di
Fulvio Papi
Chiunque abbia letto i bellissimi
libri di Ariès e di Vovelle sulla morte in Occidente, non troverà probabilmente
nuove le mie considerazioni. Del resto, il sapere è una continua
interpretazione più o meno ben riuscita. In tempi altri e lontani, ci dice una
bella immagine di Ariès, il cavaliere quando sentiva avvicinarsi i segni della
morte nella sua esistenza, abbandonava il suo cavallo e gli orpelli che
facevano della sua vita una importante figura sociale, si inginocchiava e
attendeva la fine con la serenità che si deve a un evento già scritto:
appartenente al momento stesso in cui aveva aperto gli occhi sul mondo e
pronunciato le prime parole dei suoi simili. Così come si comporta un ospite
che conosce il tempo della natura che lo aveva accolto. Proprio come ogni altro
vivente.
La morte del re era più complicata e rituale, ma anche la
morte del re era pensata come un termine necessario. E, piuttosto, era la
monarchia a tentare la sorte più lunga nella storia, attraverso la nuova
precarietà dei figli. Il pensiero della nostra morte borghese, come sentimento
dell’estrema epoca moderna, non solo è comunemente occluso personalmente ma
anche socialmente, appartiene a una minuscola scena tragica che si rappresenta
in un lessico smarrito, anche intenso, ma debole e fragile quanto a memoria,
solo un soffio di vento maligno.
Heidegger nel ’27 scrisse la famosa proposizione
“essere-verso-la-morte”. Fu un risveglio clamoroso contro lo spazio del
pensiero positivo. Poi Derrida chiarì che questa lezione esistenziale
resuscitava, in campo laico, l’antica ammonizione cristiana sulla nostra
polvere, dimenticata come altri oggetti obsoleti nel tempo. Fu allora un
ripetuto esercizio filosofico, ma resterà una riflessione esterna del tutto
rispetto alle dominanti ideologie della modernità che trovano la loro verità
nella vita sociale. Vinse una comune cadenza ideologica secondo cui nel
“secondo mondo” che abbiamo edificato sull’uso e sulle rovine dell’origine (la
magia insegnava tutt’altro), è compresa la certezza di una immunità garantita
dalla conoscenza scientifica e dalla tecnica. Entrambi capaci di vincere, con
la propria pratica dell’intelligenza, l’apparire del male naturale. Al
contrario del male storico che si poteva anche comprendere nei necessari guasti
del progresso. È appena il caso di ricordare che in questa euforia vi sono
persino scienziati contemporanei tanto stolti che studiano la nostra possibile
eternità.
Oggi con la pandemia che conosciamo bene, ma con la quale non
abbiamo ancora vinto con la medicina che (nella sua razionale ontologia) offre
l’immagine di una guerra al male, siamo costretti a rivedere, con disagio
comprensibile, la nostra convinzione di essere esistenti dotati o dotabili di
immunità. Tuttavia il nostro pensiero non si ferma qui, posto che si fermi.
Esso si percepisce come una sapienza deplorevole e difficile che, per rendersi
accettabile, deve collocarsi in un razionale rapporto tra causa ed effetto. E
cioè elaborare una colpa. Così potrà più facilmente essere riportata alle
regole del nostro continente intellettuale. Ci saranno di certo anche casi di
inefficienza, ma il desiderio della ricerca di una causalità antropica del
male, rivela la critica consolatrice del ‘capro’. È la rivalsa emotiva di una
sconfitta inattesa. L’elaborazione del sospetto dell’ignoto, del caso: il
‘capro’. È uno dei punti estremi di quelle culture (ideologie) che, abbagliate
dalla immanenza materiale di un dio – il denaro come rivelazione vincente della
storia capitalistica – contribuiscono a trasformare fino a distruggere un mondo
che impropriamente possiamo chiamare delle origini. Meglio: abbiamo sconvolto
la selezione naturale. Oggi la pandemia mette sul tavolo tutti questi conti in
una volta sola. Contro i quali abbiamo il privilegio di una straordinaria
conoscenza scientifica. Ma, va detto, anche la grande povertà dei giocatori di
questa partita decisiva che deriva dalla nostra storia, razionale solo nel
senso che non ce n’è un’altra: potenza, riproduzione sociale, conflitti,
povertà, culture, politiche, ideologie, religioni. Non sarebbe affatto male
rivolgere a questi problemi fondamentali la nostra totale attenzione, anche se
ci sentiamo già un poco sconfitti.