Libri
L’INCENDIO DI ROCCABRUNA
di Chicca Morone
Chicca Morone
Nei
bei tempi in cui andavamo in libreria e potevamo “toccare e annusare” i libri -
meglio ancora se consigliati da un libraio che conosceva le nostre preferenze -
L’incendio di Roccabruna ha soggiornato nelle vetrine non solo milanesi,
attirando l’attenzione di un certo tipo di lettore. Quale? Il sofisticato
amante dell’arte che, attratto dall’immagine di copertina, poteva perfettamente
immaginare il contenuto della raccolta di racconti: “Il giardino delle delizie”
di Hieronymus Bosch rappresenta in modo impeccabile il paesaggio non solo
fisico tratteggiato con infinita maestria da Angelo Gaccione. La condanna
dell’abuso di piaceri carnali e l’animalità dei personaggi vivono una felice
simbiosi in entrambe le opere.
L’autore
in 15 quadri dipinge la sua Calabria a cavallo tra Ottocento e Novecento attraverso
l’infinita perfidia di personaggi in cui sopruso, atrocità e violenza sono il
sostrato di un copione dalle radici arcaiche, nel più assoluto disprezzo per la
dignità di contadini e fittavoli.
Surreale,
infatti, è la determinazione all’odio e alla meschineria di chi dovrebbe essere
l’esatto opposto, cioè un riferimento per i meno fortunati; viene invece
rappresentato come vessillo del ruolo contrario, incarnando tutto ciò che “non”
è accettabile.
Racconto
dopo racconto il lettore è costretto a prendere atto che la Giustizia è un
concetto discutibile; che le situazioni di impotenza sono estenuanti e che
possono rappresentare una metafora vissuta da noi tutti quotidianamente.
Non
ci si presenta più il padrone che decide di far valere lo “jus primae noctis”
sotto un malcelato invito ad un banchetto, ma le cronache odierne abbondano di
pressioni e malversazioni da parte di uomini di potere, a cui sembra
impossibile non soddisfare gli istinti più animaleschi, senza un briciolo di
rispetto per la donna.
Nel
paese di Roccabruna si compiono fatti e misfatti a volte vendicati come nel
racconto che dà il titolo alla raccolta, dove don Vincenzo dopo aver fatto
assassinare il padre della bella Nerina (“lei è sangue del mio sangue” non è
risposta che si possa dare a chi pretende di essere padrone di tutto quel che
lo circonda) si impadronisce della ragazza, soddisfacendo le sue voglie; ma il
violentatore subisce violenza e muore nel rogo del suo castello, appiccato da
chi ha raggiunto la saturazione e si erge a difensore di una popolazione oramai
stremata dalla carestia e conseguente fame, mentre nei magazzini padronali i
prodotti erano in esubero.
Anche
nella scelta del nome del luogo Gaccione dichiara la sua appartenenza alla
schiera di coloro che non si accontentano di raccontare episodi e paesaggi
banali: la “rocca” è una costruzione del tardo Medioevo nata per difendere in
modo consistente il castello e “bruna” è il colore che tende verso il nero, un
preludio al lutto attraverso la malinconia.
Ed è come se il
luogo emanasse malinconia e lutto tra faide familiari (Senza spargimento di
sangue non si concede perdono); superstizioni profondamente radicate negli
uomini (Non c’è più rispetto nemmeno per le cose sacre); assedi dove
viene perpetrata ogni scelleratezza; donne chiuse nelle bare ancora vive…
insomma, uno scenario terribile, ma raccontato con tale eleganza da rendere
gradevole il proseguire nella lettura nonostante le immagini per nulla consolanti.
I racconti scritti
tra il 1984 e il 1985 (solo l’ultimo dal titolo “L’uccisione dei cani” porta la
data del 1995), come tutte le opere molto curate stilisticamente e che
descrivono una realtà cruda, concreta, seppure frutto della fantasia
dell’autore, risultano senza tempo e vivono di una luce propria inesauribile, e
coinvolgente a più livelli.
[Da: “Civico
20 News” Torino, 7 dicembre 2020]