LA LINGUA RITROVATA
di Angelo Gaccione
Alberto Bertoni
Ero fin
troppo certo che mai in vita mia avrei letto un libro intero sul monitor di un
computer, e questo non tanto perché sono un maniaco della carta stampata (da vecchio
gutenberghiano incallito e incorreggibile), ma perché ho bisogno di reggere il
libro fra le mani, sfogliare le pagine, e soprattutto segnare i passaggi più
significativi, una frase magnifica che illumina la pagina d’improvviso, un
aforisma o un verso che si vuole salvare per fissarselo meglio e incancellabile
nella memoria. E poi non posso rinunciare al mio mozzicone di matita rosso-blu
che mi porto appresso per tutte queste operazioni. Lo faccio da quand’ero
giovanissimo, ed è diventata nel tempo una irrinunciabile abitudine. E invece è
accaduto ed ho derogato. L’e-book di Alberto Bertoni pubblicato dalla Casa
Editrice Marietti che mi è arrivato in pdf, ha un titolo che non poteva non
sedurmi: La lingua ritrovata. Non è un trattato di linguistica, i
lettori si rassicurino; in realtà è un robusto segmento dell’esistenza
dell’autore, raccontato attraverso la figura paterna, il sanguigno e gioviale
socialista modenese Gilberto Bertoni che gli amici chiamano affettuosamente
Gil. Il sottotitolo, del resto, è chiarissimo e così recita: “Storia di mio
padre e del suo Alzheimer”. Il riferimento a questa patologia neurologica
invalidante e degenerativa, ci dice del gorgo in cui un essere umano precipita,
e con esso quanti ne sono coinvolti a livello affettivo e familiare. “All’inferno”,
titola giustamente Bertoni il capitoletto che dedica a questo tragico evento
che colpisce suo padre nel 2001, ed è un inferno da cui si esce devastati.
Alberto Bertoni |
Modena poetica
Ne so qualcosa per esperienza personale,
e non è possibile neppure lontanamente immaginare che cosa succede nei vostri
visceri, nel vostro equilibrio, quando vi svegliate un mattino e vostra madre
non vi riconosce più, non ha più alcun interesse per la vostra vicinanza e vi
considera addirittura una persona ostile, un estraneo molesto. La sua memoria
all’improvviso non c’è più, è volata via risucchiata come da un vortice. E
siete costretti a guardarla a vista, a nascondere le chiavi di casa, perché può
capitare che in piena notte si alzi e tenti di aprire la porta e vagare per le
vie. “Tu non sei mia figlia, vattene!” diceva sua madre a mia cognata, la sua
prima adorata figlia per la quale stravedeva e s’era levato il pane di bocca,
come si dice dalle mie parti. Un calvario durato anni, una quotidiana
umiliazione che ha influito non poco sulla prematura scomparsa di questa mia
sfortunata cognata. “(…) L’elemento davvero spiazzante e in fondo
irredimibile è stato l’immediato, pervicace rifiuto di mio padre a riconoscermi
figlio (l’unico
figlio, per di più!)”; è uno dei passi drammatici del capitolo citato del
libro di Bertoni. Ma il poeta aggiunge un elemento in più a questo rifiuto, a
questa distanza, l’uso esclusivo dell’idioma modenese del padre, “(…) c’era
un segnale definitivo, in questo senso, vale a dire il suo parlarmi in dialetto
modenese. Rigorosamente dialettale con gli interlocutori extrafamiliari,
pallavolisti o ferraristi che fossero”. E ancora: “(…) dopo il 2001 e fino
alla sua morte, nelle nostre passeggiate alzheimeriane, lui mi parlava in dialetto
modenese, idioma che comprendo benissimo ma che non riesco a sillabare né
tantomeno a scrivere se non – prima – traducendo mentalmente dall’italiano,
come in inglese o in francese: ed era il segno che mio padre proprio non identificava
in quel suo accompagnatore quotidiano l’amatissimo figlio maschio…”.
Modena. Centro storico e Ghirlandina
I conoscitori della poesia di Bertoni sanno che egli è tornato sul tema dell’alzheimer in molti testi poetici, e che la figura del padre è presente in buona parte della sua interrogazione. Una materia così incandescente e privatissima con cui non avrebbe potuto non fare i conti, come figlio e come scrittore. L’alzheimer è una patologia molto più diffusa di quanto noi pensiamo; sono rimasto annichilito nel leggere, non molto tempo fa, che alla metà di questo nostro secolo, una persona su 85 in tutto il mondo sarà colpita da questo morbo. Una cifra spaventosa e che è destinata a comparire in età sempre più presenile. Non è stato facile per me, dopo aver simpatizzato con la figura di Gil Bertoni che il figlio ci racconta, e la sua tragica parabola, stendere questa nota. Cinquant’anni di lavoro alla Ferrari, socialista, sportivo, vitale, popolano, e, soprattutto, custode e orgoglioso della sua lingua dialettale. Lingua dialettale che in molti luoghi è già scomparsa o è destinata a divenire una lingua perduta, come ho avuto modo di dire e scrivere in tante occasioni. Sarebbe bastato questo suo uso dialettale della lingua a rendermelo simpatico. Chissà se i tentativi dialettali del figlio poeta non siano il modo più giusto di “ritrovarlo” questo padre scomparso; ritrovarlo in questa lingua delle radici, dell’autenticità, in fondo un modo per non sentirsi orfano del tutto. L’ho provato sulla mia pelle questo vuoto, se ho potuto scrivere in un tempo che si avvia verso la vecchiaia, versi come questi: Di te non voglio che ricordare il lutto / che mi ha reso orfano. / Il vuoto che ho provato all’improvviso / d’essere solo al mondo. / Ero padre anch’io, / ma me ne accorsi, / quando persi te.
Modena poetica
A
me, la lingua dialettale, la lingua madre, è venuta a cercarmi in età tarda.
Contrariamente a Bertoni, io quella lingua l’avevo sempre parlata, ne ero
impastato, anche se in scrittura me ne ero tenuto alla larga e avevo dissuaso
anche i miei amici letterati. In parte per le difficoltà, in parte perché ero
stato influenzato da letture carnascialesche, ironico-satiriche, da un suo uso
declinato spesso in chiave erotica. Ero stato depistato e non me ne ero servito
che per qualche efficacissimo modo di dire, per qualche tagliente proverbio.
Fino a quando nel 2017, in un tempo contratto e in un delirio creativo, i trenta
testi di Lingua mater non hanno rotto ogni argine e sono voluti uscire
prepotentemente in lingua dialettale. Il VI e VII componimento di questa
raccolta mi hanno mostrato a dismisura, come invece quella lingua non avesse
nulla da invidiare, in poesia, a quella che Bertoni chiama la lingua del sì.
E come avrei potuto usarla su un versante diverso e più profondo.
“Mi
sugnu sempri chiestu / s’a dingua nostra sa candèari u doduru. / Sudi chilli
su’ lingui – e suni degni - / e stèari supra a faccia e du munnu. / Anchi si
cchiù spissu, / u doduri ‘u ndeni lingua”.
Mi
sono sempre chiesto
se
la nostra lingua sa cantare il dolore.
Solo
quelle sono lingue
-
e sono degne -
di
stare sulla faccia della terra.
Anche
se più spesso
il
dolore non ha lingua.
“Pu
mi signu dittu: / tutti d’uomini suòffrini, / tutti d’uomini
mùorini / in ugn’è ppart’e du munnu, / in ungn’e àncudu e terra, / i
parodi si’ tu / chi ll’e trovèari. / Ssa verità m’apierti d’uocchi. / Dodùri…
/ sentiti cum’è densa ssa paroda. / dodùri… dodùri… doduri… / ’U nni
sèrbanu àvutri”.
Poi
mi sono detto:
“Tutti
gli uomini soffrono,
tutti
gli uomini muoiono,
in
ogni parte del mondo,
in
ogni angolo di terra,
le
parole necessarie
devi
trovarle tu”.
Questa
verità mi ha aperto gli occhi.
Dolore…
Sentite
com’è densa questa parola.
Dolore…
dolore… dolore…
Non
ne servono altre.
Scorcio del quartiere della Pomposa
Dunque,
io penso che Bertoni debba continuare a scrivere versi nella sua lingua paterna
(la mamma non gliel’ha trasmessa, maestra di scuola elementare, rifuggiva il dialetto
modenese come la peste. Il fascismo, del resto, aveva stupidamente in odio i
dialetti), perché i versi che ha proposto in questo libro prendono alla gola.
Scorcio del quartiere della Pomposa |
Mè
e mê pèder
Stasìra
a tìra un vèint catìv
ch’a-l
desquàcia léngua e vistî
e
a-n vól ch’a famm
gnànch
’na ciacarèda, un gir
Mè,
da la mê fnèstra srèda
a-gh’ho sôl la colpa d’éser vìv
mèinter
a guèrd la Pumpó∫a ba∫èda
da
sta lù∫ nóva ed temporèl, ch’la spècia
un
èter dè finî.
Me
e mio padre
Stasera
tira un vento cattivo / che scopre lingua e vestito / e non vuole che facciamo /
neanche due chiacchiere, un giro. / Io, dalla mia finestra chiusa, / ho l’unica
colpa di essere vivo, / mentre guardo la Pomposa baciata / da questa strana
luce di temporale, che rispecchia / un altro giorno finito.
Ai
lettori del mio lembo di terra calabrese non sarà sfuggito l’avverbio di tempo
- Stasìra - che apre la poesia di Bertoni. Tale e quale a come lo
scriviamo e lo pronunciamo noi. Magia della contaminazione dei dialetti, a
quasi un migliaio di chilometri di distanza!
La copertina del libro
Alberto
Bertoni
La
lingua ritrovata
Storia
di mio padre e del suo Alzheimer
Marietti
1820 Ed. digitale 2020
Pagg.
40 € 2,99
La copertina del libro |