di
Franco Astengo
Per
la sinistra si sta presentendo una grande occasione di recupero di identità e
di espressione di qualità progettuale su cui basare una proposta di ricostruzione
per una adeguata soggettività politica. L’occasione arriva nella confusione che
si sta creando attorno ai termini della necessità di affrontare la fase di
crisi economica che si sta evidenziando con l’emergenza sanitaria.
Fase
di crisi economica sulla quale la destra sta puntando per arrivare ad una
pericolosa svolta autoritaria. Tutto questo avviene in un Paese dove sono
emersi con chiarezza segnali forti di qualunquismo e corporativismo sui quali
sta basandosi questo serio tentativo di assalto alla democrazia repubblicana
fondata sulla Costituzione.
Ma
non c’è soltanto la destra: appare evidente che l’impostazione che questo
governo cerca ancora di seguire nella stretta dell’attualità è ancora quella
dello “scambio politico”.
D’altro
canto è bene ricordare che proprio qualunquismo e corporativismo hanno
rappresentato gli elementi sui quali ha costruito le proprie fortune il partito
di maggioranza relativa alle elezioni del 2018.
Partito
di maggioranza relativa (nelle elezioni del 2018) alleatosi subito con
l’estrema destra e successivamente passato all’alleanza con il PD attraverso la
più eclatante operazione trasformistica della storia d’Italia.
Partito
di maggioranza relativa (nelle elezioni del 2018) trasformatosi in un semplice
riferimento di quell’assistenzialismo, che non va confuso con la lotta alla
povertà e la ricerca dell’uguaglianza.
Assistenzialismo
cui ha sempre aspirato il “ventre molle” di questo Paese all’interno di un
disegno complessivo di cronica disuguaglianza economica, territoriale,
democratica.
La
fase dello “scambio politico” infatti, si è fin qui attuata, dall’avvento del
M5S al governo nella loro vocazione trasformista di qualunquismo molto
spicciolo, in una condizione di totale assenza di un piano industriale per il
Paese, mentre stavano verificandosi almeno cinque fenomeni concomitanti:
1) L’imporsi di uno
squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di
qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;
2) La perdita da parte
dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione
industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori
dei quali a Genova si diceva con orgoglio “produciamo cose che l’indomani non
si trovano al supermercato”;
3) A fianco della crescita
esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio
dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica.
Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi
all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto
quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la
conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della
progressiva incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo
all’evoluzione tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere
correttamente la crisi;
4) Si segnalano infine due
elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali
infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un
utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi
scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo
moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio. Un discorso di programmazione
affatto diverso, beninteso, dal semplicistico “sblocco delle grandi opere”.
5) In questo quadro è andato
perduto il “welfare”, sono arretrati spaventosamente i diritti dei lavoratori,
si è stupidamente reso fragile il rapporto “centro/periferia” cedendo a errate
suggestioni autonomiste.
Sono
stati questi, riassunti in una dimensione molto schematica, i punti che
dovrebbero essere affrontati all’interno di quell’idea di riprogrammazione e
intervento pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della
“Milano da Bere” fino ad oggi.
Sarà
soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare
a parlare d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che
una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di
apparire “controcorrente” dialogando anche con tutti i soggetti disponibili a
livello europeo.
La
sinistra deve fare del “ruolo del pubblico” l’oggetto di una sua precisa
identità progettuale e, di conseguenza, politica.
Nel
quadro di una resa ai meccanismi dello “scambio politico” e in assenza di una
visione è avvenuto il tracollo della presenza industriale in Italia e si è
instaurato un modello di sviluppo profondamente sbagliato.
Oggi
ancora una volta, come dimostra anche il “Piano Colao” si sta, ancora una
volta, cercando di recuperare il “peggio” degli anni passati esprimendo
semplicemente una vaghezza di stampo propagandistico.
Verrebbe da scrivere che nel momento più
drammatico della recente storia d’Italia e d’Europa, siamo ben infilati dentro
il tunnel senza segnali di fuoriuscita.
Al
centro della nostra iniziativa i temi della programmazione economica,
dell’intervento pubblico, del welfare universalistico, della democrazia
rappresentativa, della Costituzione, dell’identità di una sinistra solidale,
egualitaria, democratica, debbono rappresentare i punti di forza per
contrastare il progetto in atto che prevede un orizzonte che si vorrebbe determinato da un processo di
integrazione delle priorità sociali all’interno della tecnologia, utilizzando
l’isolamento fisico per realizzare una vera e propria “frantumazione sociale”
utilizzando le esigenze dell’emergenza sanitaria come fatto strutturale.
La politica sarebbe ridotta a puro ruolo di
rappresentanza, simulacro di una “fu democrazia” e non possiamo permettercelo.