PER UNA
ANTOLOGIA DEGLI SPRECHI
di Fulvio Papi
Mi domando se ci sono ancora “scientifici” in
opera – non dico politici in esercizio dove il racconto è sempre adattato alle
solerti ascoltazioni di chi immagina l’avvenire come se, giorno per giorno,
stesse ad aspettare un vigoroso aumento dei consumi con una trepidazione che
doveva avere Paolo scrivendo la sua difficile “Lettera ai Romani”. Se ci sono,
vuol dire che nelle cavità emotive del ballo statistico, vi è ancora una
speranza offerta ai creduli depositari del suffragio. Il consumo è sempre stato
l’incontro tra una produzione con un costo ragionevole per navigare nel
mercato, una disponibilità monetaria dei consumatori (parola orrenda che fa
venire in mente comportamenti di tipo ossessivo), la mediazione della
distribuzione che oggi, in questo equilibrio, detiene un potere molto superiore
rispetto al passato. Tutto questo in una descrizione astratta; la descrizione
storica è molto più complessa e ormai deve tenere conto, a tutti i livelli, del
processo di globalizzazione che agisce sui prezzi di produzione, sulla
disponibilità monetaria, sulla qualità della merce in distribuzione: tutti
elementi che, in maniera più o meno diretta, agiscono sulla propensione
psicologica al consumo. Un tempo si diceva che non si consumano merci, ma
simboli di stato, il che era vero soprattutto per il mercato giovane o
giovanile. Oggi questa analisi è vera soltanto per i ceti abbienti e le loro
frequentazioni. Oggi nel “ceto medio” il consumo è abbastanza misurato, e
l’eventuale risparmio non è investito, e aumentano i poveri. I giornalisti più
brillanti già dieci e più anni fa, parlavano di un trentennio d’oro che,
ovviamente nasceva da una congiuntura che, come gli anni passati, per ogni
vita, non torna più. Allora, a favorire l’aumento del consumo, era l’indice
psicologico della durata simbolica di una merce e la dovizia delle merci
offerte ai carretti trionfali nei supermercati. Allora lo spreco, tanto era
l’euforia, non veniva nemmeno calcolato, compresi decine di edifici quasi
terminati, ma noi finiti, che sono una nazionale monumentalità che ha aumentato
la spesa pubblica senza durevoli vantaggi collettivi, e della cui inutilità (e
vergogna) qualcuno dovrebbe pur rispondere per le finalità, a dir poco
improprie, che hanno guidato le opere. Questa memoria per lo più viene
cancellata , e la cancellazione fa parte degli stessi privilegi che hanno
consentito le iniziative costose e perfettamente inutili, oppure seduttive di
un ambiente sociale che era tutt’altro che nell’attimo della sicurezza, ma
sognava per sé un “palazzetto dello sport”. C’è anche una banale corruzione
psicologica di conformismo pubblico che favoriva altre forme di corruzione. Una
proposizione che conduce a quest’altra: il ceto politico anche locale difficilmente
ha avuto un impegno educativo, più facilmente poteva acconsentire a banali
seduzioni che, di riflesso, avrebbero aumentato il suo potere sociale. Detto
questo, bisogna aggiungere che alla campagna, del resto timida, contro lo
spreco, non corrisponde affatto una politica sociale adeguata, anche perché
essa richiederebbe una diversa concezione o cultura sia del consumo pubblico
che di quello privato. Non trasformare risorse pubbliche (guadagnate con
difficoltà, quando va bene) in risorse pubbliche; sono tutti d’accordo nel dire
che non si deve fare. Ma un censimento dello spreco privilegiato di risorse
private di fatto al bene collettivo, e sarebbe molto interessante. E per chi si
occupa di questioni simboliche, sapere con quali argomenti vennero giustificati
questi privilegi che impoveriscono le risorse sociali.
Perché non facciamo
un’antologia di questi argomenti che sono anch’essi l’autobiografia della
nazione? Quanto ai meriti morali vorrei suggerire all’ottimo Presidente di non
fare tanti cavalierati del lavoro che talora sollevano qualche dubbio, ma di
chiamare nella sua prestigiosa residenza, quegli uomini dei servizi dello stato
che, senza contare il pecunio, sono una risorsa operativa ed etica che dovrebbe
essere segnalata al paese come esempio. Perché non cominciamo a diffondere
domande tipo: vale di più nel riconoscimento pecuniario che fa x o che fa y?
Qual’ è l’utilità pubblica degli uni e degli altri? I filosofi, di cui sono
lieto di far parte, sanno che senza interrogazioni non si aprono strade per la
verità. E le risposte a interrogazioni che ho esemplificato porterebbero a
galla retoriche condivise solo dal gruppo che ha beneficiato della propria
condizione, e retoriche stantie, castali, corporative, arcaiche. Non ho in
mente nessuna “virtù” dal 93-94 francese, mi paiono deliri, ma c’è una
differenza tra la superbia e l’onestà. Del resto sono cose che sanno tutti, ma,
per mille ragioni, poche condivisibili, non riescono a prendere la via
legittima della decisione pubblica. Quaeta
non movere? Poi ci sono gli affannosi risvegli: come mai i soccorsi non
sono arrivati in tempo? Come mai si sono lasciati cadere metri di neve
impedente la circolazione di qualsiasi mezzo? Sono domande un po’ alla ricerca
del famoso “capro”. Le vere domande riguardano il perché tutti i comuni non
hanno le attrezzature necessarie in loco per intervenire prima che la
situazione sia ingovernabile. Qui sì, è questione di buona spesa pubblica, di
bene comune. E non sto qui a ripetere quello che ho già sostenuto altre volte.
C’è una spesa pubblica, disponibile in un tempo ragionevole, che dovrebbe
garantire, nei limiti del possibile, la messa in sicurezza di un paese che,
vittima di una cattiva amministrazione, ora è colpito anche dai cambiamenti
climatici che divengono stabili. E non si tratta di un sapere da statisti, e
nemmeno di argomenti difficili da comprendere e da far nascere il desiderio di
una comunità solidale.