LA
SECESSIONE DEI RICCHIdi
Alfonso Gianni
L’autonomia
differenziata è una secessione dei ricchi. Tra le prime dieci regioni in
Europa per livello di valore aggiunto industriale figurano ben tre regioni
italiane. Sono, in ordine di graduatoria, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia-Romagna.
Non a caso le prime ad avere richiesto l’autonomia differenziata che il governo
Meloni intende concedere in tempi rapidi, in base alla bozza di legge preparata
dall’attivissimo ministro Calderoli. Nella classificazione Nuts2 dell’Unione
europea, la Lombardia risulterebbe la prima regione industriale, con un valore
aggiunto nel 2019 di 80,4 miliardi di euro, seguita dalle regioni tedesche di
Stoccarda e dell’Oberbayern, nei Lander del Baden-Wurttemberg e della Baviera.
Seguono poi Dusseldorf e Colonia; il Veneto al sesto posto e l’Emilia-Romagna
all’ottavo; due regioni francesi (Ile-de-France e Rodano-Alpi); nonché la
Catalogna. La situazione non è molto mutata dal 2015 in poi, salvo che Veneto
ed Emilia-Romagna hanno guadagnato una posizione. In sostanza il triangolo
industriale italiano esiste ancora, solo che ha spostato il baricentro a est,
rimanendo imperniato sulla Lombardia, ed appare meno concentrato nelle unità
produttive e più diffuso sul territorio, costituendo, come nel caso
dell’Emilia-Romagna, parte del sistema produttivo allargato tedesco. Leggendo
questi dati, su cui gli statistici stanno ancora lavorando per i necessari
completamenti e aggiornamenti, viene in mente quanto scriveva Kenichi Ohmae,
che è stato senior partner della McKinsey & Company, nonché consulente
molto apprezzato di governi e multinazionali. Un vero alto funzionario del
capitale. In quello che probabilmente è il più noto dei suoi libri, comparso
nella traduzione italiana nel 1996 con il programmatico titolo La fine dello Stato-nazione. L’emergere
delle economie regionali, Ohmae, dopo essersi vantato con ragione di avere
predetto in anticipo il crollo dell’Unione sovietica, scriveva che gli
Stati-nazione erano oramai diventati “unità di business artificiose, o addirittura inammissibili, in un’economia
globale”. Al posto loro si ergevano i nuovi “Stati-regione” di cui il Kansai
attorno ad Osaka e la Catalogna erano alcuni degli esempi portati. In base a
questa analisi si domandava che senso avesse “pensare all’Italia come un’entità
economica coerente all’interno della Ue” quando “esistono invece un Nord
industriale e un Sud rurale, che differiscono profondamente in ciò che sono in
grado di dare e in ciò di cui hanno necessità”. Tanto più che “non c’è un
gruppo di interesse che tragga particolare vantaggio dai compromessi politici e
sia quindi disposto a sostenerli con entusiasmo”.
La via indicata non poteva
essere dunque che la fine dell’illusione cartografica, l’abbattimento (per il
capitale e i suoi agenti) dei confini diventati virtuali, la ricerca dell’unione
tra regioni forti, con il corollario dell’abbandono al loro misero destino di
quelle deboli. Le crisi che si sono succedute in questi anni, quella
economico-finanziaria e quella pandemica, hanno provocato una frammentazione
delle catene di approvvigionamento e di creazione del valore. Ma questo non pone
fine alla globalizzazione, anzi ne esalta gli aspetti che vedono rinforzarsi il
legame tra aree geograficamente e culturalmente più vicine. Se rimaniamo al
quadrante italiano, anche i recenti dati dell’Agenzia per la coesione
territoriale, confermati nella sostanza da analoghe ricerche di Bankitalia,
dimostrano l’aggravarsi delle diseguaglianze, che peggiorerà nel 2023. Per fare
solo qualche esempio: la spesa pubblica procapite è pari a poco meno di 19mila
euro in Lombardia, viaggia sui 16mila in Veneto, mentre si ferma a poco più di
14mila in Sicilia, in Calabria a 15mila, in Campania a 13.700 euro. Ben si
comprende la reazione di 51 sindaci del Sud, di diverso schieramento politico,
che si sono appellati al capo dello Stato per fermare il progetto Calderoli. La
“secessione dei ricchi” non è quindi uno slogan polemico, ma l’esatta
definizione dei processi economici che sottendono al progetto di autonomia
differenziata. Se è giusto quindi, secondo la nota tattica di dividere
l’avversario - cosa che per la verità riesce più a quest’ultimo che non a noi -
evidenziare i contrasti tra la fretta della Lega e l’insistenza sul presidenzialismo
della Meloni, non possiamo illuderci che questo basti per fermare un progetto
già in atto dal punto di vista materiale di cui si vorrebbe giungere ad una
formalizzazione con le intese tra stato e regione che non passano per il
Parlamento, come prevede la bozza Calderoli. Per bloccarlo serve la capacità di
legare assieme la questione sociale con quella istituzionale e costituzionale. È
necessario modificare quelle parti del Titolo quinto, che deriva dalla
sciagurata modifica costituzionale del 2001 voluta dal centrosinistra, cui si
aggrappano i sostenitori dell’autonomia differenziata. E sostenere la raccolta
di firme per una legge costituzionale di iniziativa popolare.
Firmiamo
in massa