I “VECCHI” DI PADIA
di
Vincenzo Rizzuto
Erano i primi anni
Sessanta, anni a ridosso della fine dei grandi lavori per la costruzione della
centrale idroelettrica del Mucone, lavori portati avanti a tappe forzate
dall’impresa Farsura con turni di lavoro estenuanti di notte e di giorno; turni
che vedevano lavorare i minatori in galleria senza alcuna protezione adeguata:
si dava loro da bere solo un litro di latte al giorno, che sarebbe dovuto
servire a disintossicarli. Erano minatori improvvisati, ex braccianti e
contadini, che passavano 8, 10 ore al giorno, conficcati nelle viscere della
montagna come talpe e i loro corpi vibravano con i demolitori al lume di
lampade a gas acetilene mentre respiravano la polvere di silicio, (la ‘pusia’,
dal francese poussière), che, a lavori finiti, avrebbe procurato loro la
micidiale silicosi. Quei lavoratori, divenuti presto giovani-vecchi dal respiro
pesante e rumoroso, che dava luogo, ogni volta che parlavano, a fischi
stridenti, ottenuta una piccola pensione di invalidità, passavano le giornate
seduti a frotte sui muretti che corrono al lato della strada che conduce alla
torre civica e sui gradini della ripida scalinata che porta all’ingresso della
chiesa più antica del paese, Santa Maria, edificata, sembra, sulle fondamenta
di un preesistente tempio pagano. Da quelle postazioni, quei vecchi, mentre si
raccontavano antiche storie, accompagnate dalla ‘musica’ di quei sibili, che li
avrebbe portati ad uno ad uno, inevitabilmente, a Nostro Signore, potevano
godere della vista della verde valle del Mucone e del rintocco delle campanelle
del vecchio orologio della torre da loro chiamata ‘castello’.
Quella
valle, a quel tempo, veniva attraversata faticosamente a piedi ogni giorno da
una miriade di persone lungo i tortuosi sentieri, che si snodavano sui due
crinali, coricati a destra e a sinistra del fiume. Da quei sentieri, sia nelle
giornate estive di canicola afosa che in autunno, quando tutta la valle era
spesso avvolta da una nebbia fitta o tormentata da forti venti e corpose piogge,
sbucavano sempre poveri cristi che rientravano in paese dopo una defaticante
giornata di lavoro, spesa a raccogliere olive che crescevano a precipizio lungo
i dirupi, dove spesso donne e uomini precipitavano nel tentativo di fare la
magra raccolta delle drupe. Da quegli stessi sentieri sbucava anche la numerosa
popolazione delle sperdute contrade del di là Mucone, che veniva in paese nelle
grandi occasioni delle fiere, in cui comprava quanto serviva durante tutto
l’anno, o per trasportare a mano in barella il malcapitato moribondo, alla
ricerca di un medico per improbabili, inutili cure.
In
quelle contrade da sempre si nasceva e si moriva a volte senza essere nemmeno
registrati all’anagrafe per sfuggire alla leva militare; e qualcuno, dopo
essere venuto al mondo, in paese si recava poche volte nell’intera esistenza. In
quegli stessi luoghi così l’analfabetismo raggiungeva punte di oltre il novanta
per cento. Anche in quelle contrade, come a Padia, i vecchi braccianti agricoli
e i pastori trascorrevano la loro vecchiaia seduti davanti alle loro umili
dimore, costituite quasi sempre da un basso di un solo locale, dove trovavano
posto giacigli per dormire, con sotto bachi da seta che divoravano foglie di
gelso, il focolare con cui cucinare e riscaldarsi durante l’inverno e ogni
altra povera suppellettile occorrente per tirare avanti. In quell’unico basso
viveva l’intera famiglia e animali da cortile come conigli e galline, che
costituivano, insieme al maiale, l’indispensabile corollario per sopravvivere.
Anche a Padia il basso quasi sempre era abitato da uomini e animali che
vivevano in una simbiosi centenaria. Tutta quella povertà però non si traduceva
in miseria morale come si potrebbe facilmente immaginare, la convivenza sociale,
nelle contrade come in paese, era improntata a grande solidarietà fatta di
reciproco, spontaneo aiuto soprattutto fra i più anziani e bisognosi,
percepiti, questi ultimi, come custodi depositari di ogni saggezza, pronti a
condividere tutte le esperienze, le gioie, i grandi dolori di ogni membro della
collettività di cui erano e si sentivano parte integrante. Era questa la realtà
della nostra terra, e quei vecchi di Padia con la loro semplicità, pur non
avendo studiato la filosofia dei greci nei loro bassi, erano dei saggi, dei
veri ‘sacerdoti’ di una sapienza antica che veniva tramandata oralmente da una
generazione all’altra.
Certo
non si può essere acriticamente nostalgici di quei tempi in cui la povertà
regnava sovrana nella maggior parte delle famiglie e il libro con la scuola era
pressoché del tutto assente, ma l’avvento diffuso della ‘civiltà’ industriale e
tecnologica, che pure ha portato benessere largamente partecipato, ha anche
distrutto la saggezza, la solidarietà, l’armonia corale e il coraggio con cui
quei vecchi sapevano affrontare la vita. Al posto di questi valori corali si è
diffuso, insieme al benessere, aggressività, egoismo sfrenato, vissuti nel
consumismo e una solitudine che minaccia la stessa sopravvivenza dell’individuo,
che non comunica più con il suo simile faccia a faccia come quei vecchi, ma
attraverso freddi, impersonali, tragici incontri virtuali, fatti di messaggi e
messaggini di cui l’etere è stracolma. Tutto sta diventando virtuale: l’odio e
l’amore, le carezze, i sospiri, il dolore e la gioia, che costituiscono le
radici profonde dell’essere persona. In altri termini rischiamo di diventare
fredde macchine tra le macchine che noi stessi creiamo. Allora il pensiero corre
all’immagine di quei vecchi che, seduti sui muretti del sagrato di Santa Maria
a Padia, in anni ormai lontani, mentre discutevano e giocavano fra loro a
briscola e tressette non mancavano mai di salutare con calore umano il passante
chiamandolo per nome o soprannome, così come succedeva anche a me quando
giovanissimo andavo al ‘castello’ a dare la carica all’orologio, che con i suoi
rintocchi accompagnava il sonno tranquillo o la veglia agitata non solo della
gente del vecchio paese ma anche delle sperdute contrade del di là Mucone; ci
chiediamo allora se non sia il caso di recuperare, almeno in parte, la
saggezza, la ‘dotta ignoranza’, di cui parlava già Niccolò Cusano nel XV sec.,
appunto di quei vecchi per assaporare ancora il valore della vita in tutta la
sua pregnanza, in tutta la sua fondamentale semplicità!