JAMES PARKINSON NON SOLO UN MEDICO
di
Gabriele Scaramuzza
James Parkinson
Se
si vuole ripercorrere la storia del pacifismo in Europa non si dovrà
dimenticare il nome di Parkinson, noto per lo più solo per aver dato nome all’omonima
malattia. “Irriducibile pacifista e riformista” lo definisce Carlo Pasetti, e
già nel sottotitolo, accanto a “buon medico”, troviamo “uomo buono”. Con una
certa dose di coraggio, in un mondo in cui termini quali “bontà” e “buono”
vengono sottovalutati, soffocati: sostituiti dal pervasivo “buonismo” e
“buonista”, che di ogni bontà costituisce l’irritante e ipocrita
contraffazione. James Parkinson fu medico, ma insieme studioso poliedrico: i
suoi interessi andavano dalla paleontologia alla chimica alla geologia alla
psichiatria. Fu assai impegnato sul piano etico-religioso e politico-sociale a
favore delle persone più sfavorite dalla sorte, in senso vuoi economico vuoi
della salute fisica e mentale. Autore di studi fondamentali e insieme raffinato
divulgatore, visse a Londra tra il 1755 e il 1824, in una temperie che per
certi tratti, e per un lettore non professionale, richiama quella (successiva)
dei romanzi di Dickens. Il libro di Pasetti viene a colmare da noi una lacuna,
e nasce, credo, da affinità (professionali e morali) tra psichiatri che, in
tempi pur tanto lontani tra loro, e in climi ben differenti, ebbero a
confrontarsi con problemi che sempre di nuovo si propongono, sia pur in luci
diverse; e tuttora non possono dirsi del tutto risolti, malgrado gli enormi
progressi della medicina. Problemi non certo tecnico-scientifici; bensì
relativi “a un percorso clinico di diagnosi e cura che comprenda come essenziali
le componenti etiche e relazionali”, come scrive Pasetti. Già nella biografia
di James Parkinson emerge lo stato, deplorevole a dir poco, dei manicomi, la
suo impegno per migliorarli; insieme al suo carattere disponibile, alla sua
preparazione, e a sguardi illuminanti sulla Londra di allora. La sua vita
professionale è inseguita con grande cura e consapevolezza; colpiscono i
consigli igienici, gli interventi nei casi di morte apparente, l’attenzione
alla psicologia infantile, la rilevanza dello studio del greco e del latino, il
rifermento a concreti casi clinici, la messa in guardia contri ciarlatani e
imbonitori... Non posso che esemplificare senza alcuna pretesa di completezza:
queste righe non posson che essere un caldo invito alla lettura al testo di
Pasetti. L’opera che gli diede la celebrità è An Essay on the Shaking Palsy
(“Saggio sulla paralisi agitante”), del 1817; sulla base di questa in seguito fu
dato il nome di Parkinson al morbo relativo. Pasetti le dedica ovviamente la
più attenta e circostanziata attenzione, cui innanzitutto si rinvia. Non manca
un rapido inquadramento storico in quegli anni di forti scosse, tra le
rivoluzioni americana e francese, le guerre napoleoniche, la Restaurazione. Più
interessante è la contestualizzazione nella storia della medicina con
particolare riguardo ai rapporti medico-paziente. James Parkinson fu “un buon
medico”, leggiamo; ricco di umanità: il suo approccio ai pazienti è
squisitamente clinico, ne senso etimologico per cui clinico (come ricorda Pasetti)
“deriva proprio dall’atto del ‘chinarsi’ sul paziente”: da una “comprensione” e
da un “prendersi cura” che gli iper-specialismi che si sono imposti sovente
dimenticano. Vorrei infine concludere richiamando un altro e diverso testo di
pochi anni fa: Io e Mr Parky di Andrea Bonomi. Qui si racconta di un
rapporto con la malattia che certo si avvale dei mezzi che la medicina d’oggi
mette a disposizione; ma insieme si svolge in un avvincente dialogo con essa,
che certo è tra le terapie più utili a contenerla, anche se non ovviamente a
guarirla.
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