PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
La
logica delle parole.
In linguistica,
secondo il mio modo di vedere, con i termini: prefissi, suffissi, desinenze,
bisogna intendere tutto ciò che si deduce dalla radice. Con la radice (om) ομ i greci dissero:
la creatura rimane (nel grembo o quando nasce) con l’aggettivo (omos) όμ-ός dedussero: simile,
uguale, in quanto con ος, a cui
attribuirono il significato: ciò che lega, completarono la
lettura di un processo del grembo, facendo questa considerazione: dire che la
creatura rimane nel grembo o asserire che resta legata è affermare la stessa
cosa: simile/uguale, in quanto si tratta di una tautologia. Da
sottolineare che gli aggettivi a tre uscite in ος, in latino
in us, acquistano sempre il significato di legare.
Acquisito
questo concetto, dedussero: omologo, nel senso di: corrispondente,
concorde, quindi: (omou) όμ-οῦ, insieme,
nello stesso luogo, in quanto madre e figlio stanno insieme e
nello stesso luogo. Da όμ-ός dedussero: όμ-αλός: uguale, uniforme, conforme, ma anche l’aggettivo όμ-αλής: piano/piana, di superficie uguale, in quanto pensarono al
grembo dopo il parto, quando ritorna piatto; da όμ-αλός ricavarono, con due deduttivi: l’omega e la cosiddetta α privativa,
l’aggettivo a due uscite: ἀν-ώμαλ-ος, che acquisì questi significati: non uguale,
irregolare, incostante, strano, risultanti da questa nuova
perifrasi: (quando) non si genera l’uguale. Pertanto, anomalo,
che, nella lettura del grembo, riguarda ciò che avviene derogando dalle leggi
deterministiche della natura, acquisì, con l’uso, il significato di: difforme
da (dal modello), irregolare. Da anomalo fu dedotta anomalia.
C’è da
sottolineare che: ἀν-ωμαλ-έω, che significa: soffro per le vicissitudini
della fortuna, ha un conio a sé stante, come tutti i verbi in έω, e
contestualizza il momento del travaglio, quando gli accadimenti, non molto
regolari, sono del tutto fortunosi.
Per non farla
troppo lunga su όμ-ός, voglio solo
aggiungere che da questo aggettivo fu dedotto il sostantivo (nomos) ν-όμος νόμου: uso, usanza, prescrizione, regola,
a seguito di queste considerazioni: se la creatura rimane a legare nel
grembo per un periodo prestabilito, dentro (ν/n) questo
concetto si generano: prescrizione, regola, usanza, in
quanto il tempo fisso/regolare di permanenza nel grembo è prestabilito. La
parola omologa a nomos è norma, che è sinonimo di prescrizione
/regola/ consuetudine, per cui la normalità si
riscontra in ciò che abitualmente avviene. I latini da norma dedussero
l’aggettivo abnormis, che è ciò è fuori d’ogni regola e scuola, donde,
poi: a(b)normale.
Tengo a
sottolineare che i latini dedussero similis da: (sema) σῆμα, da tradurre:
segno, che, inizialmente, indicò il segno della gravida, per cui
asserirono che i segni afferenti alle gravide non sono uguali, ma hanno molti
elementi in comune. Sempre da σῆμα gli italici ricavarono: insieme, in quanto,
in quel contesto, mamma e creatura stanno insieme, i verbi: sembrare,
assembrare, assemblare ecc.
Con il verbo
(deiknymi) δείκνυμι: mostro, indico, faccio vedere,
faccio conoscere, il pastore greco disse che il segno della
gravida era per lui anche un far vedere, un far conoscere;
da questo verbo fu dedotto l’aggettivo verbale (deictόs) δεικτός: mostrabile/mostrato, da cui (deiktikòs) δεικτικός; dimostrativo. Poi, dal verbo il deverbale: (deigma) δεῖγμα: modello, esempio, quindi: (deixis) δεῖξις: mostra, esposizione, forza del pronome
dimostrativo, deissi, anche: paradigma e paradigmatico. Quindi,
da quel grembo, che mostra, che indica, fu dedotto: (apodeictόs) ἀπο-δεικτικός: apodittico, dimostrativo, che convince, di
valore scientifico, in quanto quel segno, attualizzandosi, divenendo
creatura, come tutte le altre volte, dimostra ciò che era in nuce.
Ci sono due
verbi latini: sero seris, serui, sertum, serere:
intreccio, annodo, lego insieme, concateno e sero
seris, sevi, satum, serere: semino, pianto,
genero, procreo, che sono sicuramente omografi, al presente, e
forse anche omofoni. La lettera (esse) s può rimandare al δ e al θ dei greci. In
questo caso, per sero/sertum, è da decodificare con il δ di legare,
mentre per sero/satum è da attribuire al δ il
significato di mancare. In altri casi può leggersi θ con il valore
di crescere. Da sero/concateno fu dedotto il deverbale series:
serie, catena, ordine, quindi: inserisco, inserimento,
serto, inserto, inserzione, poi quella creatura che
sviluppa una serie di anelli abbandona (deserit) la postazione cui è
legata. Il pastore latino, che legge lo sviluppo del grembo come opera
della creatura che cresce all’interno, deduce che, con la nascita, la creatura abbandona
il luogo assegnato e dal participio passato desertus: abbandonato
ricava l’aggettivo deserto/diserto, attribuendo il
significato di: disabitato, vuoto, incolto per cui Dante
poté dire: “… e ancor nulla/era per Francia nel letto diserta”.
Sallustio, inoltre, quando dovette indicare le distese assolate e desolate
della Libia, riutilizzò: (loca) deserta, per indicare il deserto.
I latini, e non solo, aggiunsero tanto disprezzo per il disertore e per
la diserzione.
C’è un altro dedotto
su cui occorre soffermarsi: assero/assertum: trarre a sé, fare
proprio, dichiarare come proprio (schiavo), dichiarare libero.
Quella creatura, nascendo, poteva essere tratta a sé dal padre, che la
riconosceva/ dichiarava/proclamava propria. Quindi il verbo asserire servì
per indicare un fatto culturale della civiltà romana: proclamare pubblicamente
la decisione del pater familias per quanto riguardava i nati. Poi, da asserto
fu dedotto assertore, nel senso di patrocinatore, difensore,
protettore, liberatore, e, successivamente, asserzione. Infine, si ebbe conserere:
legare insieme, congiungere, incrociare,
avvincere, unire per cui si ebbero: conserere manus/proelium
e anche: a braccia conserte.
Da sero/satum,
che rimanda al mancare del seme, si ebbe satus: seminato e
da ciò che è stato seminato si ricava di più/abbastanza: satis,
da cui saturo e insaturo, saturare. Molto probabilmente
dalla radice sat (dal mancare il tendere), con l’aggiunta del suffisso
ura (ciò che si genera) si ebbe satyra e nel senso di un genere in
cui c’è di tutto (satyra lanx), ma soprattutto ad indicare il mancare come
irriverenza, derisione, come bisogno sociale di qualcosa di diverso
dall’esistente, per cui Orazio poteva dire: ridendo castigat mores. Inoltre, da
sero/satum si ebbe insero/insito nel senso di innestare/innestato
di piante viventi, l’una dentro l’altra, ma anche nel senso di innato e
di impresso da natura.
Il pastore
latino o italico deduce, talvolta, da parole/radici greche nuove catene
linguistiche. Da (mothos) μόθος: tumulto,
strepito della lotta, battaglia, che sono metafora del
sussulto della creatura in grembo, i latini formularono una nuova radice mob/mov
e il verbo mov-eo/motum: metto in moto, agito, scuoto.
C’è da sottolineare che la radice del supino rimanda a (moth) μοθ, che si può tradurre: quando cresce in grembo la creatura, mentre
la radice del presente si può rendere: durante la permanenza della creatura.
Da questi percorsi logici furono dedotti: mobile, moto, mosso,
smosso, rimosso, remoto, commosso, commozione ecc.
Inoltre, i latini con motor motoris indicarono chi agita la culla,
mentre con amoveo pensarono alla creatura che, nascendo, viene allontanata,
viene portata via, viene sottratta. Mi piace sottolineare la
sensibilità del pastore che si commuove per quel sussulto. Inoltre, quando
si parla dei moti del 1820/21 si attribuisce il significato di (mothoi) μόθοι, così come quando nel mio dialetto si dice: nan’ pigliat’ i mot’
(è stato preso dai sussulti di chi sta per morire).
I greci avevano
coniato il verbo (sepo) σήπω: faccio
imputridire, corrompo, guasto, da questo percorso mentale: quando
la carogna cresce a dismisura (in quanto il sigma rimanda a θ con il
significato di: crescere), deducendo l’aggettivo verbale (septos) σήπτος: corrotto/corruttibile e con l’alfa privativa ricavarono: asettico.
I latini si avvalsero di questo verbo per dedurre: σηπ-elio/sepelio: seppellisco, sepolto, sepoltura,
disseppellisco, insepolto.
Da (thapto) θάπτω: seppellire, rendere gli onori funebri gli italici
dedussero: tappo e tappare, pensando all’urna cineraria che
veniva tappata. Voglio ricordare che nel mio dialetto tapto, per
apofonia è divenuto tipto, generando antippare (turare) e
‘ntippul’ (turacciolo).
I greci avevano coniato (thura) θύρα: porta, da cui in italiano protiro, ma anche tur-acciolo
e ot-turare. A questo punto bisogna ricordare che thyra è
metafora dell’organo femminile, per cui da questa radice gli italici dedussero:
tirare, il ritiro, ritirare, attirare e finanche stiramento,
quello muscolare.
I latini
coniarono pars partis: parte, partito, fazione mediante
questa perifrasi: fa dallo scorrere (durante la gestazione) il legare,
cui consegue il tendere (la spinta, tante spinte) fino al mancare
finale, che è la nascita. Il pastore latino individua la parte di un
tutto nella crescita graduale del grembo. Da questo nome fu dedotto il
verbo partio/partior: separo, divido, suddivido,
ripartisco. Da questo verbo fu ricavato impartior/impertior: do
la parte, faccio parte di qualcosa a qualcuno: impartiri
indigentibus de re familiari. Gli italici dedussero il verbo partire in
quanto il legame iniziale della creatura indica anche il punto di
partenza. Da parte fu dedotto anche appartenere, ma anche le
parti (tirare le parti ed anche: essere dalle parti di, nel senso di essere
vicino a) e in dialetto: la località si trova ampart’ a (dalle parti
di). Quindi si ebbe parziale, imparziale, particola, particolare,
il particulare del Guicciardini, particella, parcella, parcellizzazione.
Poi si formò particeps
participis: partecipe, partecipante, che prende parte,
che rimanda alla creatura che è composta di tante parti. Si sottolinea che ceps
cipis è una perifrasi che, tra l’altro, aveva dato luogo ad anceps ancipitis:
bifronte, a doppio taglio, ambiguo, incerto, di
doppio senso, significati che vogliono rappresentare un’ascia a due tagli,
Giano bifronte, una moneta che resta in verticale (nel mio dialetto si dice: ancrist’,
ad indicare che resta come la cresta del gallo) o un significato incerto o non
ben definito. Inoltre, ceps cipis aveva dato luogo a princeps: il
primo (fra tanti), il principe, poi: il principale o a municeps:
l’abitante del municipio, quindi, da municeps fu dedotto municipio.
Molto probabilmente si tratta (il municeps) di colui che ha compiti/funzioni/obblighi
nei confronti dei Romani.
I greci avevano
coniato (meiromai) μείρομαι: ricevo
la mia parte, ottengo, ho in sorte, da cui dedussero (moira) μοίρα: parte, porzione, fato destino e (meros) μέρος: parte (del tutto), compito, incarico, funzione,
stima, conto. Con il verbo medio, sulla base del determinismo
meccanicistico, avevano pensato che tutti gli accadimenti fossero opera della moira
e che ad ognuno toccasse una parte nella vita e con parte indicarono: porzione,
funzione, compito e, quindi, ricompensa. I latini, che si
avvalsero della radice mer per formare il verbo mereo/mereor, cui
attribuirono, con il participio passato, i significati: merito, guadagno,
sono meritevole, si soffermarono sul concetto di ricompensa, sulla base
del compito o della funzione svolti in un processo produttivo, pervenendo al
concetto di merito, che è ciò che uno ha meritato con la quantità e
qualità della prestazione. Logicamente, il significato di merito è,
spesso, unilaterale.
La parola,
quindi, legge un contesto in fieri e, per questo motivo, ha molti risvolti e
molte deduzioni. Da un desueto fertus /ferta, con il
significato di colei che ha portato, fu dedotto fertile. Tanto fu
possibile, in quanto φέρω/fero rimandò,
inizialmente, al portare in grembo. Per lo stesso motivo i greci coniarono (euforos)
ἔυ-φορος: produttivo, fruttifero e, poi, (eyforia) εὐ-φορία: fertilità.
Inoltre, gli italici, con euforia indicarono lo stato d’animo di
soddisfazione e di contentezza per la gravidanza e, quindi, per la nascita
della creatura.
Da (ago) ἄγω che indica il
condurre il gregge fu dedotto agile. Probabilmente, da muto mutonis,
che è il membro virile, i latini dedussero mutilus e mutilare,
in quanto, nell’attività del pastore, la castrazione era molto praticata.
I greci
avevano coniato (belos belous) βέλος βέλούς: arma da getto, come deverbale di (ballo) βάλλω: lanciare, mentre i latini, che conobbero belos, se ne
servirono per formare, molto probabilmente, bellum, che è l’azione
contro chi odio per torti subiti, ma anche per coniare belox/velox, ad
indicare che da dardo si deduce il concetto di velocità. C’è da
aggiungere che la variante arcadica di βάλλω è (zello) ζέλλω che dette luogo, in italiano, a: arzillo, a gingillo, mentre,
nel mio dialetto, fu dedotto: anzillare (si dice di un asino che
recalcitra) e nel dialetto del cosentino: zillus’ (ad indicare persona
intrattabile, che ha sempre da ridire, per quanto ci si sforzi di accontentarlo).
Da (kelon) κῆλον: dardo, saetta, freccia, con lo stesso processo
logico, i latini dedussero celere, quindi: celerità, accelerare,
decelerare, acceleratore.
Da (arpé) ἄρπη: falcone, sparviero, nibbio
furono dedotti: Arpia, arpione, arpionare, mentre il genio
di Molière, da (arpaghé) ἁρπαγή: avidità, rapacità, ideò Arpagone. I greci ebbero
anche: ἄρπαξ (arpax), rapido.
I latini
apportarono alla radice arp una metatesi di posizione: rap, per
cui coniarono: rap-io, rapito, rapitore, rapina, rapinare,
rapinatore, rapace, mentre gli italici idearono: ad-rap-fare/arraffare.
Inoltre, dalla rapidità del raptus (rapimento), Dante poté dire: amor
ch’al cor gentil ratto s’apprende ecc. Furono dedotti anche raptus, come
moto improvviso che attiene alla psichiatria, come rapimento dell’ispirato e
forse anche il ratto per la sua velocità.
Da (lakìs
lakidos) λακίς λακίδος: brandello,
laceramento, spaccatura, che rimanda al tessuto lacerato e con
qualche brandello, quando si rompono le acque, i latini dedussero lac-er,
quindi: lacerare, lacerato, lacerazioni, dilacerare.
I latini
coniarono il verbo volare da (bolé) βολή: getto, lancio e definirono gli uccelli volucres. I
greci chiamarono l’uccello (ornis ornithos) ὄρνις ὄρνιθος, che si può considerare un deverbale di ὄρνυμι: sorgo, mi levo, balzo, faccio
sorgere, la cui perifrasi si può rendere così: quando cresce il levarsi,
determinando l’andare a mancare, che è il modo per indicare l’uccello
che scompare in volo.
Da (leros) λῆρος: vaniloquio, i latini dedussero: deliro, aggettivo, delirare,
delirio.