POETI
di Francesca Mezzadri
Tra
silenzio e fuoco: la soglia umana del divino.
Nella silloge Le cose invisibili di Francesco Aprile (Edizioni Dialoghi, pagg.
78, euro 14), si dispiega un percorso poetico che assomiglia più a un
itinerario spirituale che a una semplice raccolta. Ogni testo è una tappa di
trasformazione, una pagina del diario di chi attraversa la notte dell’anima per
ritrovare, nella parola, un barlume di verità.
Fin
dall’inizio, in A Est della Montanara,
la parola appare come luogo di conflitto: dono e condanna insieme. “Ho
regalato ad altri parole che meritavo, / ne ho ricevuto i silenzi che meritano
loro”. Una dichiarazione di poetica: la parola come strumento di
conoscenza che, nel momento stesso in cui illumina, ferisce. Il linguaggio si
fa corpo, materia che pesa e che resta, come accadrà più tardi nel doloroso Il
Dono. Nei testi successivi si alternano visioni corali e confessioni intime. Giugno
trasforma la sconfitta in immagine di grazia: “L’esercito sconfitto è un
campo di girasoli / allineati, col capo chino”. La perdita si
tramuta in epifania, in umile bellezza. In Ritratto
di famiglia, il poeta si spoglia davanti ai defunti, trovando nella loro
nudità la misura della verità: “In essi la nudità è più vera e Maggiore”.
La morte, qui, è vicinanza, non assenza. Il tono diventa profetico in Il
Dono: l’io lirico scopre in sé un potere medianico - “Mi hanno dato orecchie /
per chi non parla più” - ma
il carisma è una condanna. “Questo dono / non salva, non consola, non
guarisce. / Solo pesa”.
È la consapevolezza che ogni
conoscenza autentica è anche perdita dell’innocenza, una croce che non si
sceglie. Con Chi sei, che bussi? La
voce si fa dialogica, interrogando l’ombra di sé. Il poeta non trova risposte,
solo il riconoscimento del proprio timore: “Se ho vissuto per amore…?
/ Per paura”. È una confessione laica, in cui la
verità coincide con la vulnerabilità. Il silenzio
piccolo e Preghiera inversa
introducono la riflessione più alta: il silenzio come grembo del senso, la
preghiera come negazione del rito. “Non darmi volto… Non tendermi la mano…”: la liturgia si rovescia in gesto
umano. È qui che la poesia si fa teologia negativa, accettazione del mistero
invece che bisogno di risposta. Con Fuoco
al Cielo l’immaginario si fa alchemico: il fuoco brucia la materia muta e
la trasforma in luce. E con Metamorfosi
dell’occulto l’autore compie la propria trasmutazione: dall’alchimia dei
segni alla purezza dell’umano, dall’incantesimo alla pietà. Da Ruah (Rugiada) in poi, introduce un tono
più contemplativo e terreno. Ruah (soffio, spirito) riprende il tema biblico
della creazione e lo piega alla fragilità dell’io: “Io sono / solo / un uomo”.
L’essere si riconosce frammento del Tutto, non padrone ma parte.
Veronica e i testi contigui costruiscono
una scena medianica, quasi teatrale. La voce di una donna che “soffre per
amore” parla dal vuoto, invocando aiuto. Il poeta ascolta e risponde con
empatia disarmata: “Anch’io soffro, Veronica. / Per errore”.
È il punto in cui la compassione diventa comunione.
In Fame piena e Resta in attesa l’esperienza mistica assume toni di corporeità: la
fame, la presenza, l’alito sul collo sono epifanie sensoriali del divino. “Che
tu veda la mia fame già mi sfama” -
la conoscenza si compie nello sguardo, non nella risposta.
Domanda
aperta suggella la scelta della non-conclusione: “Anima, lascia che il
mistero resti”.”La verità non è nell’esito, ma nella
disponibilità a restare nella domanda. È un’etica dell’attesa, preludio a Il canto degli angeli, forse il testo
più luminoso: “Non portano messaggi, ma presenza”. Gli angeli non annunciano,
ma esistono: come la poesia, sono la bellezza inutile ma necessaria del
restare.
La
memoria domestica riappare in I gigli
della sabbia, dove l’infanzia e la figura di Zia Ada restituiscono il senso
dell’origine. I gigli, la sabbia, il tè al gelsomino diventano emblemi della
diversità accettata: “Quando fa male, è lì che prendi forma”.
La poesia si riconcilia con le proprie ferite.
In Ho peccato abbastanza, il poeta si
confessa con ironia sommessa e tono liturgico. Non cerca espiazione, ma
riconoscimento: “Ogni volta che torni insonne / dal letto di
paglia / brucerei l’incenso”. Il rito diventa gesto interiore, privo
di chiesa ma non di fede.
Con Il riflesso del cielo si raggiunge la
contemplazione finale: il mare come specchio che “inghiotte e risputa ciò che
ha tenuto ma non gli appartiene”. È una visione di libertà dolorosa, la
consapevolezza che l’anima non può trattenere nulla, nemmeno sé stessa.
La Ricetta
Ci sei?
Per un
attimo ho sentito l’odore
Del tuo
sugo caldo -
Quel
vapore lento che saliva
E diceva:
“Resta ancora qui.”
Ci sono,
non come vuoi, ma ci sono.
Abbassa il fuoco:
le patate si disfano
se le cuoci distratto.
Mi
manchi.
A volte
vorrei solo
Il tuo
profumo in questa stanza.
Ci sono, nei gesti:
quando lavi il basilico,
quando ti si appannano gli occhiali
prima di assaggiare,
quando aggiungi il sale
con paura di sbagliare.
Da
piccolo
Mi tenevi
stretto.
Ora stringi gli altri.
È lo stesso battito.
È una ricetta senza tempo,
che cuoce ancora, altrove.
Dov’è Dio?
Nel modo in cui ascolti
Senza chiedere perché.
Dio è dove smetti
Di voler capire tutto.
Cosa devo
cambiare?
Dimmi la
verità.
Smettila
Di pensarti rotto.
Smettila
Di volerti giusto.
Ama anche le crepe:
Dio passa da lì.
E ora gira.
Gira in senso antiorario,
come facevo io.
Perché?
Così si confondono
Il tempo, la fine, il presente.
E quando sarà
La cena giusta,
la riconoscerai
dal profumo.
“La
Ricetta” racchiude l’intera architettura spirituale della raccolta, trasponendo
il divino nel gesto quotidiano. La memoria materna, il profumo del sugo, il
basilico lavato sono icone di una teologia domestica: Dio non abita nel dogma,
ma “nel modo in cui ascolti / senza chiedere perché”. La fede si rivela come
disponibilità a non comprendere, come amore per l’imperfezione: “Ama anche le
crepe: Dio passa da lì”. È la stessa poetica del frammento di Ruah, ma
riscattata nella tenerezza. La lingua qui si fa narrativa, quasi prosastica, ma
conserva la densità simbolica del resto del corpus. La cucina diventa rito, la
ricetta liturgia, il profumo epifania. Il poeta conclude non con una risposta
ma con un gesto: “Gira in senso antiorario”. È un ritorno al mistero, alla
circolarità del tempo e dell’amore. Dalla prima all’ultima poesia, il percorso
compiuto è quello di una trasmutazione: dal dolore alla compassione,
dall’alchimia oscura alla semplicità quotidiana, dal silenzio alla presenza.
L’io poetico attraversa la perdita, l’attesa, la domanda, per approdare a una
fede senza religione, a una spiritualità umana, incarnata. Lo stile, pur
libero, è sempre rigoroso: sintassi breve, lessico alto e terreno insieme,
ritmo interno più musicale che metrico. Si avverte una parentela ideale con
Rilke, Caproni, Gualtieri e Campo, ma la voce resta autonoma, più terrestre,
nutrita di polvere e sale.





