SCAFFALI
di Massimo
Del Pizzo
Il senso
del passaggio: Il giallo del semaforo di
Valeria Di Felice
Oggi vorrei ricordare il futuro e non il
passato.
Jorge
Luis Borges
È una questione di soglie, una questione di attimi:
quelli (fra passi e passaggi) che si presentano all’attenzione del viaggiatore
metropolitano (e non). Segni e segnali del Semaforo, cioè il verde del via
libera, il rosso del divieto e, quello più importante, il giallo dell’attesa. Fra
queste soglie, tra questi segni esegnali, sta la prova poetica di Valeria Di
Felice con un nuovo volume pubblicato nella elegante veste grafica proposta
dalla Società Editrice Fiorentina (SEF), come primo volume della Collana
“Pasifæ”, diretta da Mario Fresa, con prefazione di Giuseppe Girgenti, in
libreria da maggio 2025. Dell’autrice conosciamo le opere poetiche precedenti: L’antiriva (2014), Attese (2016), Il battente
della felicità (2018). La nuova offerta editoriale si articola in quattro
sequenze, secondo un andare che definiamo sussultorio, invece che ondulatorio, orientato
cioè verso il verticale: un poetare spesso inquieto, mai inquietante, però non
tranquillizzante. Una ricerca del nuovo alfabeto / a scrivere i geroglifici
del senso (La chiamata, p.17). Non crediamo alla
poesia come liberazione, terapia e consolazione. Solo i “conciliati” possono
credere (o far finta di credere), che sia tale. Solo chi ha paura di affrontare
e inventare la vita in parole può credere che la poesia offra un orizzonte di
pace. La poesia è esattamente il contrario: è danno, tormento e condanna,
negazione e scompiglio, scandalo e dubbio. Così per lo scrittore, ma anche per
chi legge. Del resto, il rapporto intimo fra scrittore e lettore è già da tempo
indicato nel grido definitivo (e “scandaloso”) di Baudelaire che, nell’incipit
de I fiori del male, proprio a
quest’ultimo si rivolge: “(…) mio simile,
fratello mio”.

Massimo Pizzo
con Valeria Di Felice
Accenti di
non conciliazione col presente e col senso comune li troviamo anche in Valeria
Di Felice, la quale si muove tra presenze note, familiari, siano oggetti d’uso
comune (il semaforo, in primis, ma
anche Ombrelli chiusi, La panchina
appisolata, I bordi del panino, Scarpe da calcio, I tergicristalli, L’ idrovora,
La carta copiativa, La penna), siano
animali (La talpa dal muso stellato, La gallina). Per definire (se possibile)
i quali, viene però utilizzato un linguaggio straniante. Ne derivano una
oggettistica stravolta da una inattesa collocazione e un bestiario metamorfico
che nessuno zoo può ingabbiare.
Il
registrare presenze verificabili e note, non garantisce un accesso al reale. Ma
il monito, in Valeria Di Felice, è perentorio, e si veda per esempio, L’editore: Gli chiese perché lo fosse. / “Non lo sono un editore” rispose.
/ “Non posso più mettere a fuoco / la tavola delle parole” (p.66).
Ed ecco
il punto: la poesia (anche quando finalmente è a stampa e ha dunque un corpo
reale che è il libro) non chiarisce, non descrive, non semplifica, non rende chiaro
ciò che è oscuro (… ) e sentiamo il filo
rosso tirare / dall’ignoto (La chiamata, p.17) e si legga allora soprattutto,
e per intero, La signora verità (p.67):
Bussò alla porta la signora verità. / Era
leggera, truccata, / aveva tacchi a spillo / che bucavano il pavimento. / Non
disse nulla / batté le ciglia / e mosse i capelli / sventolandomi contro /
l’avvenenza del gesto. / Non la feci entrare. / Avevo ancora addosso / il
pigiama della notte e - negli occhi / i sogni più irraggiungibili.

con Valeria Di Felice



