IL “RITORNO” IN POESIAdi Federico
Migliorati Quanta poesia, dall’antica
Grecia sino ai giorni nostri, ha assorbito ed elaborato il concetto di
“ritorno”. Ritorno come percorso temporale, interiore, ideale, concreto, come
ripresa di un cammino a ritroso che ci conduce ai luoghi che abbiamo amato, da
cui proveniamo, che ci connotano e riguardano seppur ne esistano di
incomparabili e, dunque, non riproducibili o soggetti a repliche; ritorno
impregnato di nostalgia, elemento che ne costituisce la parte di un tutto: è
proprio a questo aspetto che la casa editrice Vallecchi di Firenze ha deciso di
dedicare un recente librino dell’interessante collezione “Le parole della
poesia” diretta da Isabella Leardini affidandolo alla penna di Milo De Angelis.
Voce poetica tra le più autorevoli della nostra epoca, saggista e traduttore, De
Angelis in Ritorno (72 pagine, 8 euro) offre una panoramica che seppur costretta
alla sintesi è in grado di restituire con intensità senso e sviluppo di questo
termine nelle opere di alcuni protagonisti della letteratura e che curiosamente
viene pressoché “dimenticato” nel periodo del Medioevo e del Rinascimento. Per
farlo si ricorre al maestro indiscusso di quel “ritorno” rappresentato da Omero
che, nell’Odissea, vive con noi l’esperienza straniante di Ulisse, la
vicinanza espressagli dal fidato Argo (unico a riconoscerlo, in limine mortis), il raggiungimento
della sua Itaca: assaporiamo così la conoscenza di sé, della propria
interiorità. Tra i due, l’umano e il cane, si assiste allo stesso tempo a un
processo di riconoscimento e di riconoscenza: “Dobbiamo essere grati a chi ci
consente, una volta riconosciuto – scrive De Angelis, che ha tradotto da par
suo il canto XVII proposto nel librino – di percorrere passo dopo passo i
sentieri del nostro destino”. A distanza di quasi tre millenni ecco Foscolo su
cui ci si sofferma in relazione al celeberrimo sonetto “A Zacinto”, la sua
patria natale e ideale insieme, lui figlio com’è della tradizione greca e di
quella italiana, mentre di Leopardi sono presi a modello un paio di passaggi
del suo diario, lo Zibaldone, laddove l’oggetto, il luogo viene visto
con una duplice lente, quella dell’occhio e quella del ricordo (a cui è facile
ricollegare la poesia “Le ricordanze”, con tutto ciò che tale termine significa
per il recanatese). L’Ulisse tragico che si scopre Nessuno fa capolino nel
Pascoli meno conosciuto e meno studiato a scuola e sono invece le devianze
dalla rotta sul ritorno a imprimere la poesia di Kavafis che a Itaca e al
viaggio odisseo ha dedicato forse la sua più celebre composizione in versi.
Deviazioni, stacchi, bruschi movimenti della memoria, lampi onirici, sguardi
frementi connotano la scrittura di Dino Campana, in un tempo che è reale e
fiabesco insieme e dove la profezia appare di continuo a segnare la strada verso
il ritorno. Ma è su Pavese, autore di cui De Angelis è tra i più fini cultori, a
irrobustire il testo edito da Vallecchi e al quale sono dedicate circa metà
delle pagine complessive: del resto lo scrittore di Santo Stefano Belbo è colui
che, almeno nel Novecento, ha maggiormente affrontato il tema e l’evocazione
del significato del ritorno ad onta di una letteratura civile che ha segnato
per larga parte il secolo, fino alle sue estreme propaggini. Ritorno verso
un’ideale patria letteraria, per il quale non si inventa nessun nuovo
linguaggio, e in cui il silenzio (altro tema introiettato profondamente dal
dire di Pavese) si fa elemento precipuo. Si rimane piacevolmente sconvolti
dalla “rivelazione” che De Angelis sussume nell’Orfeo di Pavese: il mito si
volta indietro non per l’impazienza amorosa, come ci tramandano Virgilio e
Ovidio bensì per ben altre motivazioni. Egli vuole conoscere infatti sé stesso,
necessita di abbandonare il contesto in cui si trova per penetrare nella storia
sua personale. È un Orfeo che si addice molto al percorso magmatico
esistenziale e letterario di Pavese, uomo “scisso” da sempre, certo che l’opera
non possa essere inferiore alla vita né possa dire di meno della seconda. L’aedo
della Tracia nello scrittore piemontese è un esistenzialista, vive su di sé il
travaglio dei giorni, l’inquietudine, l’ansia, è insomma pienamente
novecentesco, è un uomo sia illuminato sia superstite, come si rivela
scagliandosi contro la Bacca ed è soprattutto “abitato” dalla solitudine. Così,
solo scendendo nell’Ade comprende come sia possibile, in qualche misura,
raggiungere la salvezza. In chiusura, come cammeo dell’antologia, è pubblicata una
poesia dello stesso De Angelis, già apparsa nel 2021 per Mondadori in Linea
intera, linea spezzata.