DARIO GHIBAUDO
di
Maurizio Minchella
L’arte
che muta, tra natura e immaginario.
In
occasione del Fuorisalone 2025, che anima il capoluogo lombardo durante il
Salone del Mobile, il Cortile d’Onore dell’Università Statale di Milano ospita, presentata dalla Galleria Luigi De Ambrogi, un’opera straordinaria: Il Grande Pesce Bianco, una scultura in plastica
riciclata che sembra fluttuare nell’aria. A firmarla è Dario Ghibaudo, artista
piemontese trapiantato a Milano, scultore e pittore di fama internazionale,
noto per il suo Museo di Storia Innaturale, un progetto iniziato nel 1990 che
intreccia ironia, provocazione e riflessione sul rapporto tra uomo e natura. Le
sue creazioni, che spaziano da sculture a installazioni, utilizzano materiali
eterogenei per dare vita a un immaginario potente e straniante.
Ghibaudo
non si limita all’arte visiva: la sua versatilità lo ha portato a esplorare
anche la scrittura, con la recente pubblicazione di Violenze minime
(Arca Edizioni), una raccolta di racconti che scava nelle pieghe della
quotidianità con uno sguardo acuto e disincantato. In attesa della sua prossima
personale all’Espace Constantin Chariot di Bruxelles, dal 23 aprile
all’8 giugno, l’artista ha gentilmente accettato di raccontarci la sua visione,
tra mutazioni, miti e interrogativi sul nostro tempo.
L’opera
esposta all’Università Statale, Il Grande Pesce Bianco, è un pesce fantastico dotato
di zampe, sospeso come in un sogno surreale. Il suo simbolismo si presta a
molteplici letture. Può offrirci qualche chiave interpretativa, o preferisce
lasciare al pubblico il compito di decifrarne il significato?
Ogni
opera vive nello sguardo di chi la incontra, e l’artista, spesso, dissemina
tracce che si intrecciano alla sua ricerca. Personalmente, sono affascinato
dalle mutazioni: quelle naturali, legate all’evoluzione, e quelle indotte dalla
scienza. Il Grande Pesce Bianco sintetizza un’idea di trasformazione: da
creature marine a esseri terrestri, un viaggio evolutivo che si compie sotto
gli occhi di chi osserva. Ma la vera magia accade quando chi guarda si svuota
di preconcetti e si lascia trasportare dall’opera, trovandovi un riflesso di
sé.
Gli
animali fantastici ricorrono spesso nelle sue creazioni, evocando un passato
mitologico che sembra contrapporsi a un presente altrettanto leggendario,
dominato da tecnologia e robotica. È una risposta a un futuro che inquieta, o
un abbraccio a una realtà nuova, che ci spinge a interrogarci sulla nostra natura?
Non
credo esista una natura “autentica” dell’uomo. Le mie creature mutanti
raccontano un mondo in perenne adattamento, dove nulla è fisso o definitivo.
Sono frammenti di un caos naturale, tappe di un percorso che non ha una meta
ultima, ma solo continue metamorfosi. Il mito e la tecnologia, in fondo, sono
solo strumenti per narrare questa danza incessante.
Il
richiamo a immagini di ere remote sembra suggerire che il tempo, forse, sia
un’illusione. O che, come il suo pesce bianco, possa fermarsi, rendendo
l’eternità più vicina di quanto crediamo. È così?
Come
artista visivo, mi nutro di ciò che vedo e sento, non di speculazioni
filosofiche. Non ho risposte sul tempo o sull’eternità: osservo, interpreto,
traduco in sculture, disegni, parole. Il pesce bianco, forse, invita a
sospendere il giudizio, a contemplare un istante che potrebbe essere eterno. Ma
lascio a chi guarda il compito di trovare il proprio senso.
Nelle
sue opere, alberi e animali si intrecciano, e le figure umane sembrano
dissolversi in queste forme naturali, suggerendo una misteriosa continuità. La
natura, però, non è solo rassicurante: ha una forza seduttiva, quasi
pericolosa, che ricorda il serpente dell’Eden. Come vive questa dualità tra seduzione e distruzione?
Tutto - animato o inanimato - condivide un destino comune. Non parlo di distruzione,
ma di trasformazione, un concetto antico che attraversa ogni cosa. Dall’Eden
alla robotica, il tempo stesso è metamorfosi. La natura seduce perché ci
ricorda che siamo parte di un ciclo più grande, ma anche che ogni passo può
cambiarci per sempre.
Oltre
alla sua arte, lei ha una passione per la scrittura, come dimostra Violenze
minime, una raccolta di racconti che esplora la banalità del male quotidiano. I
suoi protagonisti sembrano vittime di una mostruosità subdola, quasi
invisibile. Gli archetipi mitologici possono aiutarci a curare il nostro male di vivere.
La
mostruosità, per me, non è mai banale: è una delle infinite facce della realtà.
Gli archetipi mitologici sono specchi che ci aiutano a vedere, a tracciare
sentieri verso nuove interpretazioni del mondo, ma non unguenti per il dolore
dell’esistenza. Scrivere Violenze minime è stato un’avventura splendida,
ma anche una sfida: come per una mostra, un libro espone l’autore, lo mette a
nudo. Scrivo e disegno con la stessa urgenza, intrecciando storie che poi si
trasformano in segni, in immagini, in parole. È un processo che mi appartiene,
ma che mi sorprende ogni volta.