LE ENCLICLICHE DI BERGOGLIO
di
Emilio Molinari
Dialogando
con Mario Agostinelli
Il
lavoro di Mario sull'Enciclica Fratelli tutti è una importante sintesi
per aprire un dialogo nelle associazioni “sorelle”.
Concordo
con quanto scrive, e siccome scambio le mie opinioni con lui solo
telefonicamente, tento di interrompere la pigrizia da isolamento Covid e
mettere per iscritto le telefonate. Parto dallo scritto di Mario, e cerco di
metterne in fila alcuni punti. I paradigmi li chiamerei così, con i quali cerchiamo
di ricostruire (riprogrammare) i movimenti e la politica del XXI secolo.
Parto
dal punto fermo che sta nelle due Encicliche e prima ancora nelle grida degli
scienziati sulla salute del Pianeta: la portata del disastro e il tempo
limitato a disposizione per affrontarlo... il lento declino della vita vegetale
e animale. Ciò dà il segno al nostro tempo.
Per
noi che ci parliamo, ci scriviamo ecc. sembra cosa scontata, non sentiamo il
bisogno di ribadirlo in ogni occasione, ma va fatto, perché non è scontato per
la maggioranza della gente. Non lo è, o lo è timidamente o lo è in modo
mistificato o elitario, per il popolo democratico, che pure è l'unico tenue
argine al negazionismo ambientale del popolo di destra.
E
questa non priorità culturale, ci limita nel trovare la strada per parlare alla
mente e ai sentimenti di questa destra che un tempo era il nostro popolo. Era
il mio popolo ed è una sofferenza innaturale, saperlo dall'altra parte. C'è
qualcosa di arrogante nei termini populismo e sovranismo, nel trasformare il
popolo e la sovranità popolare in qualcosa di spregevole. La Fratelli tutti
solleva il dubbio che forse qualcuno si è troppo allontanato dal popolo e dai
suoi bisogni. Ma le Encicliche non hanno suscitato il moto auspicabile delle
coscienze, non hanno trovato molti predicatori trasversali, nemmeno tra i
compagni più a sinistra. Ha prevalso in loro l'abitudine dei propri pensieri:
l'ostilità atea, resa una religione, per tutto ciò che odora di preti e di
Vaticano, il positivismo scientifico, l'arroganza modernista e materialista di
essere nel senso della storia. Con il movimento dell'acqua si era aperta una
strada, dal basso, tra la gente e per un attimo si era aperto quel dialogo
trasversale su di un tema solidale come la materialissima realtà della
crisi idrica mondiale e della mercificazione di un bene comune indispensabile
base della vita.
Si
era anche visto che non aveva scalfito la politica e le granitiche abitudini
degli attivisti. La crisi dell'acqua mi aveva fatto scrivere che il paradigma
del secolo sarebbe stato Salvare il Mondo e che con questo: cambiava tutto.
Questo
punto fermo, scrive Mario, ci dice che occorre: separarci definitivamente
dall'idea dello sviluppo. Da due secoli questo dogma impregna tutta la
politica, magari presentato come “sviluppo sostenibile. Crescita del PIL come
oggettività universale e scientifica. Sinonimo di democrazia e libertà della
persona. A questo dogma non si è ancora sottratta la sinistra e nemmeno il
sindacato più radicale. Una illusione di massa: la torta (la ricchezza
prodotta) va comunque sempre aumentata se si vuole redistribuirla. Ma la
portata del disastro fa sì che lo sviluppo deve cedere il passo al bisogno di
sopravvivenza e qui sta il cambio e la necessità della rottura. È questo
il passaggio dall'era passata, alla nostra era.
Crescita
o decrescita o sobrietà, non importa come chiamare la necessità di ritornare
al valore d'uso come primaria condizione che comunque vuol dire produrre e
consumare meno e che non basta “il riciclo”.
Pensare
o riflettere attorno al ridurre il superfluo e l'ostentato, solleva immediate
reazioni, pensare a una decrescita governata dalla politica e dal consenso
popolare, è solo una utopia green, mentre il Covid con materialistico realismo
ci costringe ad una decrescita globale senza precedenti nella storia. Non
governata, disordinata come la rotta di un esercito sconfitto. Non si vuol
vedere e non se ne parla, che il Covid è figlio del Pianeta violentato dalla
distruzione delle foreste, degli allevamenti intensivi, delle piattaforme
produttive globali, dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua. È quindi il
Pianeta che ci sta obbligando ad una decrescita e lo farà sempre di più se non interviene
una rottura nel pensiero, fare i conti antropologici, economici,
finanziari, con la nuova era.
Venendo
alle considerazioni diverse: L'Enciclica Fratelli tutti tratta due
questioni che ci chiamano a questa rottura.
Il
lavoro e la fraternità.
Il
lavoro: portare il lavoro e la natura dalla stessa parte. Non è cosa
facile, è l'impegno e la prassi della conversione ecologica dell'economia. ne
parliamo da decenni e da decenni ci scontriamo con i lavoratori e non è una
teoria da proferire in un dibattito per poi lasciare tutto come prima. Non è
nemmeno ridurre la rottura a solo azioni personali: non mangio carne e se tutti
lo fanno... non prendo la macchina e se tutti lo fanno, ecc... È un processo
che si scontra con il tempo e si scontra soprattutto con il lavoro e i
lavoratori. Lo stesso vale se chiedi di ridurre il cemento, il petrolio, il
pesticida, la plastica. Insorgono
lavoratori, padroni e politica.
Molti
soggetti si candidano a protagonisti nella scena della trattativa con i
potenti: gli scienziati, le donne, gli studenti.
Il
mondo del lavoro è sparito, eppure:
-
Senza un mondo del lavoro cosciente in cui la posta in gioco è la vita, non c'è
conversione ecologica. Se non ci si rende conto che è posto in un ruolo
“privilegiato" dove può esercitare un controllo e una decisionalità, come
lo può fare lo scienziato, non c'è conversione ecologica.
-
Senza il
lavoro, i diritti sociali e la natura dalla stessa parte, le popolazioni
restano radicalmente e politicamente spaccate in due. Incapaci ad affrontare la
sopravvivenza della specie.
-
Senza
questa rottura epocale che li rimette in gioco come soggetti attivi della conversione
ecologica, i lavoratori escono dalla storia e diventano soggetti negativi
dentro un immane scontro.
Andare
oltre la classe e riconquistare la scena mondiale.
Il
lavoro di per sé non dà dignità e oggi, per molti, è schiavitù.
Ho
vissuto il tempo dell'orgoglio operaio per il proprio mestiere o del proprio
ruolo sociale e so che queste erano le cose che davano dignità al lavoro. La
davano a chi lo sentiva come realizzazione delle proprie mani, del proprio
cervello o a chi sentiva, anche alla catena di montaggio, che stava trattando
con i potenti, l'avvenire di tutti.
È
cambiare tutto e riproporre in modo diverso molte questioni.
Questo
ci chiede a noi, associazioni impegnate, ce lo diciamo da tempo con Mario ed altri,
alcune predisposizioni a:
- rivolgere la
“predicazione” e la formazione alla nuova era, oltre che ai giovani e alle
scuole, al mondo del lavoro.
- tradurre la complessità
degli argomenti, praticando un linguaggio che spesso è di bisogni inascoltati e
oscurati dal risentimento, cercando superfici di contatto. Diamo per scontato
l'incomunicabilità di due mondi e che gran parte del lavoro e della
disoccupazione stia ormai nell'altra barricata, mentre si tratta di uscire noi
dalla nostra barricata, che spesso si presenta antipatica, con la vanità del
colto, l'invenzione dei termini e la priorità dei suoi desideri.
unire
i cantieri dei lavori in corso, pervasi da autoreferenzialità.
Le
Encicliche vanno oltre, ci chiedono di rielaborare i concetti e le pratiche del
conflitto di classe, del femminismo, dell'unità.
Quando
l'enciclica Fratelli tutti inverte l'ordine delle priorità nella
triade: libertà, eguaglianza, fraternità, mettendo la fraternità al primo
posto, opera una rivoluzione culturale che molti compagni e compagne
liquideranno per cattolica, ma per una attenta lettura laica è la materialità
del disastro della Casa Comune che lo impone.
Essere
fratelli tutti, è qualcosa in più dell'eguaglianza, è coscienza che la libertà,
senza fraternità, è anche individualismo è anche indifferenza, che la “malattia”
del pianeta o del singolo è la tua “malattia”, che laicamente qualcuno
scriveva: “l'uomo non è un’isola, è un continente... non chiederti perciò per
chi suona la campana. Suona anche per te”.
Fraternità
dà un senso universalistico ai contenuti alle lotte.
Non
è la fine dei conflitti, e delle contraddizioni di classe o tra uomo e donna. È
qualcosa di molto difficile a cui tendere nei conflitti, animandoli con l'unità
di tutti. Conflitto difficile, che cerca la condivisione per affrontare la
conversione ecologica.
Siamo
sulla stessa barca. È un concetto che per la mia cultura era una presa in giro
capitalista e lo è ancora quando chiede sacrifici ai lavoratori per la
prosperità dell'azienda “bene comune”. Quando chiede al lavoratore e ai
cittadini di cogestire il proprio impoverimento.
Viviamo
da decenni in questo regime miserabile di “cogestione”.
Ma
diverso sarebbe il senso di questo termine se fosse partecipazione dei
lavoratori alla gestione delle aziende per gestire la cura del bene comune o
iniziare la loro transizione ecologica.
Penso
all'acqua e alle reti idriche, all'energia, ai trasporti, ai fallimenti di
queste politiche e dei disastri privati di tali aziende.
Cogestione/partecipazione/unità
da conquistare, con il conflitto, con la contrattazione con lo spirito della
fraternità.