LE ESTERNAZIONI DI D’ALEMA
di Alfonso
Gianni
Massimo D'Alema
Il brindisi di fine anno è
stata l’occasione per Massimo D’Alema per ritrovare un protagonismo nel
dibattito politico, che peraltro non aveva mai abbandonato. Anzi se un pregio
lo hanno avuto le esternazioni dalemiane di fine anno è stato quello di alzare
impietosamente il velo sul “piccolo mondo antico” della sinistra. Quelle parole
hanno creato non poca turbolenza su entrambi i versanti, nel Pd e in Articolo
Uno, ovviamente con opposte motivazioni. Saranno gli aderenti a quest’ultima
organizzazione a decidere della loro sorte nelle sedi opportune che siamo tenuti
a rispettare. Ma già prima avevamo compreso, da altre voci, che era in atto un
progressivo sfarinamento di Leu, realtà peraltro già virtuale, arroccata nelle
istituzioni parlamentari ma assente in quanto tale nella società.
Le cause dell’incapacità, o della non volontà, di dare
vita ad una formazione di sinistra autonoma dal Pd, non risiedono solo nella scelta,
con l’eccezione della navicella di Sinistra Italiana, di collocarsi al governo entro
il perimetro draghiano. Ma sono più profonde e più lontane. Lo evidenzia, per
converso, la diagnosi minimalista e quindi sbagliata di D’Alema sul Pd, che
sarebbe stato affetto da una malattia, il renzismo, della quale sarebbe ora
guarito.
In realtà, dalla svolta della Bolognina in poi,
attraverso i vari e significativi cambiamenti di nome e di assetto, abbiamo
assistito a un percorso di fuoriuscita dalla storia del movimento operaio di
questa forza politica. Un approdo ben più grave, credo irreparabile, di una
sterzata a destra della linea politica, che ha portato con sé l’abbandono di
referenti e legami sociali, dell’idea di una trasformazione seppure graduale
della società, di strutture organizzative basate sulla partecipazione degli
aderenti e su un insediamento sociale, per schiacciare le prospettive politiche
sull’aggiustamento del presente, di cui la priorità del governo su ogni cosa è
la manifestazione più evidente.
Ma è inutile negare che questo percorso ha avuto ed abbia
tutt’ora una forza di attrattiva giocata su un malinteso realismo. Questo
processo non poteva essere contrastato, e infatti non lo fu, raccogliendo
semplicemente le antiche bandiere
dismesse. Ma neppure sperando che la spinta di movimenti reali e innovativi
fosse sufficiente per dare vita ad una nuova forza politica della sinistra. I
frequenti appuntamenti elettorali sono stati più d’ostacolo che di aiuto. A
distanza di cinquant’anni il monito della Rossanda contro il “contarsi per
contare” è di bruciante attualità.
Bisognerebbe allora mettere un punto fermo. La
ricostruzione della sinistra non passa attraverso la partecipazione alle
contese elettorali. Anche risultati locali a volte confortanti hanno purtroppo corto
respiro. Di fronte al taglio del parlamento e alla prospettiva tutt’altro che
improbabile, per quanto da contrastare con tutte le forze disponibili, che si
torni a votare con la stessa legge, salvo rimaneggiamenti obbligati, ha davvero
poco senso ripercorrere la strada di un’aggregazione elettorale, per giunta con
un incerto e improvvisato profilo. Del resto più di un’analisi dimostra che il
voto di appartenenza, non solo di testimonianza, ha perso terreno rispetto a
quello di opportunità legata alla possibilità di ottenere qualche risultato
concreto.
Non si tratta quindi di recidere ogni confronto con le
istituzioni. Si possono costruire intese con forze o individualità al loro interno
per il raggiungimento di specifici obiettivi. Ma in primo luogo serve raccogliere
tutte le forze disponibili per avviare un processo costituente di una nuova
forza politica di sinistra. Non si tratta di sommare, ma di riuscire a fare
interloquire i portatori di un pensiero alternativo, siano questi pezzi di
organizzazioni, esperienze di movimento, associazioni o singole
intellettualità. Nessuna miniorganizzazione può proporsi come il centro
propulsore ed egemonico di un simile progetto. Per cui individuare il punto di
partenza non è facile.
Tuttavia la discussione che si è aperta in più luoghi,
come sul Manifesto, ci può aiutare, fornendo un modello di ambito comune, una
sorta di crogiolo, in cui riversare le diverse riflessioni che puntano alla
trasformazione dell’attuale società rifiutandosi di concepire il capitalismo
come la fine della storia, che contrappongano al suo totalitarismo un’altra
idea dialettica di totalità e l’esigenza di dare vita ad un’organizzazione che,
con tutte le innovazioni necessarie, costituisca una massa critica capace di
costruire concreti modi alternativi di vita e di lavoro.
Un percorso indubbiamente difficile – quanto necessario -
perché ci si scontra con un pervicace attaccamento alle storie delle proprie
organizzazioni nell’illusione di ognuno di fare della propria il centro di una
nuova aggregazione più o meno larga. Il guaio è che questo vizio non è
riscontrabile solo nei minipartiti, ma anche nei numerosi cenacoli
intellettuali, spesso ricchi di idee, ma non comunicanti attivamente tra loro.
Ma se non vogliamo che la desertificazione inaridisca definitivamente il campo
di una possibile sinistra, bisogna evitare, come ci ammoniva Franco Fortini, di
essere “materialisti con gli altri e idealisti con noi stessi”.
Massimo D'Alema |