RILEGGENDO FUGHE
di Massimo Parizzi
Massimo Parizzi
Caro Velio,
leggere le tue Fughe, come ti ho già
scritto, mi ha fatto piacere, anzi, mi ha fatto bene. Più di una volta, durante
la lettura, mi sono ritrovato a dire a me stesso: finalmente! E ad avere
l’impressione di respirare meglio. Può sembrare strano, considerata la parte
importante che, in tutte le prose, anche se in misura maggiore o minore, svolge
il duolo. Per lo stesso motivo può sembrare strano accorgersi, al termine della
lettura, che i personaggi di questo “romanzo”, persone, natura, arte, sono
tutti personaggi positivi, o che rende positivi l’amorevolezza con cui ne
scrivi (amorevolezza che arriva all’identificazione, come dire “tu potresti
essere me e io potrei essere te”, o meglio, “tu sei me e io sono
te: “Una minuscola manciata di decenni addietro eravamo il medesimo bambino”, Ĉigoĉ).
Ecco i “buoni”: uomini e donne, natura, arte. E i cattivi? Non ci sono. Cioè:
c’è, fin dalle prime pagine, il capitalismo, nei vari nomi, forme ed effetti
che lo individuano. Però non è un “personaggio”, è uno sfondo che, tuttavia,
non sta in fondo, ma davanti, a sinistra, a destra, e soprattutto sopra i
personaggi, a premerli, schiacciarli. Ma, loro, restano positivi: i buoni. Ecco
cosa fa da contrappunto, e contrasto, al duolo.
Poi, ho ritrovato in questi pezzi
un’amica/nemica con cui avevo già cercato di fare i conti leggendo Domani,
la difficoltà della tua narrativa, che viene tutta da omissioni. Non c’è regola
delle cinque W che non violi: who sono “quelli che per un attimo avevamo
pensato di raggiungere, spalla a spalla” e che “erano d’un tratto sbalzati via,
per sempre imprendibili”? Why la “consuetudine” del prendere appunti in
un “minuscolo taccuino” è “a volte temibile”? What “chiudemmo in onore
dell’ospite”? Ma perché in realtà io, come lettore, vorrei sapere queste cose,
se tu non vuoi dirmele? È chiaro, per avere tutto sotto controllo, chiudere il
libro, spegnere la luce e addormentarmi tranquillo. E tu non vuoi che
m’addormenti tranquillo. Le omissioni più “gravi” riguardano però lo when
e lo where. Come in Domani, anche se qui molto meno, salti
allegramente (o dolentemente) da un luogo all’altro, da un tempo all’altro.
A me sembra che il tasso di omissioni
potrebbe essere minore. Ma, comunque, che senso hanno? M’è parso di capirlo: è
questo, mi sembra, un caso esemplare di testo che non “dice”, ma “fa”, com’è
pregio di tutte le opere letterarie vere. Il lettore, leggendo, non si limita
ad ascoltare, ma fa un’esperienza, quella che il testo gli impone (come
d’altronde dici benissimo tu stesso in Lorenzo). E che cosa gli
impongono quelle omissioni? Be’, la rinuncia alla pretesa “reazionaria”
dell’“immediatezza” (di cui parli in La cartella) e alla “strumentalità
immediata” (Lettere), certo, e anche di “piegare il piacere letterario
alla funzione d’inciampo al già saputo” (Marusca). Ma soprattutto, secondo
me, gli impongono un movimento omologo a quello necessario per individuare, e
riconoscere, “un bisogno antropologico che da qualche parte attende ancora di
diventare realtà” (Congedo). Come se quelle “menomazioni” del testo,
quello che nel testo “non c’è”, “ci sfugge”, “ci è sottratto”, addestrassero le
stesse capacità dello spirito che occorre mobilitare per cercare «ciò che non
c’è, che ci sfugge, che ci è sottratto” e che “si cerca perché è una nostra
menomazione” (Sulle domande del lettore). “Un bisogno antropologico”:
sì.
Massimo Parizzi |