GUERRA E CRISI ECONOMICA
di Alfonso Gianni
Le
divergenze tra Putin e la governatrice della Banca centrale russa.
Fino
a ieri pareva che nelle alte sfere della Russia tutte e tutti fossero d’accordo
con le scelte di Putin o almeno volevano farlo sembrare. Stando alle ultime
dichiarazioni della governatrice della Banca centrale di quel paese non sembra
che le cose stiano proprio così.
Si
dice che Elvira Nabiullina, la governatrice appunto, avesse avuto l’intenzione
di dimettersi dal suo alto incarico subito dopo l’invasione dell’Ucraina del 24
febbraio, ma che evidenti ragioni di opportunità politica l’abbiano dissuasa
dal farlo. Come è noto cercare la verità in tempo di guerra è impresa
proibitiva. Quello che pare ormai certo è che le sue opinioni sulle prospettive
economico-finanziarie del suo paese divergono sempre più da quelle di Putin e
dell’ex presidente russo Dmitrij Medvedev.
Parlando
alla Duma, la camera bassa del Parlamento russo, la Nabiullina avrebbe
affermato - stando alla Tass - che le sanzioni adottate contro il suo paese se
in un primo momento hanno colpito essenzialmente il mercato finanziario, ora
fanno sentire i loro effetti sull’economia reale. Il contrario della
spavalderia mostrata da Putin che parla del fallimento della strategia della
guerra lampo economica contro la Russia o da Medvedev che avverte che un
default russo trascinerebbe nell’insolvenza l’intera Europa.
Per
la Nabiullina - ed è questa la parte più importante del suo discorso,
specialmente se ci fosse qualche forza in grado di raccoglierla nel suo paese -
le sanzioni imporrebbero cambiamenti strutturali nell’economia russa,
modificando anche il suo “modello di business”
con il resto del mondo. Al contrario per Putin il quadro economico si starebbe
stabilizzando e il rublo tornerebbe ai livelli antecedenti al varco del confine
ucraino. Lo scontro verterebbe quindi sull’efficacia delle sanzioni e sulle eventuali
conseguenze trasformative del modello di sviluppo.
Woodrow
Wilson, il 28° Presidente degli Usa, verso la fine del primo conflitto mondiale
definì le sanzioni economiche “peggiori della guerra”. Biden ha rilanciato lo
stesso concetto affermando che l’unica alterativa alle sanzioni sarebbe una
terza guerra mondiale. Del resto gli Usa le hanno imposte ininterrottamente e
con particolare intensità dagli anni Novanta in poi verso un numero sempre
crescente di paesi. Ma se l’interdipendenza economica ne moltiplica gli effetti
allo stesso tempo li depotenzia, essendo la loro efficacia legata alla centralità
dominante di chi le impone.
Ma
gli Usa non si trovano più nella posizione di assoluti padroni del mondo. La
Cina può attutire l’effetto sanzionatorio anche in campo finanziario, offrendo
un sistema alternativo allo Swift; allo stesso tempo la contromossa di Putin
sul pagamento in rubli anziché in dollari delle esportazioni energetiche russe
rende più arduo il tentativo di isolare l’economia e la moneta di quel paese.
L’ammonimento di Putin, nel summit virtuale con Biden del 7 dicembre scorso, che
le banche russe avrebbero saputo aggirare le sanzioni era più che una boutade. In realtà la “guerra lampo”
resta un mito tanto sul terreno militare quanto su quello economico.
Ma
sul più lungo periodo le cose cambiano. Nabiullina ha avvertito che il tempo in
cui l’economia può vivere sulle scorte è comunque limitato. Il protrarsi della
guerra, sommata a una sindemia ancora non debellata, ci conduce nella
situazione descritta recentemente da Kristalina Georgieva, direttrice del Fmi,
secondo cui 143 paesi, pari all’86% del Pil mondiale sono condannati a una
crescita più bassa o a una recessione, ove povertà e sottonutrizione raggiungeranno
nuovi record negativi.
La
doppia crisi, sanitaria e bellica, che stiamo affrontando porta alla “forse più
grave sfida al quadro di regole che ha governato il mondo per più di 75 anni”.
Il riferimento agli accordi di Bretton Woods è esplicito e infatti l’uscita da
questa doppia crisi richiederebbe un appuntamento mondiale di quella portata,
per ridisegnare un quadro di relazioni interamente stravolto.
Anche
le previsioni della Banca d’Italia sono legate alla durata del conflitto.
L’ultimo Bollettino disegna tre scenari ipotetici, nessuno dei quali allegro,
ma certamente il peggiore, tutt’altro che improbabile, è quello in cui, anche a
causa di un’interruzione dei flussi di gas russo in presenza di uno ritardo
storico sulle rinnovabili, “il Pil diminuirebbe di quasi mezzo punto
percentuale nel 2022 e nel 2023; l’inflazione si avvicinerebbe all’8% nel 2022
e scenderebbe al 2,3% l’anno successivo”.
A
ciò va aggiunto che l’inflazione acuisce le diseguaglianze, poiché morde di più
sugli acquisti indispensabili dei ceti popolari. Appaiono quindi lunari quanto
irresponsabili le resistenze di fronte ad uno scostamento di bilancio probabilmente
inevitabile o le ipotesi di un nuovo patto concertativo per contenere le
rivendicazioni salariali.
Se
quindi guardiamo le cose anche dal punto di vista sociale ed economico diventa
ancora più evidente e urgente riannodare il filo della trattativa, dotarla di
una mediazione internazionale autorevole - come una seduta permanente dell’Onu
come ha suggerito Luigi Ferrajoli - per imporre il cessate il fuoco in Ucraina
che invece l’invio di armi sempre più letali non fa che alimentare,
trascinandoci verso il baratro non più impossibile di una nuova guerra mondiale
nucleare.