di Alfonso Gianni
Marx Renaissance negli Usa: coast to coast
Gli Stati Uniti non sono solo percorsi dalle grandi
manifestazioni contro il razzismo di questi giorni, ma anche da un pensiero che
fondandosi su basi marxiste, sta ridando forza e speranza alla sinistra
americana. Anche se, per ora, nessuna affermazione può forse meglio
sintetizzare la crisi del pensiero politico di sinistra della seguente: “È più
facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Benché
l’espressione sia molto usata e ricorra nelle opere di più autori, la sua
attribuzione è incerta. Lo stesso Mark Fischer, che la usa per titolare uno dei
capitoli di quello che può essere considerato il suo testamento intellettuale e
politico, Realismo capitalista (Nero
edizioni, 2017), ci lascia il dubbio se sia stata coniata da Fredric Jameson o
da Slavoy Zizek. La soluzione più accreditata è che l’autore sia il primo e il
secondo l’abbia poi rilanciata nei suoi numerosi scritti e interventi. Ma
questo la rafforza, dandole il carattere di una implicita condivisione. In ogni
caso la sua verità interna comincia ad essere messa in discussione da più di un
segnale confortevole per una ripresa di un pensiero politico che si propone
direttamente il superamento del sistema capitalistico, anche se in modo
problematico. Almeno sul piano della ricerca teorica, più che su quello della
delineazione di una coerente strategia.
Certamente il ritorno al pensiero di
Marx, liberato dalle incrostazioni dei diversi marxismi che hanno preteso, in
particolare nel secolo scorso, di implementarlo e attualizzarlo, ha tratto
alimento anche dai più recenti studi filologici sui testi marxiani e
soprattutto da un ampio e articolato movimento intellettuale internazionale che
è stato giustamente chiamato Marx
renaissance, che a partire dagli
anni Novanta, si è fin qui sviluppato attorno alla rivisitazione del pensiero
marxiano con contributi di grande qualità scientifica e che, pur essendo
partito da un ambito sostanzialmente
accademico, ha mostrato di volere e sapere superare questi confini. Del resto
la ripresa dell’interesse verso Marx e il marxismo è aiutata anche dalla
nascita e dallo sviluppo di nuovi movimenti sociali, giovanili e femministi che
alla ricerca delle cause ultime del loro disagio incontrano l’opera marxiana
anche in modalità fertilmente critiche. Uno dei luoghi del mondo in cui questo
avviene sono gli Stati uniti d’America. Ed è forse significativo che ciò
avvenga mentre la centralità del colosso americano nei processi di crisi,
trasformazione e dominio del sistema capitalistico è messa in discussione su
molti fronti dallo sviluppo originale dei sistemi economico-politici asiatici,
della Cina in particolare.
Il tema è ovviamente molto vasto. Qui ci
si limita a focalizzare l’attenzione su due figure, intellettuali e politiche,
anche se non certo le uniche nel panorama nordamericano: il trentenne Bhaskar
Sunkara, che vive a Brooklyn, fondatore e direttore della
rivista di grande successo Jacobin
(di cui ora esiste anche un’edizione italiana), nonché editore della rivista
accademica Catalyst:
A Journal of Theory and Strategy e il sociologo Erik Olin Wright, nato a Berkeley, docente
all’Università del Wisconsin, scomparso un
anno fa a pochi giorni dal suo 72° compleanno. Figura, quest’ultima, non
notissima al pubblico italiano anche per la mancanza di traduzione nella nostra
lingua dei suoi scritti, cui hanno recentemente posto parziale rimedio le
edizioni Punto Rosso di Milano, con la pubblicazione del breve Come essere anticapitalisti nel XXI secolo e
del più esteso Capire la classe. Per
“erodere” il capitalismo, cui seguirà tra poco Per un nuovo socialismo e una reale democrazia. Come essere
anticapitalisti del XXI secolo ora in corso di stampa.
Karl Marx |
Bhaskar Sunkara è stato più fortunato e
il suo più recente lavoro Manifesto
socialista per il XXI secolo è stato prontamente tradotto ed editato da
Laterza. La ragione sta nel carattere più politico e divulgativo del testo di
Sunkara (famiglia di origini indiane), che collabora, tra gli altri, con The Nation e The Guardian e che è stato anche vicepresidente dei Socialisti democratici
d’America. Il libro si divide in due parti, di dimensioni ben diverse. Nella
prima l’Autore compie una rapida carrellata lungo la storia del movimento
operaio da Marx ai giorni nostri. Nella seconda si cimenta con l’arduo compito
di fornire le linee essenziali per una risposta ai problemi che quella lunga
storia ha lasciato aperti o ha del tutto mancato. Il tutto è introdotto da un
prologo dal taglio utopico e dalla forma narrativa - mettendo a confronto la
condizione di un giovane lavoratore del 2019 con quelle che potrà avere nel
2036 - il cui titolo già comunica di per sé una intenzione chiara: “Un giorno
nella vita di un cittadino socialista” è - ci informa Sunkara nella prima delle
numerose e dense note che accompagnano il volume - “preso in prestito” da un
saggio di Michael Walzer comparso sulla storica rivista Dissent: a quarterly of socialist opinion, che
nacque nel 1954 per iniziativa di un gruppo di intellettuali liberal-progressisti
che intendevano reagire al maccartismo, ma distinguersi anche dal comunismo, e “dissentire” proprio “dalla desolante atmosfera
conformista che pervade negli Stati Uniti la vita sia intellettuale che
politica”. Nel corso degli anni la rivista è diventata anche una delle sedi più
prestigiose d'America per lo sviluppo della critica sociale; ha portato avanti in
collaborazione con il Brooklyn Institute for Social Research, un
progetto di digitalizzazione di numerose riviste letterarie e politiche, di breve durata, conservandone la memoria;
alcuni dei suoi redattori più giovani si sono si sono identificati con il
marxismo eterodosso e la democrazia radicale di Occupy Wall Street.
Sunkara ci fa sapere da subito - e la
cosa verrà trattata diffusamente nella seconda parte del libro - che la
sinistra negli Usa ha una sua lunga e originale storia che si colloca lungo
l’asse di una radicalizzazione della socialdemocrazia, avvenuta attraverso
aspri contrasti e numerose rotture, verso una originale forma di “socialismo
democratico”, espressione che l’Autore intende “a tutti gli effetti “come un
sinonimo di socialismo. “A
distinguere la socialdemocrazia dal socialismo democratico - chiarisce Sunkara -
non è tanto il fatto se uno ritenga che ci sia posto per la proprietà privata
capitalista in una società equa, quanto piuttosto come agire rispetto alle
lotte per le riforme. Oggi i migliori socialdemocratici lotterebbero per politiche
macroeconomiche dall’alto per aiutare i lavoratori. Senza rifiutare ogni forma
di competenza tecnocratica, i socialisti democratici sanno che serviranno
disordini e lotte di massa dal basso per realizzare cambiamenti più duraturi e
radicali”. Quindi Sunkara sa che, non chiamandosi fuori dalla complessa e
tortuosa storia del movimento operaio internazionale, deve fare i conti con le
sue diverse tradizioni inverate nel bene e nel male.
B. Sunkara |
E lo fa, in modo necessariamente sommario, nella seconda parte del volume, ove prende in esame la storia dei movimenti e dei partiti comunisti come di quelli appartenenti alla socialdemocrazia europea, per spostare poi l’attenzione sui processi rivoluzionari del Terzo Mondo e sulle traversie della sinistra negli Stati uniti d’America. La critica all’esperienza comunista in Russia e poi in Cina è evidente ed esplicita, ma mai distruttiva. L’Autore è ben cosciente delle enormi difficoltà teoriche ma soprattutto pratiche di risolvere il problema del passaggio da una società ancora semifeudale ad una socialista, di quanti drammi sociali e dolore abbiano provocato le forzature in questa direzione, come di quali tragici abissi si sarebbero aperti se quelle rivoluzioni fossero state stroncate sul sorgere dalle forze reazionarie sostenute dal capitale internazionale.
I giudizi sui grandi protagonisti di
queste rivoluzioni non sono teneri, ma neppure stroncanti, da Lenin a Mao, da
Stalin, certamente il più inviso, a
Trotsky (“per caso a tredici anni ho preso in prestito La mia vita di Trotsky. Non mi piacque
particolarmente - neanche adesso mi piace -, ma mi intrigò abbastanza da
indurmi a leggere le biografie di Trotsky di Isaac Deutscher, le opere di
pensatori socialisti democratici come Michael Harrington e Ralph Milliband, per
arrivare infine al misterioso Karl Marx”). Si può dire che tra i grandi
rivoluzionari del primo Novecento è solo la Luxemburg ad uscirne bene: in più
passaggi l’Autore mostra di condividere le sue critiche ai potenziali processi
degenerativi del bolscevismo. Colpisce, però, un’assenza. Per quanto
necessariamente sommaria è nel libro la trattazione delle vicende della Terza
Internazionale, troppo poca è l’attenzione che l’Autore dedica al passaggio
dalla teoria del socialfascismo a quella dei fronti popolari, che invece ci
attenderemmo di vedere sottolineata proprio perché utile a supportare le stesse
conclusioni cui Sunkara giunge. Invece non si fa menzione alcuna dello snodo
fondamentale rappresentato dal VII° e ultimo
congresso dell’Internazionale comunista, con il celebre rapporto di Georgi Dimitrov sul fascismo (“nelle
nostre file si è avuta una sottovalutazione intollerabile del pericolo
fascista, sottovalutazione che ancora oggi non è sormontata dappertutto”), che
impresse una correzione di linea e di comportamenti a tutto il movimento
comunista. Cosicché la “drastica inversione di rotta” dei comunisti, come lo
stesso Sunkara la definisce, rischia di apparire più il frutto di qualche
improvvisa e provvidenziale conversione, che non il punto di arrivo di
un’analisi, di un dibattito e di una lotta interna al movimento comunista una
volta tanto salutare.
Più puntuale ed accurata appare la parte
dedicata alla socialdemocrazia europea, di cui si individuano in modo
articolato meriti e limiti. Anche nei punti più alti di questa storia, come nel
caso svedese (si pensi al Piano Meidner più volte richiamato in questa seconda
parte del libro) o in quello del governo di Mitterand degli anni Ottanta (con
le sue 110 proposte per la Freancia),
Sunkara individua un limite strutturale, quello di non volere che “la
mobilitazione operaia esca dalla cabina elettorale”. Un doppio errore perché
“per mantenere la stabilità elettorale, per potere mediare tra capitale e
lavoro e per rendere le riforme esecutive, i socialdemocratici si tennero
lontani da politiche di sinistra” ma “così facendo, paradossalmente finirono
per danneggiare il proprio blocco elettorale, ossia l’origine stessa del loro
potere”. Ma per Sunkara gli sforzi della socialdemocrazia non furono inutili.
Egli richiama alla memoria l’analogia usata da Rosa Luxemburg quando paragonava
il riformismo a una fatica di Sisifo. “Ma dopo anni di scivolamento verso il basso,
il masso non si è ancora infranto - osserva Sunkara - Nelle società avanzate
plasmate dai socialdemocratici, le vittorie - chiave della classe operaia si
sono dimostrate durature e le persone sono protette dalle forme più estreme di
povertà e insicurezza”.
Erik O. Wrigth |
L’Autore pare qui sottovalutare quella rivoluzione conservatrice, messa in atto dal capitalismo globalizzato e neoliberista, che ha prodotto un attacco al welfare state smantellando conquiste consolidate. Allo stesso tempo però si rende conto che l’alternativa è fra “ritornare verso l’ortodossia economica o camminare verso la tradizione più radicale del socialismo democratico”. E Sunkara nelle conclusioni del suo libro mostra di volere marciare con decisione su questa seconda strada, considerando quindi le teorie e le esperienze della socialdemocrazia classica non solo datate, ma da superarsi. “Sanders e Corbyn - egli afferma - (…) offrono un’alternativa radicale a un centrosinistra decrepito. Hanno offerto parole come lotta di classe e redistribuzione a un pubblico che non aveva mai udito richieste di questo tipo. La socialdemocrazia della lotta di classe, pertanto, sta mobilitando la classe lavoratrice attraverso le campagne elettorali, invece di subordinare le lotte esistenti al fine di far eleggere poche persone. La differenza tra questa corrente politica e la socialdemocrazia di Tony Blair o anche id Olof Palme è evidente”.
Ma a questo punto sorge naturale la
domanda: a sua volta la lotta di classe su quali classi concrete si può basare
e sviluppare? E qui la riflessione di Sunkara incrocia, oggettivamente, il
grande lavoro di ricerca svolto da Erik Olin Wright, molto apprezzato da uno
studioso di vaglia quale fu Vittorio Rieser. Il sociologo americano, nato a Berkeley
nel ’47, ma che ha svolto la sua docenza nell’Università del Wisconsin-Madison,
ha condotto il suo lavoro lungo due direttrici di fondo. Da un lato ha cercato
di inquadrare, partendo da una prospettiva marxista le cause e le conseguenze
delle diseguaglianze nelle società occidentali, Dall’altro si è avventurato
nella non facile impresa di delineare le possibili alternative al moderno
capitalismo e le strade per arrivarci.
Il primo percorso sembra muovere
esattamente da dove Il Capitale di
Marx si è bruscamente interrotto. Come si ricorderà nel capitolo 52° del opus magnum marxiano si affaccia perentoriamente
la domanda che il pensatore di Treviri pone in primo luogo a se stesso “Che
cosa costituisce una classe? (Karl Marx Il
Capitale. Critica dell’economia politica Libro terzo, Volume quinto,
Einaudi 1975, pag. 1188). Purtroppo poche righe dopo il testo si interrompe.
Non prima però di averci fatto intravedere la complessità di quella definizione
mancante e almeno per quali sentieri Marx non si sarebbe incamminato, tanto è
vero che l’appartenenza degli individui alle tre classi fondamentali solo “a prima
vista può sembrare che sia … dovuta all’identità dei loro redditi e delle loro
forme di reddito”. Dunque dev’esserci ben altro. Ma cosa? Ed è la risposta che
Wright ha cercato di dare sulla base dell’analisi puntuale della società
americana, con un taglio intellettuale che lo iscrive nel filone del marxismo
analitico. Quello che negli anni Ottanta diede vita ad un gruppo di studiosi
che in modo un poco sbarazzino si faceva chiamare Nbsmg, un acronimo che sta
per The Non-Bullshit Marxism Group (che
si potrebbe tradurre, con una certa attenuazione della scherzosa trivialità del
termine: “il gruppo di studiosi del marxismo che non cacciano balle”) di cui
hanno fatto parte tra gli altri Gerry A. Cohen, John Roemer, Sam Bowles,
Philippe Van Parijs, per citarne solo alcuni.
In Capire
la classe. Per “erodere” il capitalismo, un volume che raccoglie saggi
scritti tra il 1995 e il 2015, Wright affronta le diverse declinazioni del
concetto di classe come sono apparse in autori quali Max Weber, Charles Tilly,
Aage Sorensen, Michael Mann, David Grusky e Kim Weeden, Thomas Piketty, Jan
Pakulski e Malcom Waters, Guy Standing. Seguirlo lungo questo non breve
percorso è qui impossibile. Ma è importante rilevare alcune caratteristiche del
suo metodo di lavoro e fare cenno alle conclusioni cui giunge sul piano
analitico. Wright parte da Marx ma non si accontenta del marxismo, che non gli
pare sufficientemente attrezzato per un’analisi minuta delle classi nelle
attuali società. Ha bisogno di usare altre fonti culturali, di giungere ad una
sorta di contaminazione sistemica capace di aprire nuove strade analitiche. Per
usare le sue stesse parole Wright afferma che si può essere contemporaneamente,
ma non in modo confusionario, “weberiani per lo studio della mobilità di
classe, bourdieusiani - cioè seguaci di Pierre Bourdieu - per lo studio dei
fattori determinanti degli stili di vita, e marxiani per la critica del
capitalismo”. Sulla base di questo Wright rigetta una chiave di lettura
“stratificazionista” cioè legata ad una rappresentazione delle classi secondo
semplici suddivisioni quantitative di ricchezza, ma anche interpretazioni che
trascurano la condizione economico reddituale, per valutare le classi solo in
termine di potere.
Wright insiste nel sostenere che “nella
tradizione marxiana la classe sia un tipo particolare di relazione sociale”
così come il capitalismo è un sistema sociale di produzione, e quindi ciò che
conta non è tanto il “tipo di occupazione” quanto “il tipo di relazione sociale
in cui ti trovi nella struttura economica”. Per meglio chiarire questo punto essenziale
vale la pena di riportare la sua pacata critica all’imponente lavoro dell’autore del
fortunatissimo Il Capitale nel XXI secolo
: “Thomas Piketty e i suoi colleghi hanno prodotto una straordinaria massa di
dati sull’ineguaglianza di reddito e di ricchezza che include dati sui più
ricchi dei ricchi… Ma l’analisi di Piketty finisce per oscurare processi
cruciali trattando il capitale e il lavoro esclusivamente come fattori di
produzione che ottengono proventi. Se vogliamo capire veramente le tendenze
inquietanti nelle diseguaglianze di reddito e ricchezza, e soprattutto se
vogliamo trasformare le relazioni di potere che generano queste tendenze,
dobbiamo andare oltre le categorie convenzionali dell’economia per individuare
le relazioni di classe che generano una crescita esponenziale della
diseguaglianza economica”.
Questo insistere sul carattere sociale
del sistema capitalistico è in Wright - ma possiamo dire anche in Sunkara - decisivo per fondare una nuova strategia anticapitalista. Wright analizza
quattro logiche strategiche che sono state alla base del pensiero e delle lotte
anticapitalistiche, che così riassume “rompere/frantumare (smashing), riformare/temperare/addomesticare (taming), resistere (resisting)
e fuggire (escaping)”. Non è
difficile individuare per ciascuna di queste strategie protagonisti e politiche
che le portano avanti anche sullo scenario europeo. Nel corso della storia del
movimento operaio internazionale simili strategie si sono anche combinate tra
loro. Ma nessuna di queste, secondo Wright, risponde interamente o da sola alle
esigenze che una lotta contro l’attuale capitalismo.
Tra queste quella della rottura è la più lontana dal suo pensiero. Quindi cerca la sua strada lungo un altro percorso, quello della “erosione” del capitalismo. “Mentre l’idea strategica di erodere il capitalismo è talvolta implicita nelle lotte sociali e politiche, non è generalmente in primo piano come principio organizzativo centrale di una risposta alla ingiustizia sociale” Perché lo diventi bisogna arrivare ad una migliore comprensione del concetto di “sistema sociale”. Wright non accetta una visione del capitalismo come totalità. Anzi, afferma che “chiamiamo un sistema economico così complesso ‘capitalismo’, quando è definibile capitalismo ‘solo’ la parte dominante nella determinazione delle condizioni economiche della vita e dell’accesso alla vita per la maggior parte delle persone”. Questa compressione concettuale della natura del capitalismo odierno permette quindi a Wright di fondare la sua strategia anticapitalistica sulla possibilità di eroderne le basi attraverso “la costruzione di relazioni economiche più democratiche, egualitarie e partecipative negli spazi e nelle crepe possibili all’interno di questo complesso sistema”. Si avverte quindi un’eco lontana delle “casematte” gramsciane.
Tra queste quella della rottura è la più lontana dal suo pensiero. Quindi cerca la sua strada lungo un altro percorso, quello della “erosione” del capitalismo. “Mentre l’idea strategica di erodere il capitalismo è talvolta implicita nelle lotte sociali e politiche, non è generalmente in primo piano come principio organizzativo centrale di una risposta alla ingiustizia sociale” Perché lo diventi bisogna arrivare ad una migliore comprensione del concetto di “sistema sociale”. Wright non accetta una visione del capitalismo come totalità. Anzi, afferma che “chiamiamo un sistema economico così complesso ‘capitalismo’, quando è definibile capitalismo ‘solo’ la parte dominante nella determinazione delle condizioni economiche della vita e dell’accesso alla vita per la maggior parte delle persone”. Questa compressione concettuale della natura del capitalismo odierno permette quindi a Wright di fondare la sua strategia anticapitalistica sulla possibilità di eroderne le basi attraverso “la costruzione di relazioni economiche più democratiche, egualitarie e partecipative negli spazi e nelle crepe possibili all’interno di questo complesso sistema”. Si avverte quindi un’eco lontana delle “casematte” gramsciane.
Ma qui lo stesso Wright individua due
problemi di assai greve portata. Il primo è rappresentato dal fatto che
“erodere il capitalismo è dunque possibile solo se, nonostante le
caratteristiche di classe dello stato capitalistico, è comunque possibile
utilizzare lo Stato per creare nuove regole del gioco che possano facilitare
l’espansione delle relazioni emancipatorie non-capitalistiche”. Quindi si deve
concludere che secondo Wright il socialismo può nascere e svilupparsi dentro il
sistema capitalistico stesso che lo partorirebbe seppure con dolore? Se così
fosse saremmo tornati nell’alveo della socialdemocrazia, con solo qualche
ammodernamento di facciata, prospettiva che come abbiamo visto Sunkara da parte
sua respinge con forza. Ed anche leggendo con attenzione Wright si capisce che
egli vuole andare più in là. Infatti parla di un “processo di ‘spostamento’ del
capitalismo dal suo ruolo dominante nell’economia”.
Ma non si può non osservare che qui si
svela un punto debole nel ragionamento del sociologo di Berkeley. Infatti i
processi di crisi dello stato-nazione e ancor più della democrazia, prodotti
proprio dall’invasività su scala nazionale e internazionale del moderno
capitalismo, rendono questa desiderata utilizzazione dello stato da un lato
improbabile, dall’altro debole quanto alle sue possibilità erosive del sistema
economico sociale. Wright non si nasconde dietro alla difficoltà, se ne rende
perfettamente conto e infatti, rispondendo ad una domanda degli intervistatori
nel volumetto citato, riferendosi al nostro Vecchio continente, afferma che:
“Uscire dall’Europa renderebbe le cose ancora peggiori (…) Avremmo più
possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione europea
che se semplicemente democratizzassimo gli stati membri e ci liberassimo della
Ue”.
C’è poi un secondo aspetto che Wright non
dimentica: quale deve essere il soggetto portante di questa strategia erosiva?
Da qui appunto l’importanza dell’analisi delle classi. Wright pensa alla
“formazione di un attore collettivo politicamente coerente” seppure formato
socialmente da figure appartenenti a campi eterogenei, pur rimanendo - egli
dice - la classe “al centro di tale azione collettiva, in quanto, dopo tutto,
l’obiettivo della lotta è la trasformazione della struttura di classe; e questo
è ciò che significa nel profondo erodere il capitalismo”. Ma, come non esiste
per Wright una forma pura di capitalismo, così non esiste altrettanta purezza
nella determinazione della composizione di classe. Vi è in Wright quasi una
concezione ‘quantistica’ della condizione di classe nella complessa realtà
sociale; gli individui possono avere “collocazioni contradditorie - ovvero
simultanee - di classe”. L’erosione del capitalismo diventa a questo punto
rifondazione e allargamento della democrazia da un lato e abbattimento
processuale, ma reale, dei confini classisti. Purtroppo esattamente il contrario
di quello che oggi accade. Ma proprio per questo il lungo lavoro analitico e la
riflessione di Wright, non scevra da contraddizioni e nodi da sciogliere, appare
comunque utile nella costruzione di un pensiero politico di sinistra.
E allora possiamo tornare a Sunkara.
Nella parte conclusiva del suo libro il giovane di Brooklyn piglia di petto
diverse e non facili questioni. Da un lato critica l’idea di “cambiare il mondo
senza prendere il potere” circolata ampiamente negli anni Novanta e nei primi del
nuovo millennio, anche grazie all’esperienza zapatista e alle riflessioni di
John Halloway (Cambiare il mondo senza
prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi, edizioni
IntraMoenia, Napoli 2004 e Che fine ha
fatto la lotta di classe? Roma, Manifestolibri, 2007); dall’altro - e
soprattutto - se la prende con “l’enfasi sulla mobilitazione elettorale dei
nostri giorni”. Per uscire dalla tenaglia dei limiti del movimentismo e dei
vicoli ciechi cui conduce l’elettoralismo, Sunkara introduce un tema che pareva
scomparso dalla più recente letteratura di sinistra: quello del partito
politico.
Pur non sottovalutando l’esperienza di
Corbyn nel Partito laburista “in generale, però, non dovremmo cercare di
controllare partiti socialdemocratici ormai screditati”, scrive Sunkara, e
quindi cita esplicitamente come positiva l’azione di ricostruzione della
sinistra posta in atto da Die Linke tedesca, dal Bloque de Izquierda
portoghese, da Podemos in Spagna. Anche se ci lascia il dubbio di cosa pensi di
Syriza, Sunkara precisa che “un partito politico dovrebbe essere l’anello di
collegamento decisivo tra le correnti esplicitamente socialiste e il più ampio
movimento dei lavoratori”, tra cui sono determinanti quelli impegnati nella
logistica e i nuovi precari, per giungere ad una cosa sola: “un movimento
socialista dei lavoratori”.
Quindi Sunkara scrive parole appassionate
sulla necessità del socialismo che scaturisce oltre che dall’aggravarsi delle
ingiustizie sociali, dalle modificazioni climatiche indotte dal modello e dalle
finalità produttive di un distruttivo capitalismo e dallo stato di guerra
guerreggiata da cui il mondo non è mai uscito. Eppure finora abbiamo fallito,
ragiona Sunkara, ma questo non significa che non possiamo imparare a volare.
Perciò le ultime pagine del volume sono dedicate a Lucio Magri, all’apologo
brechtiano del sarto di Ulm e a Pietro Ingrao. Già, nemo propheta in patria, ma altrove sì.
Riferimenti:
Bhaskar Sunkara
Manifesto
socialista per il XXI secolo,
Laterza, Bari-Roma 2019, pagine 290, euro 18,00
Erik Olin Wright
Come
essere anticapitalisti nel XXI secolo,
con una intervista all’Autore di Lorenzo Zamponi e Marta
Fana
e una presentazione del medesimo a cura di Denise
Celentano,
Edizioni Punto Rosso, Milano 2017, pagine 84, euro 9,00
Erik Olin Wright Capire la classe. Per “erodere” il capitalismo,
a cura di Roberto Mapelli e Alessio Olivieri,
Edizioni Punto Rosso, Milano 2019, pagine 316, euro 18,00