci, dai movimenti di danaro, dalle telecomunicazioni e dai collegamenti informatici e così hanno tutti i numeri per crescere”. Amen!
Concludo con una citazione di Louise I. Shelley, direttore del Transnational Crime and Corruption Center della Università di Washington il quale all'inizio del terzo millennio scriveva: “La criminalità transnazionale sarà per i legislatori il problema dominante del ventunesimo secolo, così come lo fu la guerra fredda per il ventesimo secolo ed il colonialismo per il diciannovesimo. I terroristi e i gruppi criminali transnazionali prolifereranno perché essi sono i maggiori beneficiari della globalizzazione. Acquisiscono vantaggi dalla facilità di spostamenti, dai commerci, dai movimenti di danaro, dalle telecomunicazioni e dai collegamenti informatici e così hanno tutti i numeri per crescere”. Amen!