Sebastiano
Vassalli. Non è vero che il nulla sia nulla
di Giovanni Bianchi
La rivista “Pianura” e
Sebastiano Vassalli in un ricordo di Giovanni Bianchi
Sebastiano vassalli |
"Pianura"
Un'amicizia che risale alla metà degli
anni Settanta è indubbiamente una lunga amicizia. Anche vasta, perché si tratta
di un'amicizia di gruppo: quello della rivista "Pianura". Le date sfumano e non hanno davvero importanza
quando si tratta di uno scrittore vero e incredibilmente disarmato come
Sebastiano Vassalli. A tirare il gruppo erano Sebastiano, Adriano Accattino,
Raffaele Perrotta. Un terzetto più affiatato e diverso non si sarebbe potuto
immaginare. A partire da Sebastiano, che mostrava per l'impresa tutto il
disinteresse possibile, eppure ci ospitava per le riunioni nella sua casa di
Novara, provvedendo ad annaffiarle con bottiglie di bonarda. Probabilmente,
forse mai, nella mia non più breve esistenza, mi è capitato di incontrare un
connubio così stretto tra disincanto e passione. Come se le due cose stessero
insieme in armonia davvero sponsale e fossero fatte l'uno per l’altra. Per questo
mi apparivano simbolo vivente di Sebastiano Vassalli.
Sicuro
di sé ed autoironico, quasi un leader dissimulato. In grado perfino di mediare
in quella trinità così assortita che vedeva accanto a lui Adriano Accattino di
Ivrea, uno –l'ho già scritto– che fa di professione il commercialista, si
occupa di pittura istantanea e poesia visiva, e ha compitato pagine di una
saggistica assolutamente profonda, assolutamente accattivante, fuori da tutti
gli schemi.
Sebastiano
aveva un volto antico e scolpito nell'antropologia delle vaste pianure. I
capelli e il tono della voce che, chissà perché, mi rimandavano all'amatissimo
Dino Campana, su cui ha scritto il romanzo più bello.
A
completare il terzetto Raffaele Perrotta. Coltissimo (senza nasconderlo),
dolcissimo e insieme professorale, che quando emigrò in Australia a insegnare
italianistica mi scriveva da Sidney: "Ho mal d'anima".
C'era
anche Mussapi, il poeta, e tutta una serie di altri richiamati dalla calamita
letteraria dai quattro punti cardinali. Ovviamente anche dal Mezzogiorno, dove
le Muse sono più corteggiate che da noi, e quindi non hanno bisogno di vezzi da
sciantosa.
"Pianura" pubblicò qualche numero, come accade a
tutte le riviste riuscite. Si dovette rifare la copertina del primo per una
imprevista discussione sulla grafica. Ma ha lasciato il segno. Perché questo è
il destino delle riviste: raccogliere un gruppo che pensa di avere intenti
letterari e insieme politici, consentire esperimenti e prove d'autore, sparire
e chiudere, lasciando intorno figli naturali.
Sebastiano
non era il più vecchio della compagnia, anzi, ma già lo avvertivamo come il più
navigato, l'esperto. Gli conferiva quest'aura una precoce appartenenza al
"gruppo 63". Così lo vivevamo come apripista e guru. Riservato a
Raffaele Perrotta il ruolo di critico e professore. Il grande piemontese
Accattino, financo un poco sabaudo, appariva il risolutore, il bomber
incaricato di risolvere la situazione andando in pubblicazione piuttosto che in
goal.
Ogni
tanto Sebastiano mi chiamava "l'assessore" (ero presidente delle Acli
regionali della Lombardia), ma con divertita simpatia.
Riuscimmo
a mettere in piedi anche qualche convegno presso amici periferici e amatori
d'arte, convegni che regolarmente includevano una parte conviviale. "Pianura" non mancava di umori
materiali, e fu proprio Sebastiano Vassalli a estrarre da Rabelais
un'invocazione che alludeva a un programma:
"Amo l'ortolano,
perché ha un piede per terra e l'altro non molto lontano".
Giovanni Bianchi con Adriano Accattino |
Un corpo a corpo con il
nulla
C'era
a mio avviso una modalità del credere in Sebastiano Vassalli che si esercitava
a sua insaputa. Della cultura sessantottina condivideva senz'altro l'ansia di
liberarsi del padre. Una figura addirittura esecrata e bistrattata. In una
delle ultime interviste su "la Repubblica" lo definì, con un ritratto
alla Ligabue, "Il Merda". Un modo per prendere congedo dai legami e
dalle loro ipocrisie, che tuttavia, pur accompagnandosi a un'attitudine
scorbutica, non lo sequestrò all'amicizia e agli affetti. Quel che lo
interessava era la parte concava e nascosta della realtà. Quella faccia che non
piace e che a lui piaceva indagare.
Si
può guardare anche all'eden partendo dal serpente, senza esprimere per questo
un giudizio affrettato sull’eden. Per questo mi aveva affascinato il suo primo
libro pubblicato da Einaudi, Tempo di
màssacro, con l’accento colto e opportuno al punto giusto. Vi avevo letto
un ritorno al tempo di Machiavelli e alla sua tragica grandezza. In fondo Sebastiano
non ha più mutato da allora il punto di vista. A questo è rimasto fedele con
una fede, sempre nuda, e comunque accompagnata ogni volta da un nuovo corteo di
ombre.
Il
ritorno alla storia, alla ricerca dell'antropologia di questi italiani messi a
vivere su una penisola troppo lunga e troppo bella, è stato l'itinerario
fortunato ed eloquente (perfino magisteriale) di tutto il lavoro narrativo di
Sebastiano Vassalli.
Non
si scrive per pubblicare e per prendere parte in qualche modo alla Repubblica
dei dotti. Si scrive per scavare, per capire, per autointerrogarsi, avendo
chiaro che, neppure nella stagione della società liquida e della politica
gassosa, la vigilanza della critica può essere manomessa e soprattutto
l'autocritica non può venire ridotta, neppure dalle giovani e vincenti
generazioni, a critica delle auto.
Ovviamente
Sebastiano Vassalli non è stato il solo a subire il fascino e il risucchio del
nulla. Già il Turoldo ermetico lo inseguiva e, non riuscendo neppure in questo
caso a nascondere la sua fame di assoluto, lo scriveva maiuscolo nei primi
versi.
Sebastiano
il suo nulla (rigorosamente minuscolo) lo ha inseguito tutta una vita, abitando
costantemente in campagne periferiche e buttandosi ogni volta in polemiche
metropolitane, usando il sarcasmo a gogò sui giornali, e arrivando perfino a
prendere le distanze da don Lorenzo Milani, probabilmente colpevole di
ricaricare, con grande cultura semitica, la figura del padre, e soprattutto di
un padre riuscito e innovatore.
Il
nulla di Sebastiano Vassalli è dunque ogni volta accompagnato dal suo corteo di
ombre. Ombre storiche. Ombre rese sanguigne, macerate o corpulente non importa.
Sofferenti. Enigmatiche. Perché anche le ombre soffrono e costruiscono e
risolvono enigmi esistenziali. Si tratti di Dino Campana o si tratti di una
strega di nome Antonia.
Sebastiano
le sue ombre le cercava soprattutto nella storia del Seicento italiano del
Settecento. Le rivestiva di fantasmi credibili. (Hanno un'ombra propria anche i
fantasmi?) A suo modo dunque credeva nel nulla. Per questo lo inseguiva e gli
dava il gesto e le voci, non raramente esagerando. Ma ci sono pagine e c'è una
letteratura di indagine che volutamente ignora la misura. E anche quando nel
rush finale di una malattia troppo crudele e troppo veloce ha concluso i suoi
giorni all'hospice non ha smesso di sorprendersi e di dirlo. Perché intorno
all'odio aveva molto scritto. E adesso la cura e la bontà gli venivano
incontro.
Perché
i volti non sono mai fissati una volta per tutte in un'istantanea e neppure nel
corso delle pagine di un corposo romanzo. E non è vero che la ricerca è inutile.
Neppure per chi crede nel regno delle ombre, le cose non è detto si acquietino.
C'è
sempre una svolta inattesa. Una sorpresa che lo fa arrabbiare. Neppure la
rabbia è sempre triste. Così pure si danno lezioni di vita anche non volendolo.
Come lezioni di scrittura. Come pure non c'è un galateo assegnato né per la
pagina, né per la vita.
Con
lui molti anni fa avevo condiviso una plaquette poetica dal titolo "belle lettere". E ricordo
ancora come bonariamente mi canzonasse e insieme invidiasse scrivendomi:
"Tu che credi ancora nella poesia".
E
però anche lui non aveva mai ceduto all'idea moraviana che la parola dovesse
farsi standard per inserirsi in prodotti commerciabili. Per Sebastiano Vassalli
la Parola restava maiuscola, come nel Vangelo di Giovanni. La Parola sconfigge
il nulla.