PRAGA '68 E LE CONTRADDIZIONI DELLA SINISTRA
ITALIANA
di Franco Astengo
Mi auguro sia permesso avviare
questo intervento con un ricordo personale. Ero a casa, in ferie forzate perché
l’ufficio stava chiuso una settimana (chi mi ha conosciuto sa quanto non mi
siano mai piaciute le ferie). Le 5,30 del mattino: mio padre si stava
preparando per il turno in fabbrica e ascoltava, come sempre, la radio. Ad un
certo punto irruppe nella stanza che dividevo con mio fratello ed esclamò
(tutto il dialogo rigorosamente in dialetto, naturalmente): “I russi hanno
invaso Praga”. Mi alzai
seguendolo ad ascoltare il notiziario: camminavo nervosamente su e giù per la
cucina e ad un certo punto, mentre stava per uscire di casa, lo appellai
perentorio. “ Papà, questa volta rompiamo con Mosca"
21 Agosto
1968: i carri armati del Patto di Varsavia entrano a Praga, spezzando
l'esperienza della “Primavera”, il tentativo di rinnovamento portato avanti dal
Partito Comunista di Dubcek.
1968: l'anno
dei portenti, l'anno della contestazione globale, del “maggio parigino”, di
Berkeley, Valle Giulia, Dakar, della Freie Universitaat di Berlino: quell’anno
magico vive in quel momento la svolta verso il dramma. Si chiude bruscamente un
capitolo importante nella storia del '900.
Come mi accade
ogni anno, e a rischio di apparire assolutamente ripetitivo, mi permetto di
disturbare un certo numero d’interlocutrici e interlocutori per ricordare i
fatti di Praga. Una riflessione sui risvolti che quell'avvenimento ebbe sulla
sinistra italiana: si compirono, in quel frangente, scelte che poi avrebbero
informato la realtà politica della sinistra italiana per un lungo periodo.
Prima di tutto l'invasione di Praga spezzò lo PSIUP: a distanza di tanti anni
possiamo ben dire che si trattò di un fatto politico importante. Il partito,
rappresentativo dell'esperienza della sinistra socialista che aveva rifiutato
nel 1963 l'esperienza di governo con la DC, aveva appena ottenuto (il 19
Maggio) un notevole risultato alle elezioni politiche (il 4,4% dei voti con 24
deputati) e su di esso si era appuntata l'attenzione di molti giovani che
avevano cominciato a ritenerlo l'espressione di un avanzato rinnovamento a
sinistra.
Lo PSIUP si
spaccò in due, da un lato il vecchio gruppo dei “carristi” approvò
incondizionatamente l'invasione con toni da antico Comintern (come nessun altro
settore della sinistra italiana, usando un’enfasi non adoperata neppure dalla
corrente del PCI vicina a Secchia); dall'altra esponenti di spicco del
“socialismo libertario”, epigoni della lezione di Rosa Luxemburg, come Lelio
Basso si misero da parte; ma soprattutto furono i giovani, al momento
protagonisti del '68, a ritrarsi. Lo PSIUP iniziava così la china discendente,
che sarebbe culminata nell'esclusione dal Parlamento con le elezioni del 1972:
un evento ripetiamo di un peso rilevante sulle future sorti della sinistra, in
particolare al riguardo delle possibilità di aggregazione, iniziativa politica,
capacità di rappresentanza di quella che sarebbe stata la “nuova sinistra” di
origine sessantottesca. Il peso più importante, però, della drammatica vicenda
praghese ricadde, ovviamente, sul PCI. Il più grande partito comunista
d'Occidente si trovava, in quel momento, in una fase di forte espansione
elettorale (il 19 Maggio aveva raccolto 1.000.000 di voti in più rispetto
all'Aprile 1963) ma in difficoltà organizzativa, in calo d'iscritti, non avendo
ancora superato il trauma dell'aver svolto un congresso inusitatamente
combattuto come l'XI del 1966, il primo celebratosi dopo la morte di Togliatti,
e contrassegnato dallo scontro (ovattato, ovviamente, com'era costume
dell'epoca, ma vissuto intensamente in una larga fascia di quadri) tra le
ragioni di Amendola e quelle di Ingrao.
Inoltre il
quadro europeo appariva alquanto problematico: il PCF appariva scosso
dall'impeto del Maggio e si rinchiuse in una rigida ortodossia, PCE e PCP erano
piccoli partiti ancora clandestini, la Lega dei Comunisti Jugoslavi obbedì,
ovviamente, alla ragion di stato. La notizia dell'invasione piombò su di una
deserta Roma agostana: i principali dirigenti del PCI erano in ferie, tutti al
di là della cortina di ferro. Unico componente della segretaria presente in
sede era Alessandro Natta che, in tutta fretta e con i mezzi dell'epoca,
contattò gli altri compagni, per varare un documento, la cui prima stesura fu
affidata a Giorgio Napolitano, che suonò immediatamente come un punto molto
avanzato di condanna dell'invasione.
Tralasciamo,
per brevità, la narrazione del fortissimo dibattito che si scatenò subito, alla
base del partito, nelle sezioni, nei comitati federali di tutte le province: un
dibattito dove si registrarono anche elementi di netta contrapposizione e di
insofferenza, da parte dei settori più arretrati del partito, verso quelle che
sembravano le scelte del vertice. Inoltre il PCI era chiamato a difendere le
posizioni di apertura tenute verso il nuovo corso cecoslovacco: qualche mese
prima si era svolto, infatti, un incontro tra Longo e Dubcek.
I problemi
maggiori, come era prevedibili, vennero dall'esterno e, più precisamente,
dall'URSS: la pressione del PCUS per un arretramento nelle posizioni dei
comunisti italiani e, semplificando al massimo, un vigore di dibattito che
ripetiamo risultò altissimo e del tutto inedito per la vita del partito, si
arrivò, dopo un incontro Cossutta- Suslov avvenuto a Mosca a una sorta di
rientro nell'alveo. Di quale alveo si trattava?
Il PCI,
nella sostanza, si assestò all'interno dei confini della linea tracciata da
Togliatti, dopo il XX Congresso del PCUS e l'invasione dell'Ungheria del 1956.
Il PCI, alla
fine di quell’aspro confronto interno, parve rinunciare addirittura a
sviluppare la capacità che lo stesso Togliatti aveva avuto nel definire
un’autonomia tale da metter in ombra il materialismo dialettico sovietico,
fornendo la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo”
aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” e
difendendo, infine, nel clima ideologico della guerra fredda, la continuità
della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione
di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni
genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.
Non fu
sviluppato, in quel momento, dal gruppo dirigente del PCI il filo rosso che
legava l’intervista a “Nuovi Argomenti” del 1956 al Memoriale di Jalta, che
pure Longo aveva avuto il coraggio di pubblicare.
Alla base
della linea assunta, alla fine, dal PCI c'era ancora la convinzione secondo cui
il modello sovietico, essendo collegato alle condizioni di arretratezza e di
accerchiamento in cui si era sviluppata la rivoluzione russa, era destinato a
evolvere verso la democratizzazione nella misura in cui si fosse compiuto il
processo di industrializzazione, urbanizzazione e alfabetizzazione e nella
misura in cui fosse avanzato il processo di distensione internazionale. Ancora
più a fondo, c'era la convinzione che l'autoritarismo politico e la
centralizzazione amministrativa, nei paesi dell'Est, fossero fenomeni
prevalentemente istituzionali, rappresentassero un ritardo e un’incongruenza
della sovrastruttura rispetto alla struttura.
Il gruppo
dirigente sovietico rimase così l'interlocutore come protagonista necessario di
una riforma graduale. Tale posizione fu mantenuta fin ben dentro alla segreteria
Gorbaciov.
Torniamo a Praga’68:nessun altro soggetto,
anche del dissenso comunista, seppe rispondere adeguatamente su questo terreno:
né trotzkisti, né maoisti, né terzomondisti.
Soltanto in
alcuni settori della socialdemocrazia di sinistra (cui si accostarono, in
seguito, esuli della primavera praghese riparati in Occidente) si registrarono
fermenti rivolti nel senso di una ricerca più avanzati, ma il Partito
Socialista di allora era troppo impegnato nella “politique d’abord” e nel
definire l’area di governo per riprendere quei temi e farne oggetto di una vera
riflessione rivolta verso sinistra .
Anche quei
fermenti della sinistra risultarono assolutamente marginalizzati così come già
in passato non avevano trovato spazio le riflessioni di Panzieri e dei
“Quaderni Rossi”.
Al PCI non
arrivò, in quel punto, da parte del Partito Socialista (in quel momento ancora
unificato) nessuna offerta di effettivo respiro al riguardo dell’avvio di sedi
di riflessione comune.
Probabilmente,
anzi sicuramente, i tempi del dibattito politico non erano assolutamente maturi
(in realtà non lo erano neppure dieci anni dopo, nel 1978, quando come
Manifesto-PdUP organizzammo a Venezia il primo convegno sul dissenso all’Est
sotto il titolo “Potere e opposizione nelle società post- rivoluzionarie),
tenuto conto anche che nel Partito Socialista stava maturando la crisi
dell’unificazione socialdemocratica a seguito del negativo risultato elettorale
del Maggio di quell’anno.
Nel PCI si
registrò, invece, un confronto inedito che diede origine a un aspetto
particolare di quello che, poi, per molti anni fu denominato “caso italiano”.
Un gruppo di
intellettuali che, nel corso dell'XI congresso avevano sostenuto le posizioni
di Ingrao, aveva via, via, elaborato posizioni autonome in contrasto netto con
la direzione del Partito, dando anche vita a una rivista teorica ”Il
Manifesto”, promotrice di un ampio dibattito e seguita con molto interesse
anche da settori esterni al PCI.
Tralascio,
ovviamente, anche la narrazione di questa vicenda perché si tratta di un'altra
storia, del resto ben conosciuta, per limitarmi alle posizioni che si
espressero sulla vicenda cecoslovacca in contrasto con quelle ufficiali. Le
posizioni del “Manifesto” partivano dalla considerazione che ripetere “vogliamo
il socialismo nella democrazia”, magari aggiungendo che democrazia come
continua espansione dell'iniziativa dei più non bastava. Era necessario,
invece, partire dal dato che nei paesi del “socialismo reale” ci si trovava di
fronte alla restaurazione di una società di classe, e che lì stava la radice
dell'autoritarismo.
Bisognava
interrogarsi sul come mai questo dominio di classe non potesse permettersi il
lusso quantomeno di un pluralismo di facciata, e avesse bisogno di un
soffocante apparato repressivo e di un’ideologia autoritaria, che pure gli
creavano non pochi problemi.
Anche i
futuri protagonisti della vicenda del “Manifesto” impostarono però il confronto
in termini politicisti (scivolando tra l’altro su duna certa “considerazione”
al riguardo della rivoluzione culturale cinese), non riuscendo ad allargare il
fronte e far diventare le loro ragioni organicamente parte di un dibattito non
ricollocabile immediatamente, come fece la maggioranza del PCI, in una logica
da “frazione esterna”.
Non risultò
così neppure all’altezza di quel confronto il punto di dibattito apertosi fin dal momento della
scomparsa di Togliatti e che ebbe nella vicenda cecoslovacca il suo acme (fino
alla pubblicazione dell’articolo “Praga è sola” sulla base del quale scattò il
meccanismo concreto dell’esclusione dal partito) ad iniziativa di quella che
poi sarebbe stata definita “sinistra comunista”: iniziativa avviata
essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri che
non riuscì però ad aprire il varco necessario nella logica complessiva di un
dibattito di massa.
Al PCI, alla
sinistra occidentale, sarebbe toccato rispondere compiendo uno sforzo serio per
alimentare e organizzare, in un progetto consapevole, la proposta alternativa
della classe operaia, traducendo gli elementi più avanzati, più radicalmente
anticapitalistici presenti nei bisogni e nei comportamenti di massa in
modificazioni reali dell'economia, dello Stato, delle forme di organizzazione,
così che l'egemonia operaia potesse crescere e consolidarsi nella realtà, non
nel cielo della politica, o all'interno delle coscienze, e soprattutto potesse
via, via, vivere come dato materiale.
Per far
questo sarebbe stato necessario assumere, nei confronti del blocco sovietico un
atteggiamento di lotta politica concreta, prendendo atto che ormai era senza
senso pensare a un’autoriforma del sistema.
Solo la
crescita di un conflitto politico reale, di un'opposizione cui dar vita
dall'interno del movimento comunista internazionale, avrebbe potuto costruire
un'alternativa.
Queste
posizioni, sommariamente ricordate in questa sede, risultarono sconfitte.
Non è
ovviamente nostra intenzione ricostruire la storia con i se e con i ma: il
nostro giudizio è quello che la scelta maggioritaria assunta dal PCI in quel
cruciale tornante della storia causò il formarsi di alcune contraddizioni di
fondo che, ancor oggi, risultano operanti, come si diceva all'inizio.
Proprio il
mancato superamento di quelle posizioni ancora interne alla logica del XX
Congresso e presenti in dimensione rilevante nel PCI al momento della caduta
del muro di Berlino, nel 1989 e nonostante alcuni seri tentativi compiuti nella
metà degli anni'70 dalla segreteria di Enrico Berlinguer (segretaria
accantonata, nei suoi contenuti di fondo, dai “nuovisti” non tanto per i tanti
e gravi errori politici commessi nel corso della sua gestione, ma per l'accusa
di “moralismo”), consentirono agli “ultras estremisti” (ricordate ci sono anche
gli estremisti di un presunto moderatismo; scambiato con la subalternità e la sudditanza
psicologica nei confronti delle posizioni dell'avversario da unire alla
bramosia di essere “ricevuti a palazzo”) del PDS e poi del PD di cacciare via
l'intera tradizione ideale, storica, politica dell'area comunista italiana e di
trasformarsi in una semplicemente componente del “cartel party” che agita,
inutilmente, il teatrino televisivo e salottiero della politica italiana.
Aver mancato
una vera e battaglia politica su Praga'68 causò, quindi, nel PCI una crisi
(apparentemente soffocata dai grandi successi elettorali del partito negli
anni'70) che esplose vent'anni dopo e agisce, ancor oggi, nella totale deriva
che la sinistra italiana sta subendo sulla strada della sua estinzione quasi
compiuta e rappresenta, purtroppo, un elemento di freno nella possibilità di
riaprire una discussione seria su una prospettiva di sinistra capace di
raccogliere il meglio dei suoi diversi filoni d’origine.
Praga
rappresentò, insomma, uno snodo fondamentale nelle vicende della sinistra
italiana ed europea. Il PCF, ad esempio,
agì in maniera ben più storicamente arretrata dello stesso PCI, l’SPD rifiutò
l’ospitalità a Pelikan, poi concessa dai socialisti italiani, con queste
motivazioni racchiuse in un’affermazione di Willy Brandt (che aveva
già in mente l’Ostpolitik) “Noi non dobbiamo sostenere gli oppositori ai
Partiti comunisti dell’Est. Non dobbiamo puntare su chi si contrappone
frontalmente al comunismo. Al contrario, dobbiamo favorire una evoluzione
positiva dei partiti comunisti, dialogando con loro e sostenendo al loro
interno le correnti più moderate”. È possibile, in conclusione, che di fronte alla “Primavera di
Praga” e alla sua feroce repressione le parti maggioritarie dei grandi partiti
della sinistra europea occidentale compirono il primo passo di quell’accettazione
del concetto di “fine della storia” su cui si sarebbero poi adagiate vent’anni
dopo alla caduta del regime sovietico e del muro di Berlino.