COME ERA E DOVE ERA
COMMEDIA DEL TERREMOTO
di Paolo Maria Di Stefano
Come è ormai
abitudine di un numero sempre crescente di persone, almeno una “petite heure” -come dicono i francesi-
due o più volte la settimana quasi tutti noi italiani la dedichiamo alla
lettura della Commedia. Si tratta di una consuetudine che ci fa onore e che è
d’esempio in tutto il mondo. A me recentemente sono capitati alcuni versi che
mi sono parsi di particolare rilievo, in questi giorni di terremoti continui
nell’Italia centrale che sembrano non volerne sapere di smettere di
perseguitare una popolazione se non stremata, certamente sofferente e non poco.
Durante di Alighiero degli Alighieri, in arte Dante, alla conclusione del terzo
canto del suo Inferno (v.130-136), scrive “Finito
questo, la buia campagna - tremò sì forte, che dello spavento
- la
mente di sudore ancor mi bagna. - La terra lagrimosa diede vento, - che
balenò una luce vermiglia - la qual
mi vinse ciascun sentimento; - e
caddi come l’uom che il sonno piglia.”; e, subito dopo, (si fa per dire) in
Purgatorio, XX (v.127-141) descrive il terremoto che scoteva la montagna “quand’io senti’, come cosa che cada, - tremar
lo monte; onde mi prese un gelo -
qual prender suol colui ch’a morte vada. - Certo non si scotea si’ forte Delo - pria che Latona in lei facesse il nido - a parturire li due occhi del
cielo. - Poi cominciò da tutte parti
un grido - tal, che il maestro inverso me si feo, - dicendo non dubbiar mentr’io ti guido. - Gloria in excelsis tutti Deo -
dicean per quel ch’io da vicin
compresi, - onde intender lo grido si poteo. - Noi stavamo immobili e sospesi
- come i pastor che prima udir quel canto, - fin che ‘l tremar cessò ed el compiési.”
Nel
rileggere gli endecasillabi che avevano tormentato la mia giovinezza e attorno
ai quali e non solo avevo trascorso ore di pura disperazione, ho avuto come una
folgorazione: tutto ho capito non solo sul terremoto ultimo, ma anche e forse
soprattutto sul comportamento dei comunicatori, dei profeti, dei ricostruttori,
dei Politici e, in modo indiretto, dell’animo delle vittime quando l’evento è,
appunto, un terremoto. Poiché non mi è possibile elaborare un poema di
interpretazione -non tanto e non solo per incapacità, quanto per
indisponibilità dello spazio e del tempo da dedicare a quello che non potrebbe
che essere un poema bis- meglio, in lingua d’ultima generazione, una Commedia
2.0-, devo limitarmi ad una sintesi estrema, sperando di danneggiare la
chiarezza al minimo fisiologico. Il Sommo Poeta che tutto conosce dell’aldilà
-e di conseguenza dell’aldiquà- è certo che i terremoti null’altro siano se non
il soffiare impetuoso di un vento che scuote la terra dalla quale è generato
preferibilmente di notte e in compagnia di fuochi e di fiamme. Meglio se
accompagnato anche da una forte pioggia. Che di per sé giustifica in buona
parte quel detto popolare che parla di “guaio di notte” per indicare il peggio
del peggio. E che è più o meno esattamente quanto accade in genere ed è
accaduto recentemente nelle terre del Centro Italia, dove quasi nulla ha retto
alla furia degli elementi. La circostanza che il terremoto sia un forte vento
tra l’altro suggerisce il dubbio che sia questa la ragione per la quale mai
promessa di ricostruzione fu mantenuta e probabilmente mai lo sarà, concetto
espresso in meravigliosa sintesi dall’espressione assolutamente generale
“parole al vento” che nello specifico significa che quanto viene proclamato,
detto, promesso, giurato quando ha per oggetto i terremoti è nutrimento del
vento e del vento segue le sorti: s’en va più o meno rumorosamente null’altro
lasciandosi dietro che indistinti rumori neppure comprensibili più che tanto a
far da compagnia alle rovine.
Soprattutto quando dovessero essere, quelle
parole, risposte a precise domande, simili a queste: Ai danni attribuiti ai
terremoti negli ultimi anni in quasi tutta l’Italia, in Sicilia come in
Abruzzo, nelle Marche, nel Lazio, in Umbria non si potrebbe in qualche modo
porre un minimo di rimedio dirottando (anche) i fondi previsti per la ormai
mitica costruzione del ponte? E il farlo non creerebbe posti di lavoro? E non si
potrebbe immaginare un sistema di manutenzione del territorio (e delle
costruzioni e dei monumenti e delle opere d’arte) in grado non di prevedere i
terremoti, ma certamente di limitarne i danni? E obbligare a costruire con quei
seri criteri antisismici di cui non mancano esempi nel mondo in una con
l’istituire un sistema di controllo su ogni e qualsiasi intervento umano, causa
prima di quei danni? Non si potrebbe, ad esempio, impedire l’uso del
polistirolo al posto del cemento armato? E non si potrebbe, sempre per esempio,
intervenire nella produzione di quest’ ultimo in modo che non si riveli sabbia
appena mascherata? No? Ma perché? Perché no.
E
soprattutto: dopo ogni terremoto non si perde occasione per rassicurare gli
abitanti delle località distrutte che tutto sarà ricostruito come era e dove
era. Certo, in tempi non brevissimi, ma tutto tornerà come prima. Intanto, ci
si rassegni a passare il tempo che è necessario nelle tende, sapendo che tra
sette-otto mesi saranno pronte casette di legno più confortevoli, nelle quali
ci si potrà persino curare delle polmoniti guadagnate nell’inverno imminente,
attendendo con fiducia quel “dove era e come era”, paradigma delle
impossibilità. Certo, le promesse la Politica deve farle. Perché? Perché sì.
Altrimenti, che Politica sarebbe? E deve anche mantenerle? No. Perché? Perché
no. Altrimenti, che Politica sarebbe? L’uso nella retorica del perché sì e del
perché no meriterebbe ben altra trattazione, e non è detto che sul tema non si
ritorni. Qui basti ricordare che perché sì e perché no sono il massimo delle
risposte “conclusive”, quelle che troncano e chiudono ogni argomento. Ma c’è di
più, forse ignorato o forse - e sarebbe cosa peggiore - ben conosciuto almeno
dai nostri Politici.
Il
terremoto che scuote il monte del Purgatorio è dovuto alla circostanza che la
terra si muove ogniqualvolta un’anima -scontata la pena prevista- viene assunta
in Paradiso. In questo caso, al fragore proprio del fenomeno si aggiunge quello
del canto del “Gloria” intonato da una sterminata moltitudine di coristi. E
dunque, i Politici che tutto sanno e che hanno a cuore il benessere della
umanità intera (o almeno quello della propria gente) sono talmente certi che un
terremoto sia il benvenuto da esaltare come un successo il numero delle vittime:
i trecento morti dell’ultimo terremoto sono quei privilegiati che hanno
raggiunto un mondo ed una vita migliore di gran lunga di quella trascorsa in
uno qualsiasi dei paesi e delle città colpite. E in quanto privilegiati, si
aggiungono alle schiere delle vittime dei terremoti del Belice, di quello
dell’Aquila, di quello del Friuli, di quello dell’Irpinia…
Chi
siamo noi -si chiedono i Politici- per privare quelle persone della eterna
felicità, cosa che inevitabilmente accadrebbe se non solo fossimo in grado di
prevedere il terremoto, ma anche e forse soprattutto se ci preoccupassimo di
costruire e manutenere con sani ed onesti criteri antisismici le costruzioni?
Ancora: noi spendiamo risorse ingenti proprio per cercare di prevedere i
terremoti e per tentare di imporre la costruzione di edifici con criteri
antisismici, anche frutto di studi impegnativi quanto costosi. Ebbene: sono
soldi gettati al vento. Perché Dante ha ragione: il terremoto altro non è che
vento della terra. Ma la gente che questo non sa deve credere in una azione
concreta da parte nostra, e dunque qualcosa bisogna pur fare! Con l’aiuto di
padre Dante, magari, di cui i più attenti di noi ricordano quel “Gloria in excelsis tutti Deo- dicean per quel ch’io da vicin compresi,- (…).
E,
concludono i Politici, a prova di interesse e di creatività, e di cultura,
dappoiché il popolo canta veramente male, soprattutto in Chiesa durante le
funzioni, proponiamo di istituire nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle
università corsi obbligatori di canto corale: quel Gloria evocato da Dante sarà
sì, allora, anche per noi inno di gioia e gioverà all’immagine di una Italia
efficiente, creativa e moderna. Ovviamente, il Politici non sono i soli a
preoccuparsi del bene della nazione e dunque anche dei terremotati. In
quest’opera più che meritoria sono aiutati dagli operatori della comunicazione,
tutti, senza distinzione di mezzi.
Questi,
i comunicatori di professione, in base al sacro principio che, dopo un po’ di
tempo, i fatti non fanno più notizia, tendono a far scendere il silenzio, anche
pietosi e preoccupati di non girare il coltello nelle piaghe delle vittime. In
questa opera assolutamente meritoria incontrano, però, la non collaborazione
della natura la quale, quando meno te l’aspetti, si muove di nuovo e costringe
i comunicatori a prendere atto che la terra trema ancora. Ovvio che, dal
momento che pare sia obbligatorio “stare sulla notizia”, il giornalista è quasi
costretto a parlarne e scriverne, ma questo fa sempre più mal volentieri. E non
perché, come si potrebbe pensare, “la notizia è ormai vecchia e priva di
attrattiva”, quanto perché avvertono la forza di un altro dei principi su cui
si basa la psiche umana: occhio non vede, cuore non duole. Meno se ne parla,
più vicine sono la rassegnazione e la pace. E un popolo rassegnato e in pace è
senza dubbio un popolo felice. Tutto questo è stato colto e descritto non solo
meglio delle mie parole, ma di ogni e qualsiasi discorso, da questa fotografia
scattata da me nel 1992, a circa trenta anni dal terremoto che distrusse
Gibellina. Narra del risultato dell’impegno di ricostruire la cittadina “come
era e dove era”, ed è memoriale delle speranze della gente. Ancora una volta,
la concretizzazione di uno dei sacri principi fondamentali della Politica: mettiamoci
una pietra sopra.