La
provocazione dell’attualità
di Giovanni Bianchi
Daniel Buren: "Come un gioco da bambini" Museo MADRE |
Penultime schermaglie
Anche
l'attualità è in grado di provocare. Figuriamoci il passato prossimo. Facendo
eleggere al Quirinale Sergio Mattarella Matteo Renzi non ha scelto il suo
passato. Probabilmente gli basta avere nel pedigree l'appartenenza agli scout.
Chi ha parlato di operazione iperdemocristiana e di ritorno alla Dc è
senz'altro fuoristrada e fuori tempo. Nessuno dei partiti della Prima
Repubblica è destinato a ritornare, neppure sotto forma extraterrestre.
Renzi
ha scelto come suole se stesso e di far ricominciare dalla Leopolda la storia
italiana: post Matteum natum:
pmn.
E
intorno alla sua leadership si raduna una antropologia sempre più divisa e
divisiva. Naufraghi dell'ideologia e del delirio narcisistico che si aggrappano
a un posto come ultima tavola di salvezza e non avendo altro nel cuore. Nuove
generazioni alla ricerca di un futuro non programmato e quindi introvabile.
Resta
l'antico giudizio sull'italica gente del Leopardi del 1824. Continuiamo mancare
di dimensione interiore e di classe dirigente. La corruzione è figlia della
mancanza di dimensione interiore. Il ceto politico è figlio della mancanza di
classe dirigente. Ad ogni tappa parlamentare si rifà il gioco del re della
montagna. E nel tempo medio-lungo il gioco è destinato ad annoiare ed
allontanare l'elettore.
Un recente convegno
Un
recente convegno promosso dalla rete “C3dem”
ha tematizzato e titolato: "L'attualità politica provoca i cattolici
democratici". Invitando a por mente alle scelte del governo Renzi, alle
riforme costituzionali, alla leadership e alle aree nel PD, all'elezione
appunto del presidente Mattarella...
Visto
che Franco Monaco ha esordito dicendo che siamo oggi più divisi nel PD che
nell'Ulivo prodiano, mi pare che sia il discorso sul partito a porsi ancora una
volta come primo problema. Del resto il senso dell'efficacia storica del
cattolicesimo democratico é di essersi fatto partito.
Se
il non dimenticato Paolo Giuntella sosteneva, con una allure lievemente
nietzschiana, che il cattolicesimo democratico può essere considerato una
collazione di biografie, è pur vero che sta nell’essersi fatto partito il suo
peso e la sua importanza. Luigi Sturzo ha chiaro che non è sufficiente come
orizzonte culturale la dottrina sociale della Chiesa, l'essere cattolici e
neppure una salda leadership. Un atteggiamento che contiene un'importante
insegnamento per la fase attuale.
Usciamo
infatti da due decenni di ingegnerie istituzionali sulle regole ed è venuto il
tempo probabilmente di occuparsi con più attenzione dei soggetti politici
chiamati a scendere in campo per giocare la partita.
Renzi
si colloca indubbiamente alla fine della cultura politica cattolica, ed è il
figlio emergente da questa fine, non certamente la causa della fine. "Rottamazione"
è la parola d'ordine del nuovo corso. Renzi vince, lungo strade inedite, perché
rompe con "l'eccesso diagnostico" (l'espressione è di papa Francesco)
e con la democrazia discutidora proponendo
agli elettori italiani il decisionismo mediatico dell'esecutivo.
Questo
è il "bene" in nome del quale anche i più avveduti hanno scelto di
rinunciare alle discussioni circa il "meglio". Una fiducia che
tuttavia non può durare a lungo soltanto con questa motivazione e che per molti
versi assomiglia al tifo sportivo: da una parte con Pierluigi Bersani i fans
del Grande Torino, e dall'altra con l'ex sindaco di Firenze i fans della Nuova
Fiorentina.
Il
problema che si pone é il solito: quale sia il luogo dal quale guardare alla
fase attuale, alle tensioni che l'attraversano e agli esiti possibili. Insomma,
da quale forma del politico tu guardi e io guardo?
Risolvere
questo problema non è un quesito astratto, perché ne discende insieme la
sensatezza e l'efficacia del mio prendere posizione. Ossia ne discende la
politicità del mio riflettere sulla politica e del mio intervenire sulle
vicende politiche, in ciò differenziandosi dalle sentenze dello studioso, dalle
informazioni del giornalista, dal giudizio di un oppositore interno di Renzi,
dalla battuta dell'avventore al bar che si occupa del gossip politico a partire
dalla sezione dedicatagli dalle apposite pagine della "Gazzetta dello
Sport".
La morte della patria
La
morte della patria è un libro controverso ma non inutile di Ernesto
Galli della Loggia, un libro che fa discutere e che obbliga a discutere anche
nella fase attuale. Se ne sono resi conto quanti hanno affrontato in termini
non soltanto storiografici o propagandistici il settantesimo anniversario del
25 Aprile.
Non
a caso per le associazioni partigiane il confronto impari continua ad essere
quello con l'anagrafe che inesorabilmente ci priva dei protagonisti. Mentre la
comprensione degli eventi complessivi della Lotta di Liberazione è consentita
da uno sguardo che includa e documenti il concetto di resistenza civile.
Va
subito chiarito che il concetto di resistenza
civile ha come riferimento la diagnosi di Pietro Scoppola. Firmando la
prefazione al libro su La resistenza di
una comunità Scoppola scriveva: "Due sono i motivi centrali delle tesi
revisioniste: il primo è quello della "lunga zona grigia" di
indifferenza e passività fra le due posizioni minoritarie in lotta crudele fra
loro, quella dei resistenti e quella di coloro che si batterono per la
Repubblica di Salò; il secondo è quello della crisi della nazione, quale si era
faticosamente venuta formando negli anni del Risorgimento e dell'Italia
unitaria, della tragedia dell'8 settembre, che diventa la data simbolo della
"morte della patria"."
Scoppola
osservava di seguito che la conseguenza di queste idee largamente proposte e
diffuse a livello di opinione pubblica è stata quella di tagliare le radici
stesse della Repubblica e della Costituzione, con effetti politici che ancora
scontiamo. Troppe cose hanno finito così per essere immolate sull'altare della
"zona grigia" diventata un moloch inaccettabile. Anzitutto una corale
partecipazione di popolo, anche se a diverse intensità. In particolare a farne
le spese è stata la memoria della faticosa e diffusa partecipazione degli
italiani senza la quale i combattenti in montagna non avrebbero avuto un
retroterra.
La
popolazione italiana nel suo insieme non fu infatti né inerte né indifferente
di fronte ai drammi provocati dall'8 settembre: dai soldati allo sbando, a
inglesi e americani in fuga dai campi di prigionia, agli ebrei salvati con le
modalità più ingegnose e talvolta rocambolesche, al rifiuto della chiamata alle
armi imposta dalla Repubblica Sociale, alla resistenza dei militari
"badogliani", agli ufficiali e ai soldati che resistettero nei Lager
per fedeltà al giuramento al re, all'apporto delle donne e del clero, fino alla
diffusa presenza cattolica intuita da Chabod e non confinabile nella sola
categoria dell'attendismo.
È
il tessuto morale e civile di chi si batte per la salvaguardia dei valori
fondamentali di convivenza e di rispetto della persona umana, così come saranno
poi codificati dalla lettera della Costituzione. Perché il coraggio di prendere
le armi non può essere considerato l'unica forma di partecipazione e di
coinvolgimento. Anche se il giudizio di De Felice sottolinea la consistenza
dello spirito della Costituzione del 1948 e quindi del personalismo
costituzionale, rispetto alla labilità della coscienza nazionale.
Daniel Buren "Come un gioco da bambini" Museo MADRE |
Il dilemma delle forme del
politico
Tutto
il discorso sulla Resistenza, sulla sua ampiezza di coinvolgimento, sulle cifre
e sui soggetti, ma anche sui numeri, sulle classi, sui territori, sui ceti
sociali, sui mondi regionali italiani come sul mondo cattolico non può
prescindere da alcuni concetti perfino elementari che il dibattito della
politica politicante ha abbondantemente dimenticato.
Si
tratta di ripetere che anche nella turboglobalizzazione non si entra come
cittadini del mondo, ma con diverse e storiche identità popolari. Se dunque non
ci può essere patria senza popolo, ci può essere politica senza popolo?
C'è
una crisi nelle forme del politico italiano della quale nessuno sembra
preoccuparsi. È per questo che non si critica, non si prende posizione, ma ci
si schiera come tifosi. Si può ad esempio lanciare l'idea di un "partito
della nazione" senza interrogarsi su a che punto siamo in quanto italiani
del 2015 con l'idea e la sostanza della nazione.
Si
può fare una politica a prescindere da un qualche idem sentire in quanto
popolo?
Dovrebbe
oramai essere a tutti chiaro, dopo tante prove e tanti scacchi, che non è
possibile fare politica soltanto a partire dalle regole. Il problema infatti
restano comunque i soggetti. Ed è dimostrato che le regole in quanto tali non
sono maieutiche dei soggetti.
Si
è puntato sempre a cambiare le regole del gioco; i soggetti restano latitanti e
quindi impossibilitati a giocare. Non è stata breve la stagione nella quale ci
si è affaticati con l'ingegneria delle leggi elettorali a strutturare quello
che un tempo veniva chiamato il quadro costituzionale e in generale tutto il
campo delle presenze politiche lungo un viale che conducesse al bipolarismo.
Ci
fu poi il tempo del partito "a vocazione maggioritaria", figlio di
una teologia politica che ho sempre faticato ad intendere. E adesso la prua
della politica italiana sembra dirigersi verso una formazione politica a
vocazione egemonica, pensata come partito dalla nazione.
Ma
anche qui torna comunque la domanda: ci può essere una nazione e un partito
della nazione senza popolo? Non è necessario aver letto tutti i libri di Asor
Rosa per essere inseguiti da un simile dubbio.
Chi
lavora al popolo? I partiti non erano per Mortati, Capograssi, e anche per
Togliatti il civile che si fa Stato? Era completamente fuori strada il leader
del Pci quando sosteneva che quella italiana era una Repubblica fondata sui
partiti? Non erano in molti ad essere preoccupati della scarsa solidità delle
nostre istituzioni con la conseguenza del nostro tardo e lento farci nazione?
Dove condurrà questo scialo di discorso politico disinteressato al senso
storico e improntato a una sorta di marinettismo pubblicitario?
Daniel Buren "Come un gioco da bambini" Museo Madre |
L'anniversario del 25
aprile
Mi
ha lasciato perplesso la "leggerezza" del messaggio del governo in
carica sul settantesimo anniversario del 25 Aprile. Tutt'altro discorso dal
Quirinale, quello antico e quello nuovo. Sergio Mattarella è risultato
presente, puntuale, perfino didattico ed esauriente. Si è lasciato alle spalle
il fantasma del muto di Palermo. L'intervista al direttore di "Repubblica"
è un saggio di spessore insieme storico e politico e può ben costituire una
mappa di lavoro. Altrettanto ha fatto Giorgio Napolitano sul "Corriere
della Sera", anche in questo caso evitando inutili celebrazioni per andare
al nocciolo politico della storia e del problema.
Non
lo stesso si può dire dei politici di nuova generazione, ininfluenti o assenti
perché la Resistenza non entra facilmente in un tweet o perché gli importa il
potere più delle ragioni che consentono e consigliano il governo.
Eppure
è un grave errore dei populismi e della politica in generale senza fondamenti
questo disinteresse per le radici e soprattutto per le soggettività storiche.
Così si riduce il messaggio politico a una sorta di fiera del bianco
programmata dal vicino centro commerciale, dando l'aria di affidarsi a una
scarsa visione destinata a non andare lontano.
Per
questo ho sintetizzato in tempi di biopolitica un'espressione briantea di
anatomia politica suggeritami dal Guido Bollini, il mio compagno di banco al
liceo classico "Zucchi" di Monza: "Così stiamo prendendo la
vacca dalla parte delle balle".
Senza
soggettività c'è solo pubblicità vincente, ma gli annunci pubblicitari non
durano a lungo e non supportano una politica resistente nel lungo periodo.
Va
detto che sui contenuti resistenziali imposti dall'anniversario si è invece
impegnata la ministra della Difesa Roberta Pinotti, che è arrivata ad inventare
la premiazione con badante (compite crocerossine in divisa) dei partigiani
superstiti all'anagrafe in una commovente cerimonia svoltasi al Ministero.
Onore
al merito perché la scout Roberta si è distinta rispetto ai più giovani
colleghi di governo che parlano con accattivante competenza di problemi che non
conoscono. C'è anche qui da farci un pensiero, perché la politica, più della
natura, riesce a far vivere e a far campare ossimori curiosi. Lo sottolineo
perché nei confronti della Pinotti nutro da dopo la strage parigina di Charlie Hebdo qualche preoccupazione.
Roberta,
come Paolo Gentiloni agli Esteri, condivide con la maggioranza dei democratici
italiani l'abitudine mattutina del cappuccino con brioche. Solo che i due
ministri in carica tutte le mattine, a metà cornetto, dichiarano guerra alla
Libia... Qualcuno li avverta che Angelo Del Boca, il miglior storico al mondo
di Cirenaica e Tripolitania, è italiano e risiede, tuttora lucidissimo e
disponibile, nel nostro Paese. E tutto, fin dall'improvvido inizio voluto da
Sarkozy, ha consigliato tranne la guerra.
Daniel Buren "Come un gioco da bambini" Museo MADRE |
Un inedito che fare
Era
Borges che scriveva: "Se potessi vivere un'altra volta comincerei a
camminare senza scarpe dall'inizio della primavera e continuerei così fino alla
fine dell'autunno. Farei più giri in calesse, contemplerei più albe e giocherei
con più bambini, se avessi un'altra vita davanti a me. Ma come vedete, ho già
ottantacinque anni e so che sto morendo". Appunto questo è il problema:
sì, la vita bisognerebbe viverla due volte... Ma intanto?
Intanto
è importante rendersi conto dei termini e delle stagioni in disuso. Tenere le
distanze dall'apocalittica e dall'iperbole. Non va lontano un Paese dove
l'abitudine è di raccontare barzellette ai funerali.
Bisogna
piuttosto avere il coraggio di riflettere sull'ironia della storia: la storia è
siffatta che dà ragione a chi mezzo secolo prima si trovava con i piedi nel
torto. È da uno scenario simile che possiamo provare a chiederci come
l'attualità provochi i cattolici democratici.
Anzitutto
riconoscendo una cesura e poi chiedendoci: cosa resta?, a che punto siamo?
Mi
chiedo quanto il mio dossettismo possa essere tuttora valido. Nella fase in cui
tutti siamo congedati dal Novecento.
Dossetti
si confida in quello che possiamo
ritenere il suo testamento spirituale, pronunciato a Pordenone nella Casa
Madonna Pellegrina il 17 marzo del 1994:
"E pertanto la mia
nazione cosiddetta politica è stata essenzialmente azione educatrice.
Educatrice nel concreto, nel transito spesso dalla vita politica". Non una scuola di formazione dunque, ma
una politica nel vivo delle strutture e della battaglia politica, come il
partito.
E
adesso?
Tutte
le politiche in campo prescindono dal "progetto", come figura
montiniana del cattolicesimo democratico. Queste politiche muovono infatti da
due cesure.
Dopo
l'Ottantanove l'Italia è l'unico paese al mondo ed in Europa ad avere azzerato tutti i partiti di massa.
In
secondo luogo l'ingresso del partito democratico nella famiglia
socialdemocratica europea chiarisce due cose: le culture politiche non
organizzate svaniscono e si suicidano (Toynbee); Renzi non taglia nessun nodo gordiano
a Bruxelles. È giovane ed ha la vista buona e capisce che il nodo non c'è più.
Non
Fioroni, non la Bindi e tantomeno Marini alzeranno barricate o minacceranno
diserzioni. Si trattava soltanto del residuo di una rendita elettorale. Niente
di più.
Un
altro punto di vista va recuperato, ed è quello esplicitato nella conferenza
trilaterale di Kyoto del 1975.
Le
relazioni sono tenute da Watanuki, Crozier e Luhmann. Le analisi sono
convergenti: ci troviamo di fronte a un "eccesso di partecipazione" e
di democrazia nel mondo. Il caso più eclatante è quello dell'Italia.
Tutto
si muove da allora all'interno di una polarità rappresentata dalla
governabilità da una parte e dalla democrazia dall'altra. La tensione tra i due
poli continua ad essere forte e i populismi ed i decisionismi piegano il
bastone tutto dalla parte della governabilità.
Orbene
è chiaro che una democrazia senza governabilità fa deperire se stessa e si
autodistrugge. Ma è anche vero che può darsi governabilità senza democrazia.
Il
fatto curioso della fase è che una comunicazione onnivora riesce tuttavia a
mantenere al proprio interno e nei rapporti con la pubblica opinione gli arcana imperii. Che altro è il patto
del Nazareno? Ha ragione Christian Salmo: "Governare oggi vuol dire
controllare la percezione dei governati".
La
sindrome di Pasolini colpisce la democrazia: "Hanno considerato
"coraggio" quello che era solo un codardo cedimento allo spirito del
tempo".
È
bene collocarsi oltre l'eccesso diagnostico, ma è anche bene chiedersi quanto
può durare la scelta del bene invece del meglio.
Daniel Buren "Come un gioco da bambini" Museo Madre |
Il punto di vista
Costruire
un punto di vista (condiviso) è sempre il compito preliminare.
C'è
chi auspica la redazione di un nuovo Codice di Camaldoli, non solo tra i
cattolici democratici. L'esperienza suggerisce con chi: un problema che va
oltre le alleanze, com'è il caso milanese del Circolo Dossetti.
Un
problema che ovunque l'esperienza suggerisce di affrontare oltre le alleanze,
perché gli interlocutori non possono essere prefabbricati sul piano teorico.
Per
quanto riguarda la forma partito sono favorevole alla creazione di correnti,
perché non conosco altro strumento per far vivere un partito. È necessario
tener conto della logica del motore a scoppio, del quale continuiamo a
servirci, nonostante le perdite evidenti...
Ma
i cattolici democratici allora chi sono? Allora, chi siamo? In che senso
esistiamo ancora?
In
mezzo c'è tutta la fase politica; quella "transizione infinita" che
Gabriele De Rosa ha evocato e che stiamo tuttora attraversando.
In
mezzo c'è l'Ottantanove, la caduta del Muro
e l'azzeramento in Italia dei partiti di massa. Tornano i fondamentali
della nostra storia nazionale: Togliatti che ripeteva che la nostra era una
Repubblica fondata sui partiti; l'avvertenza che non esiste cultura politica se
non organizzata.
E
adesso che si sono consumate tutte le
culture politiche del Novecento? (Il partito più vecchio è la Lega Nord. E
risultano quindi comprensibili, alla luce della constatazione appena fatta, gli
sforzi di Bossi per accreditarsi come discendente da una tradizione di famiglia
politica, in un Walhalla, o meglio in uno scenario hollywoodiano, dove
scorrazzano i Celti (?) e il dio Po, le cui acque devono essere aiutate a
raggiungere la laguna veneziana…
Insomma,
resta ancora in giro qualche richiamo della foresta, ma non ci sono più le
foreste: per nessuno! Ecco perché si è dedicata un po' d'attenzione
all'ingresso del PD nella famiglia socialdemocratica europea. In un pomeriggio
è affare fatto. Le proteste addirittura non si levano. Il più pragmatico di
tutta la compagnia, il saggio Franco Marini, dichiara che per lui è un onore
seppellirsi nella grande tradizione socialdemocratica, vuoi perché anche la
socialdemocrazia è finita, e vuoi perché a un vero pragmatico potrebbe anche
andar bene un esito politico islamico...
Già
Renzi, alla serata conclusiva delle primarie con Bersani, aveva evocato davanti
alle televisioni Mandela come punto alto di riferimento, e non La Pira o don
Milani: perché Mandela era più prossimo e intimo al mondo fiorentino della sua
generazione di La Pira o don Milani.
Verso dove?
Tutte
le politiche che abbiamo di fronte sono "senza fondamenti". Non hanno
e non cercano un progetto, ma presentano una leadership decisionista e
vincente. Le puoi giudicare solo a posteriori, dagli effetti, e non per
rapporto a un disegno preventivamente esaminato.
Tutto
si muove all'interno di una polarità: governabilità/democrazia. A partire dalla
Trilaterale di Okinawa del 1975.
Senza
governabilità –vale la pena ribadirlo– la democrazia deperisce e muore. Ma ci
può essere governabilità senza
democrazia. Le distanze tra il cattolicesimo democratico e il renzismo, ma
anche tutto questo PD, sono evidenti.
Io stesso, pur lavorando da sedici anni con i circoli Dossetti, sono anomalo
rispetto al Dossetti del testamento di Pordenone.
Cerco
in tutte le maniere di colmare la distanza, ma la distanza consiste perché
dentro i tempi è lo spirito del tempo a prevalere. Quando Sandro Antoniazzi ed
io ci autodefiniamo "Cattolici Democratici Lombardi" mettiamo
un'etichetta su un barattolo dove ci sono più intenzioni che tradizioni e
acquisizioni. La nostra moralità è saperlo e dirlo in giro.
Detto
questo, mi va assolutamente bene che ci sia una corrente e più correnti nel partito
–comunque– e che il partito si correntizi. È
l'unico modo fin qui conosciuto per aprire un dibattito e una dialettica. Senza
correnti il partito della nazione mi inquieta di più che con le correnti e i
loro difetti.
Le
correnti possono creare cultura e selezionare classe dirigente, altrimenti la
"velocità" introdotta dai rottamatori li erigerà prestissimo in
"nuova casta".
Che
fare? Rientrare nelle catacombe da reduci, e, con il guadagno del reducismo,
provare a buttar giù la brutta copia per l'elaborazione di un nuovo
"Codice di Camaldoli".
Quindi
–è un'ossessione– costruire insieme un punto di vista comune alle generazioni.
Che è sempre stato l'assillo degli operaisti...
Del
resto il cattolicesimo democratico è sempre stato a sua volta una cultura
aperta, disponibile ad ibridarsi con altre culture politiche. Senza
dimenticare, in particolare nell'area milanese, che non è abituale una
distinzione netta tra cattolicesimo politico e cattolicesimo sociale. Un'avvertenza
da tenere bene presente quando sono gli Stati forti che stanno decidendo e non
quelli minimi. Al massimo uno Stato "flessibile" può essere nel
nostro orizzonte; non uno Stato minimo.